Ci sono persone che più di altre lasciano segni indelebili nelle nostre vite. Persone senza le quali buona parte di quello che abbiamo fatto e deciso sarebbe stato diverso. Persone che, molto spesso, non possiamo più nemmeno ringraziare.
A quasi vent’anni dalla sua scomparsa sono qui a ricordare il mio amico Mario, morto nel gennaio del 1989 di una malattia genetica chiamata fibrosi cistica, altrimenti detta “mucoviscidosi”. Una malattia degenerativa inarrestabile, che già all’età di cinque anni lo aveva privato di un polmone.
Che si potrebbe pensare di un ragazzo consapevole di avere gli anni contati, di vivere una vita a termine? Cosa avreste fatto voi, cosa avrei fatto io, al suo posto? Negli anni tra la metà e la fine degli ’80 il sottoscritto era un ventenne perfettamente sano, e tuttavia malinconico, pessimista, incline alla tristezza.
Io di Roma, lui di Bologna (insieme al fratello Maurizio con cui avevo stretto amicizia anni prima), passavamo estati intere a Pianello, girando con gli scooter, passeggiando, facendo bagni al fiume, suonando ed ascoltando musica nei garages, “studiando” le ragazze.
Mario era sempre gioviale, di buon umore, spiritoso, con una vocazione alla battuta sagace. Celava i suoi problemi fisici con un atteggiamento indolente, mascherandoli da pigrizia. La cosa incredibile è che ci ingannò tutti, nessuno capì quali fossero le sue reali condizioni se non dopo la sua morte, che arrivò inaspettata.
Suo fratello Maurizio ci raccontò tutto solo dopo. Di come Mario sapesse da tempo che difficilmente avrebbe superato la soglia dei trent’anni, di come si fosse documentato sui testi medici fino a scoprire di non avere speranze, di come avesse finito per accettare questa condizione, scegliendo di non infliggerla ad altri. Mario non ebbe mai una fidanzata, visse in solitudine il suo dramma senza che noi, i suoi amici più vicini, neppure lo sospettassimo.
Ricordo ancora il giorno del funerale, ancor più che di dolore ero preda di una rabbia disperata, bruciante, di un senso di ingiustizia. Rivedo il manifesto funebre recitante un assurdo “…Mario Zagni, di anni 28…”, la chiesa di Pianello, quella bara di legno che assolutamente non poteva contenere una persona tanto vitale. La processione a piedi fino al cimitero. Le lacrime versate e non asciugate, dall’inizio alla fine.
La morte di Mario cambiò la mia vita in una maniera imprevedibile. La rabbia per una fine tanto assurda ed ingiusta mi spinse fuori dal guscio di ignavia e nichilismo in cui vegetavo. Forse avrei anche potuto sprecare la mia vita, se fosse stato solo per me, ma non potevo farlo nei confronti di quello che era successo a lui. Vivere era diventato per me un dovere nei confronti di chi non poteva farlo più.
E tanto bastò a tirarmi fuori dal vuoto in cui stavo sprofondando ormai da anni: feci scelte, corsi dei rischi, vissi fino in fondo i miei sogni ed i miei desideri. La scomparsa di Mario fu la molla capace di catapultarmi in una nuova vita. È brutto pensare che ciò che sono ora sia iniziato dalla morte di un carissimo amico, ma è quello che è successo.
Ora ho un debito che non sarò mai in grado di ripagare, con una persona che non c’è più. Ogni anno torno a salutare quella lapide di marmo, a guardare la foto che scattai in un giorno d’estate, e che la sua famiglia volle scegliere come sua più rappresentativa. Da quella foto Mario mi guarda con un sorriso dolceamaro, immobilizzato in un’epoca che non esiste più, in una giovinezza che non procederà più oltre.
Io invece sono di qua, nel mondo dei vivi. Cerco di non sprecare i miei giorni, consapevole di questo dono prezioso e niente affatto garantito. Vivo senza risparmio tuffandomi in cento cose diverse. Il ricordo di Mario è sempre più sbiadito, ma la rabbia per la sua morte assurda è ancora tutta lì, assieme al dolore, e non se ne vuole andare.
Io faccio da poco la stessa cosa per mio figlio Roberto. Morto quasi nato ormai 2 anni fa. Vado al cimitero e gli prometto che vivrò la mia vita con la curiosità e la gioia che immagino avrebbe avuto lui. Il dolore non passa, anche adesso mentre scrivo mi viene il magone come tutte le volte che passo al cimitero. Rimane un grazie senza confini per la forza che ogni giorno mi dona.
Ti mando un abbraccio… 😦
bellissimo post. grazie di averlo scritto.
Grazie a te per averlo letto.
Caro Marco, è uno scritto bellissimo. Questo è il modo più nobile e “vitale” per dare un senso alla morte di chi abbiamo amato. Io ho perso un figlio adolescente, moltissimi anni fa. Ma proprio in circostanze come queste ti accorgi che il tempo non esiste, che è solo una convenzione umana. E il tempo non addormenta affatto il dolore, però lo trasforma. Può trasformarlo in un potente motore di vita e di comprensione, come è accaduto a te. Allora quelle vite preziosissime che ci sono passare accanto come una cometa diventano dei Maestri. A differenza di te, io non ritengo che tutto finisca qui. E’ una convinzione che non ho maturato su basi religiose (non mi piacciono le religioni, che sono strutture di potere, soprattutto quelle monoteiste), ma che ho sempre sentito con grande forza dentro di me e la vita me ne ha date molte conferme. E anche dal punto di vista razionale, che tutto sia casuale e che non tanto il corpo, quanto quelle che chiamiamo emozioni, sentire, affetti, scompaiano senza lasciare traccia, che tutto questo immenso dispiegarsi di forme innumerevoli – in un universo in cui tutto ha un senso precisissimo – non abbia alcun senso, mi appare una contraddizione insanabile. Ma se, anche chi è convinto che poi tutto finisca, sa dare un senso così nobile alla vita, come tu fai, in realtà nulla si perde comunque.
Ciao Francesca,
La “perdita” è una percezione di chi resta, come l’esistenza è una percezione di chi “esiste”.
Anni fa un mio amico perse una figlia in un incidente d’auto, poco più che diciottenne, e si/mi domandò, tra le lacrime: “…non sarebbe forse stato meglio se non fosse mai nata?”
Io gli risposi: “non dirlo nemmeno per scherzo. E’ stata viva, felice. Forse per pochi anni, ma questo non significa nulla. Una vita breve non è migliore o peggiore di una vita lunga, è solo diversa. Certo, avrebbe potuto fare ancora molte esperienze se non si fosse interrotta, ma non è certo questo un motivo per desiderare di buttarla via. E’ stata la sua vita, rispettala, anche se l’avresti voluta diversa.”
Mi rispose: “ci penserò…”, spero in qualche modo di averlo aiutato ad elaborare la perdita.
Ho scritto anche un’altra riflessione su questo tema (con una premessa lunga e un po’ noiosa)
Magari il tuo sentimento religioso la rende superflua, ma potrebbe aiutare qualche tuo amico/a non credente.
Buon Natale Marco! Certamente che la perdita è una sensazione di chi resta e, soprattutto, ti rendi conto che quello che ti rende più reale la perdita è in relazione al senso. Toccare, abbracciare, sentire, ascoltare, odorare. Chiudi le braccia …e c’è il vuoto. Quello che non si perde affatto invece, è l’amore. Rimane forte, pur se impalpabile e non scema affatto. Quel che va assolutamente eliminato è il dolore. Non è facile, ma è proprio per il motivo che dici: il rispetto per quella vita, l’accettare la sua durata e la gioia incomparabile di averla avuta accanto. Non ho mai pensato che sarebbe stato meglio non fosse nato, no! E’ ovvio che il nostro diverso punto di vista ci pone da due prospettive diverse, ma alla fine, sia per chi crede che per chi non crede la perdita di una persona amata non sia facilmente accettabile. La mia visione non contempla un Dio che elimina o fa soffrire gli esseri umani per un suo fine che viene definito imperscrutabile. Chi lo vorrebbe un Dio così?
Ho letto il post a cui fai riferimento e l’ho trovato molto importante infatti. Gli argomenti che poni sono quelli di Epicuro: quando la morte c’è non ci sono io e quando ci sono io la morte non c’è. Tutto parte dall’enunciato di Parmenide: è è – non è non è. Così anche un grandissimo epicureo, Leopardi, non credente, è vero, ma con che animo eroico ha affrontato la sua vita.
C’è stato un convegno molto interessante sulla morte, di cui ho scritto, e ti posto il link
http://emiliashop.wordpress.com/2012/09/09/dinanzi-al-morire-percorsi-interdisciplinari-dalla-ricerca-allintervento-palliativo/
Un carissimo saluto
Il dolore non è eliminabile, ma il comprendere che è un dolore “per noi stessi” aiuta a rimetterlo in prospettiva. La sofferenza non è nei confronti di chi è morto: il morto non soffre più. Sono i vivi, quelli che restano, a soffrirne la mancanza, ad aver perduto qualcosa, a dover “elaborare”.
Ogni perdita è una proiezione della “perdita di sé” che dovremo prima o poi subire. Ogni perdita ci rammenta che la nostra vita è a termine, e ci colma di terrore.
Ho letto l’articolo che mi hai linkato. Su una cosa, fondamentalmente, concordo: la morte è un rimosso nella nostra cultura, un tabù che in ogni modo si cerca di esorcizzare. Ritengo che ciò sia una proiezione dell’etica soggiacente al capitalismo: far assurgere ad unico fine il possesso e l’accumulo non può coesistere con l’idea della perdita di tutto che coincide con la morte. Dare importanza all’avere non può comportare che il negare importanza alla condizione di più totale “non avere”. Per questo chi muore sparisce immediatamente dall’orizzonte degli eventi. Chiuso, inscatolato, archiviato. Per questo il Natale è diventata la santificazione dell’orgia consumistica, e al 2 novembre, giorno dei morti, si cerca semplicemente di non pensare.
Francamente non so dirti se e quando questa cultura si ravvederà e troverà il modo di scendere a patti con un’idea dell’esistere meno rudimentale e scadente, con un’idea del vivere come percorso di relazione con gli altri e non semplicemente un accumulo di oggetti. In questo momento storico arrivismo ed egoismo risultano vincenti, e si dovrà attendere una fase storica diversa per riscoprire i valori dell’equilibrio e della pienezza dell’esistere.
Hai ragione sul fatto che ogni perdita è in qualche modo anche una perdita di sé, o come tale può essere vissuta, ed è proprio per questo motivo che si hanno poi forme di “lutto patologico”, quando il lutto non viene elaborato e tutto viene ricondotto a una mutilazione dell’io, piuttosto che a un evento possibile dell’altro. Del resto, un evento è tale proprio perché avviene “per me”. Perché ne faccio esperienza io stesso. Il dolore diventa non sopportabile proprio quando è un fatto egoistico, perché allora sì diventa una “morte” in vita. Ma non sempre deve essere così. Può rimanere il dolore per ciò che l’altro ha vissuto e sofferto, il dolore per non aver saputo alleviare o capire, il che non è esattamente un atto egoistico, ma la condivisione della vita dell’altro.
Se il dolore ha radice nella paura della propria morte, sì, diventa pesante e poco tollerabile. Ma si può anche non aver paura della morte.
Anche io, come te, attribuisco alla dissennatezza dei tempi in cui viviamo, all’orgia materialistica e vuota dell’avere che si identifica con l’essere, la totale rimozione della morte. E questa rimozione, come tutte le rimozioni, ha ovviamente un effetto deflagrante. In passato ero molto ottimista per quanto riguardava la natura umana. Ritenevo che nell’uomo dominasse sempre la tendenza al bene, al di là di tutto. Ora sono molto più incerta al riguardo. Penso che il bene lotti sempre per emergere e spesso non ce la fa. E tuttavia, fragile e delicato com’è, pur calpestato riemerge sempre, in qualche forma, in qualche parte. La tentazione del male è sempre più allettante ma, come dice il Faust di Goethe, è quella forza che sempre vuole il male e sempre opera il bene. Se è così, se è questo che si comprende, c’è allora un equilibrio, una pienezza che annienta ogni paura.
Io che invece modestamente e con moltissimi interrogativi ancora “credo”, sono felice di pensare ad un Mario nella gioia e senza sofferenza, felice nel leggere le bellissime parole che gli hai dedicato, come solo un amico vero avrebbe saputo scrivere.
Ti ringrazio!