Un punto che non mi torna riguardo i buchi neri

Quest’idea mi gira in testa da ormai troppo tempo, e non ho trovato nessun astrofisico volenteroso interessato a validarla. Per quanto mi riguarda non sono in grado di maneggiare la matematica delle equazioni della Relatività Generale, posso esporre la mia tesi solo a livello di idea. Nonostante ciò mi pare una tesi solida, e a questo punto la scrivo qui, magari in futuro la ritrovano e mi assegnano un premio postumo (o mi sbertucciano definitivamente, ma tanto a quel punto non mi interesserà più).

I Buchi Neri emergono come ipotesi dalle equazioni della Relatività Generale di Albert Einstein, e presentano caratteristiche e comportamenti molto lontani dall’esperienza comune. Una di queste caratteristiche è la cosiddetta ‘Singolarità’ centrale. In buona sostanza, tutta la materia che viene inghiottita da un buco nero continua a cadere verso il centro di gravità e si concentra in un punto di densità infinita. Questa eventualità entra in conflitto con altre descrizioni matematiche delle realtà, in primis con la Meccanica Quantistica.

Negli oggetti supermassicci l’effetto della gravità viene fermato da una delle forze che in fisica prendono il nome di ‘interazioni fondamentali’. Nella materia ordinaria è l’interazione elettromagnetica a porre un limite alla densità degli oggetti (in combinazione con la natura ondulatoria degli elettroni che occupano gli strati esterni degli atomi).

Aumentando la spinta gravitazionale, come ad esempio nelle stelle al termine della propria vita, la pressione gravitazionale è talmente forte da schiacciare gli elettroni sui protoni, dando vita alla materia collassata di cui sono composte la c.d. Nane Bianche. I singoli atomi non esistono più ma è ancora l’interazione elettromagnetica ad impedire che i protoni si uniscano tra loro.

Aumentando il peso del resto stellare l’interazione elettromagnetica non basta più, gli elettroni vengono assorbiti dai protoni generando un nucleo stellare composto essenzialmente solo da neutroni (quella che gli astrofisici chiamano, appunto, una Stella di Neutroni). In questo caso a fermare il collasso è l’Interazione Nucleare Forte.

La teoria è che con una massa sufficiente, anche l’interazione Nucleare Forte non basti a fermare il collasso, e si produca un Buco Nero. Quello che emerge sviluppando le equazioni matematiche è un paradosso, ovvero un punto centrale privo di dimensioni e di densità infinita, a cui i fisici hanno dato il nome di ‘Singolarità’.

La Singolarità non è però visibile, perché ad una tale densità il buco Nero produce una deformazione dello spaziotempo, generando il famoso ‘Orizzonte degli Eventi’, una sfera, geometrica ed immateriale, corrispondente alla distanza dal Buco Nero alla quale nulla può più uscire fuori, nemmeno la radiazione luminosa.

Come già scritto, non sono in grado di affrontare l’idea sul piano matematico, ma l’intuito mi porta a ragionare su quello che so, seguendo percorsi diversi da quelli dei grandi fisici. Una questione che pure emerge dalle equazioni di Einstein è che la gravità rallenta il tempo. Questo fatto è stato dimostrato con gli orologi atomici e svolge un ruolo chiave nella funzionalità dei dispositivi GPS, che sfruttano orologi atomici in orbita la cui posizione, più lontana dal centro di gravità terrestre di quelli al suolo, comporta che il loro tempo scorra lievissimamente più in fretta.

Avvicinandosi al Buco Nero lo scorrere del tempo rallenta ancor più vistosamente. Una delle caratteristiche dell’orizzonte degli eventi è che il tempo sulla superficie della sfera geometrica sia sostanzialmente fermo. Questa informazione l’ho ricavata da alcuni testi divulgativi. Ora, se il tempo è fermo sull’orizzonte degli eventi, deve essere altrettanto fermo al suo interno, e questo consente di evitare l’esistenza di una Singolarità.

La Singolarità, questa è la mia tesi, non può prodursi perché, per un osservatore immerso nel tempo reale, la materia in prossimità del centro gravitazionale del Buco Nero è immobile nel tempo: non può ‘cadere’. Quindi che avviene? Semplicemente, nel momento in cui si materializza unl’Orizzonte degli Eventi, questo funge da separatore tra uno spazio esterno, dove il tempo continua a scorrere, e uno spazio interno dove il tempo è fermo. La materia che raggiunge l’Orizzonte degli Eventi smette di cadere verso il centro, perché il suo tempo soggettivo smette di scorrere.

Osservato dall’esterno, il Buco Nero del mio modello non è distinguibile da quello ‘classico’, consistente in uno spazio vuoto con al centro una Singolarità. Risulta tuttavia composto da una serie di ‘gusci’ concentrici di materia ultradensa immobilizzata nel tempo, che quindi non va a formare una Singolarità.

Mi piacerebbe sentire il pensiero di un astrofisico capace di maneggiare le equazioni matematiche per capire se c’è un vizio logico in questa mia ipotesi, perché io non riesco a trovarne.

https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Black_Hole_in_the_universe.jpg

Di parole mancanti e manipolazione del consenso

Oggi vi propongo una riflessione sul linguaggio, ovvero su come le parole, la loro disponibilità o la loro assenza, ottengano di costringere gli schemi mentali collettivi dentro binari ben precisi, finendo col modellare l’indole profonda dei popoli. Il punto di partenza di questa riflessione è la recente decisione del Comune di Bologna di abbassare a 30km/h il limite di velocità dei veicoli in transito su strade caratterizzate da elevata frequentazione pedonale, mantenendo il precedente limite di 50km/h solo sui viali di scorrimento. Questa decisione ha generato un’alzata di scudi da parte degli automobilisti, che si sono sentiti ‘limitati nei propri diritti e nella propria libertà’.

Su quanto sia difficile definire un’idea condivisa di libertà ho già avuto modo di ragionare [1], ora mi interessa sviluppare i temi dell’organizzazione sociale e dell’azione dell’autorità, e lo farò partendo da una parola che ho scoperto non esistere nella lingua italiana. Per preparare il terreno dovrò prima chiarire il peso e l’importanza delle parole nella costruzione di un’idea del mondo, e lo farò partendo dai modelli numerici.

Nel mondo contemporaneo sopravvivono ancora, in regioni remote e lontane dai contatti con la civiltà industriale come le isole o la foresta amazzonica, popolazioni che vivono all’età della pietra. Queste popolazioni sono organizzate in piccoli gruppi su base tribale e praticano forme di sussistenza basate su caccia e raccolta. Gli antropologi le studiano per comprendere meglio i meccanismi dell’evoluzione culturale umana.

Nello specifico, per quanto riguarda i modelli numerici sono state scoperte due differenti culture tribali nella giungla amazzonica che utilizzano sistemi numerici semplificati: una di esse è in grado di contare fino a cinque, l’altra solo fino a tre [2]. Che significa questo? Che la loro percezione delle quantità è precisa fino al punto in cui è possibile assegnare una parola, oltre quella parola è, genericamente, ‘di più’. Quindi i valori che possono essere memorizzati e comunicati sono: uno, due, tre, ‘più di tre’. I numeri che noi associamo a otto, dieci, dodici, duecento, sono tutti ‘più di tre’, risultando di fatto indistinguibili.

L’evidenza è che quelle popolazioni non hanno necessità di utilizzare concetti di quantità superiori a tre (o cinque) nella loro esperienza di vita, non praticando usi e costumi che richiedano un conteggio numerico preciso per i grandi numeri. Questo non è un indice di scarsa intelligenza, perché poi, magari, sanno distinguere quali parti di vegetali siano commestibili e quali no per un migliaio di piante diverse. Semplicemente il cervello umano struttura il linguaggio in base alla necessità di maneggiare, e comunicare ad altri, determinati concetti.

Un ulteriore esempio riguarda il mondo arabo ed i cammelli. Mentre nella cultura europea/occidentale il cammello viene vissuto come un animale esotico, nel mondo arabo ha rappresentato una parte integrante della vita quotidiana per millenni, al punto da aver generato oltre un centinaio di parole specificamente ad esso associate [3]. Quello che nella nostra lingua indichiamo con giri di parole, del tipo ‘la gobba del cammello’ oppure ‘lo zoccolo del cammello’, nella lingua usata da persone abituate ad averci a che fare dalla mattina alla sera ha finito col generare una serie di termini specifici.

Allo stesso modo l’evoluzione tecnologica ha prodotto un linguaggio tecnico suo proprio, con termini come sifone (idraulica), carena (navi), fusoliera (aeroplani), cirri (meteorologia), byte (informatica). Più in generale ogni cultura modella il proprio linguaggio forgiando termini specifici per i concetti maggiormente utilizzati. In questo senso l’assenza di un termine specifico può dire molto sulla mancata padronanza del concetto ad esso collegato.

Tornando all’inizio della discussione, ovvero l’introduzione del limite a 30km/h, il Comune di Bologna ha lasciato trascorrere diversi mesi prima di introdurre misure per garantirne il rispetto. Quest’azione, nella lingua inglese, possiede un termine specifico: il verbo ‘to enforce’. Un amico bilingue mi spiegava che esiste questa ossessione (opinione sua) delle popolazioni anglofone per avere un termine specifico per ogni oggetto o azione, laddove nell’italiano ci accontentiamo di usare giri di parole e similitudini con quanto già esistente.

A farla breve un singolo verbo italiano per tradurre l’inglese ‘to enforce’ non esiste. Il significato viene ricostruito attraverso un giro di parole. Il più calzante è: organizzare modalità tali da imporre il rispetto di una legge/norma/regolamento’. Non già ‘imporre’, quindi, ma proprio ‘organizzare’. Questo vuoto concettuale, secondo me, riflette un errore di fondo nell’approccio complessivo della nostra cultura ai processi di soluzione dei problemi.

Nella lingua italiana esistono sia l’idea che una legge/norma/regolamento possano essere imposte ex-novo alla popolazione tutta, sia che queste leggi/norme/regolamenti possano essere rispettate o meno dai soggetti interessati, ma manca il passaggio intermedio, ovvero l’idea che azioni concrete possano o debbano necessariamente essere messe in atto dall’autorità per obbligarne il rispetto. Non è la prima volta che incappo in questo tipo di situazioni [4], ma è la prima volta che mi riesce di inquadrarle chiaramente.

Nella nostra cultura tipicamente si stabilisce una norma, si definiscono le pene per chi non la rispetti, e poi si sta a guardare cosa succede. I ‘buoni’ rispettano la regola, i ‘cattivi’ la infrangono. Se i ‘cattivi’ sono in abbondanza, o si ingenerano proteste, un successivo governo o un’autorità di livello superiore potrà ammorbidire o abrogare la norma. Non c’è l’idea che le decisioni collettive debbano riguardare il benessere della società, e che per questo motivo sia necessario che la collettività le adotti compattamente.

Resta questa idea condivisa di ‘libertà individuale’ per cui se la legge non ti piace la infrangi, e se vogliono punirti ti devono prima cogliere sul fatto. E che l’autorità disponga di mezzi e strumenti per contrastare l’evasione delle norme, ma se questi mezzi non sono sufficienti o adeguati, pazienza, vuol dire che la norma non si riesce a far rispettare. È talmente normale ed accettato che se sei ‘bravo’ la norma la evadi, che chi ci riesce è visto con ammirazione.

Un esempio su tutti riguarda l’evasione fiscale in questo paese. Coi moderni sistemi informatizzati non sarebbe un problema insormontabile effettuare controlli incrociati per stanare gli evasori, ma le leggi non li prevedono, e la popolazione non possiede l’idea di ‘to enforce’ una legge, per cui si accetta una situazione paradossale che vede la Guardia di Finanza effettuare indagini specifiche su un numero ristretto di singoli reati, mentre la maggior parte di essi sfugge ai controlli.

Dalla prospettiva di un osservatore esterno, se manca l’idea stessa che un’azione possa e vada effettuata, il fatto che non si realizzi appare perfettamente normale. Se manca l’idea che le norme, una volta definite, debbano anche essere fatte sistematicamente rispettare, può apparire perfettamente normale che i controlli siano occasionali e le regole stesse in larga misura evase, è una delle eventualità che metti nel conto. È ‘normale’.

Discorso analogo per quanto riguarda la c.d. ‘sosta d’intralcio’, o ‘doppia fila’. La norma che vieta tale forma di abuso esiste, ma le infrastrutture stradali, per contro, la consentono. Come si risolve questa contraddizione? Da parte di chi la pratica, con gli alibi (“non dà fastidio a nessuno”, “è solo per un attimino”, “ma io come devo fare?”, “allora fateci i garage” che, quando ci sono, nessuno usa). Da parte di un osservatore esterno si può solo concludere che la tolleranza nei confronti delle infrazioni sia parte integrante del progetto stesso, data l’inefficacia di tentare di reprimere un comportamento diffuso con interventi estemporanei.

L’amara realtà è che la sosta in doppia fila è funzionale ad alimentare l’uso e la vendita di autovetture, e reprimerla comporterebbe un calo degli utili dei comparti economici connessi, quegli stessi comparti che finanziano i partiti politici e ungono gli ingranaggi dei meccanismi burocratici [5]. Il problema dell’amministrazione corrotta diventa quindi come far accettare un comportamento negativo senza nel contempo apparire condiscendenti. La difficoltà (relativa) sta nel generare norme che a parole affermano una cosa, e nei fatti realizzano il contrario, nel più classico dei Processi di Inganno [6].

Condizione chiave perché il Processo di Inganno funzioni è che la collettività non sia in grado di comprenderne appieno i meccanismi occulti. Mancando l’idea stessa che una norma funziona solo se espressamente fatta applicare (‘to enforce’), la popolazione non si stupisce più se una regola poi non viene rispettata. Oltretutto, col passare del tempo, una volta instaurate situazioni di illegittimità diffusa queste diventano la nuova normalità, ed ogni tentativo di trasformarle innesca reazioni stizzite.

Ciò discende in gran parte dall’ambiguità di fondo che la nostra cultura riserva all’idea di rispetto delle leggi. Il fatto che non esista un termine specifico per indicare ‘l’azione organizzata e necessaria da parte dell’autorità per imporne l’osservanza’, l’idea di ‘enforce, la dice lunga su quanto poco siamo culturalmente attrezzati a realizzare una società organizzata da regole stabilite per massimizzare l’interesse collettivo.

Va aggiunto che, in fondo, questa idea di un’autorità che ci lascia fare quello che vogliamo, ai più piace. La macchina amministrativa può serenamente affermare “io la regola l’ho dettata, se poi in tanti non la rispettano non posso farci nulla”, e nessuno si renderà conto della contraddizione in termini. Si scrivono leggi redatte per consentire di evaderle, e nessuno è in grado di impedirlo, perché manca l’idea stessa che le leggi debbano essere ‘enforced’ per essere efficaci, e che le azioni per ottenere il loro rispetto debbano necessariamente essere organizzate e pianificate.

Una collettività funzionale è quella consapevole che l’emanazione di una norma debba comprendere le modalità di garantirne il rispetto. Se la norma non viene rispettata non si invoca il caso o lo scarso interesse, se ne chiede conto all’autorità che l’ha emanata. In assenza di tale consapevolezza, l’autorità può benissimo emanare norme inapplicabili per favorire qualche tipo di interesse privato, e la collettività non sarà in grado di rendersene conto.

Mantenere una popolazione inconsapevole dei meccanismi che consentono di approfittare di essa è una modalità estremamente efficace di manipolazione del consenso.

Immagine: Wikimedia Commons

Il fallimento del cicloattivismo

Garden spider and spider web (ca.1893–1927) print in high resolution by Gerrit Willem Dijsselhof.
Original from the Rijksmuseum. Digitally enhanced by rawpixel.

Ho speso la maggior parte della mia esistenza a ‘far cose’ collegate alla bicicletta: pedalando in solitaria o con amici, ideando tracciati, guidando ciclo-escursioni, partecipando al mondo dell’associazionismo come semplice attivista e/o presidente di associazione, come membro del Consiglio Nazionale della FIAB, partecipando alla Critical Mass romana e, per quanto molto occasionalmente, alla vita delle Ciclofficine, immaginando ciclovie urbane (il GSA – Grande Sentiero Anulare), avviando esperienze di cicloescursionismo estemporanee attraverso il forum Cicloappuntamenti, facendo crescere il movimento #Salvaiciclisti, tenendo corsi, scrivendo libri, infine trasferendo le mie competenze in un’azione amministrativa, purtroppo di breve respiro, e ultimamente da semplice blogger.

Dei sessant’anni, che compirò a breve, le attività suddette ne hanno interessati oltre trentacinque. Assieme a me decine di altre persone, ognuno/a a dare il proprio contributo generosamente ed in maniera disinteressata. I risultati conseguiti, in termini di realizzazioni ciclabili e trasformazione degli stili di vita, restano tuttavia molto, ma molto al di sotto delle aspettative: scarsi, raffazzonati, insoddisfacenti. Cosa ho sbagliato, cosa abbiamo sbagliato, nel corso di tutti questi anni? Direi tanto. Principalmente a causa del fraintendimento di aspetti chiave, imputabile all’ingenuità con cui è stata affrontata la questione.

Il parallelo che mi pare ora più calzante è quello della mosca intrappolata nella tela di un ragno. La mosca ci finisce dentro volando, perché non è in grado di vederla per tempo, quindi ci rimane invischiata a causa della natura appiccicosa della tela stessa. Dimenandosi allerta il ragno, che prontamente arriva, finisce di imbozzolarla e la utilizza come pasto. Fine della mosca.

In questa metafora le mosche sono, evidentemente, i cicloattivisti e gli attivisti ambientali più in generale. La cosa più interessante di questo parallelo è la ragnatela in cui gli attivisti finiscono intrappolati, che non ha una controparte concreta e risulta invisibile proprio in quanto immateriale. Comincerò però col parlare del ragno, che invece è un’entità concreta, intenta a cibarsi di una varietà di insetti, ovvero di esistenze… di persone reali… di noi.

Il ragno è l’incarnazione del sistema consumista all’interno del quale le nostre esistenze sono forzate a svolgersi. Esso esiste da molto prima della nostra nascita e, con molta probabilità, continuerà ad esistere dopo la nostra morte. Il ragno si nutre del lavoro della popolazione, da cui trae forza e nutrimento. Per obbligare la popolazione a provvedere alle proprie necessità, il ragno tesse una tela fatta di idee e convinzioni. Una tela immateriale, tenuta in essere grazie al controllo dei mezzi di comunicazione.

Noi tutti nasciamo avvolti in questa tela, fatta in parte di realtà oggettive, tangibili, e in parte di menzogne. La porzione attinente le realtà oggettive è chiaramente visibile, quella relativa alle menzogne risulta nascosta. Finché ci si comporta come l’organizzazione sociale si aspetta da noi, riusciamo a non incappare nella sua parte nascosta. Quando usciamo dai binari, quando proviamo a trasformare la realtà, è la rete di menzogne che consente di renderci innocui.

La parte più consistente della popolazione non ha problemi a stare nei ranghi, accetta di vivere nella porzione visibile della rete, quella legata alla realtà percepita, di svolgere la propria attività produttiva e venirne remunerata quel tanto che basta a mantenere un livello di soddisfazione generale funzionale alla sopravvivenza del ragno e della sua rete. Gli individui cui la rete ‘va stretta’, quelli che provano ad apportarvi delle modifiche, vanno incontro ad un destino diverso.

La trappola funziona in quanto invisibile, essendo costruita all’interno delle convinzioni stesse che ognuno di noi coltiva sulla natura della realtà. È solo quando mettiamo alla prova queste convinzioni che realizziamo la loro inconsistenza. E tuttavia, anche di fronte all’evidenza, la realtà che ci si para di fronte appare a tal punto incoerente, irragionevole, a tratti insostenibile, faticosa da inquadrare nel modello di relazioni sul quale basiamo le nostre azioni, da farci rifuggire dall’accettarla.

Ci viene insegnato che il sistema funziona sulla base di determinate dinamiche di causa-effetto, in un quadro coerente che non accetta inceppamenti. Quando incappiamo nei processi di inganno, semplicemente non disponiamo degli strumenti culturali in grado di comprenderne la funzione, perché siamo convinti che il loro esistere rappresenti un difetto sistemico ingestibile. La realtà è che il sistema integra i meccanismi di inganno a tal punto da farne le proprie fondamenta, mentre tutto quello che ci viene raccontato, inclusi i meccanismi di causa-effetto che ci vengono insegnati fin dall’infanzia, è unicamente funzionale alla manipolazione collettiva.

Siamo stati convinti che la politica fosse guidata da processi democratici, con la popolazione che elegge i propri rappresentanti e questi poi operano per il benessere collettivo. La verità è molto più complessa e rimane nascosta ai più, che dal canto loro risultano poco propensi a porsi domande. La realtà è che le sedicenti istituzioni democratiche sono l’esito finale di un processo di metamorfosi dei sistemi di potere, che le hanno adattate ed adottate a proprio vantaggio nel momento in cui le forme di governo autocratiche (dittature) si sono rivelate disfunzionali. Ma si è trattato di un cambiamento di facciata, funzionale alle necessità di chi gestisce il potere reale, il potere economico.

Siamo stati convinti che la stampa e i giornali raccogliessero le notizie per informarci, generando un ritorno economico dallo svolgere onestamente questo lavoro. La realtà è che i giornali guadagnano molto di più da chi ha interesse a fornirci solo una parte delle notizie, confezionate in modo da orientare il nostro modo di pensare in maniere a loro favorevoli e, soprattutto, redditizie. Questo ha fatto sì che le sacrosante rivendicazioni relative alla sicurezza stradale, alla salute pubblica, alla vivibilità dei centri abitati, rimanessero marginali nel dibattito collettivo.

Siamo stati convinti che la rete ed i social-network potessero rappresentare un potente strumento di comunicazione e di democrazia diretta, quando si sono rivelate soltanto un potentissimo mezzo di profilazione individuale, utilizzato per marginalizzare il più possibile ogni forma di dissenso, oltreché l’ennesima ‘arma di distrazione di massa’, funzionale al controllo sociale.

Siamo stati convinti, o ci siamo auto-convinti, che le istanze maturate ‘dal basso’ potessero essere veicolate ai rappresentanti politici e trasformate in realizzazioni concrete. Lo abbiamo visto accadere altrove ed abbiamo pensato che fosse possibile anche qui. Non era vero. L’organizzazione politica stessa funziona da filtro per impedire che le istanze prodotte ‘dal basso’ possano disturbare i padroni del vapore.

Ci siamo convinti che fosse possibile ‘diffondere il verbo’ della ciclabilità, portandolo all’attenzione di una popolazione accorta ed attenta, in attesa unicamente di un vento di novità, di un cambiamento in meglio. Era un’idea sbagliata. La popolazione ‘accorta ed attenta’ si è rivelata solo una fantasia autoconsolatoria, i mezzi di comunicazione a nostra disposizione si sono dimostrati ininfluenti. Ce la siamo suonata e cantata fra noi, mentre il mondo all’esterno restava sordo e distratto.

Vista a posteriori ha fatto bene chi si è ‘perso per strada’, chi ha gettato la spugna, chi si è trovato altro da fare. Il sistema si è rivelato monolitico ed inscalfibile, pronto solo a buttarci qualche briciola per mantenere in noi l’illusione di stare ottenendo il cambiamento di rotta tanto auspicato, mentre quelle stesse briciole (corsie ciclabili, rastrelliere, servizi) venivano poi regolarmente riassorbite dal degrado, a causa dell’assenza di investimenti, di manutenzione, di interesse, in molti casi perfino di una ragion d’essere.

Vista a posteriori non poteva andare diversamente. Stupido io a crederlo. La trappola in cui sono caduto era stata collocata dentro di me fin dal principio, non sono stato capace di vederla in tempo. A ciò aggiungo un senso di colpa ulteriore, per avere convinto altri della possibilità di un mondo migliore, di una realtà diversa. Ora è semplicemente troppo tardi per dare un corso diverso alle mie azioni, al mio percorso di vita. La mosca è in trappola e il ragno ha vinto. Fine dei giochi.

Il Peccato Originale dell’Umanità

Dopo gli orrori di due guerre mondiali ed il tecno-ottimismo del dopoguerra, la consapevolezza che si va facendo strada in quest’inizio di terzo millennio è che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nel rapporto tra le culture umane e gli equilibri della biosfera. Da diversi millenni definiamo ‘risorse’ tutto ciò che sia anche vagamente sfruttabile, dopodiché, se non intervengono costi insostenibili, procediamo a consumare tali ‘risorse’ fino ad esaurimento. In questo processo la popolazione umana è oltretutto aumentata senza controllo, causando un’inevitabile crescita della domanda di beni, cibo ed energia.

Per secoli la tecnologia ha provveduto ad individuare ed attivare sempre nuove ‘risorse’, alimentando questa corsa all’esaurimento globale e generando, come sottoprodotti, diverse forme di inquinamento. Tra queste la più inquietante è l’aumento di CO2 atmosferica, conseguenza della secolare combustione di carbone fossile ed idrocarburi, che sta producendo un surriscaldamento globale, con conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Ma questo lo sappiamo già, perlomeno ne sono consapevoli i lettori di questo blog. Ora mi interessa comprendere quale sia l’origine della distruttività umana, ovvero l’approccio alla gestione dell’esistente che, con un chiaro rimando biblico, ho finito col bollare come ‘Peccato Originale’ della nostra specie. Su questo tema ho già ragionato in passato [1], ma la conclusione più recente non ha mancato di stupire anche me.

Per individuare tale errore proverò a seguire un processo di esclusione. Non molto tempo addietro, avrei probabilmente indicato come principale responsabile della devastazione planetaria la cultura consumista alimentata dall’ideologia che prende il nome di Capitalismo Liberista, semplicemente perché quest’ultimo si è dimostrato il sistema economico più efficace ed aggressivo nell’assalto alle ‘risorse’ del pianeta. Ora non più.

Le ideologie moderne sono, alla prova dei fatti, solo sovrastrutture culturali: stanno alle pulsioni umane come gli utensili stanno al lavoro finito. Di fatto le alternative al Capitalismo Liberista si sono dimostrate solo di poco meno efficaci, e per contro probabilmente altrettanto distruttive. Quel tanto ‘di meno’ che è bastato a far perdere loro, forse solo temporaneamente, il terreno del confronto economico, e non certo a renderle meno impattanti. Alcune delle principali catastrofi ambientali su scala planetaria (penso al prosciugamento del Lago d’Aral [2]) sono state messe in atto dai sistemi socioeconomici comunisti, in questo non migliori delle loro controparti capitaliste.

Ad accomunare queste due ideologie, contrapposte unicamente dall’aspirazione al dominio geopolitico, è la pretesa di rappresentare la miglior possibile fonte di benessere per le popolazioni ad esse assoggettate. In cosa consista complessivamente questo ‘benessere’ è solo l’ideologia stessa a poterlo definire. In generale per ‘benessere’ viene intesa la soddisfazione dei bisogni dei cittadini. Bisogni che, ad esclusione di quelli essenziali, possono facilmente essere pilotati dalla propaganda, che nei sistemi socialisti è esplicita, mentre nei sistemi capitalisti prende il nome di pubblicità.

Nello specifico, se la soddisfazione dei bisogni primari è generalmente in grado di garantire una miglior salute psicofisica degli individui, inseguire la soddisfazione dei bisogni indotti dai mezzi di comunicazione di massa tende a produrre diffusi danni psichici (dipendenze) o sanitari (obesità, malattie collegate ad eccessi alimentari, sedentarietà ed abuso di sostanze psicotrope).

Per contro osserviamo come le collettività dipendenti da bisogni culturalmente indotti (a prezzo, come già detto, di danni alla salute fisica e mentale collettiva) risultano anche più facilmente manipolabili in termini di aggressività. Queste popolazioni tendono a sviluppare capacità militari tali da poter aggredire, sottomettere e fagocitare le meno ideologizzate collettività circostanti. L’ascesa degli imperi dell’antichità, come pure di quelli moderni, può esser facilmente riletta in questa chiave interpretativa.

È, per certi versi, una formulazione alternativa di quello che in tempi lontani ebbi a definire ‘Paradosso Maori’ [3]: puoi scegliere per te una vita serena, ma sei perennemente a rischio di soccombere a causa di chi vive una vita stressata, che risulta inevitabilmente più aggressivo ed irrazionale.

Tornando alla nostra ricerca del ‘Peccato Originale’ saremmo portati a pensare che l’errore della nostra specie sia stato il ‘volere di più’, diventato in ultima istanza un ‘volere troppo’. Ma il ‘volere di più’ non è un’esclusiva della nostra specie. Tutte le forme di vita condividono questa pulsione. L’individuo che riesce ad ottenere ‘di più’ rispetto agli altri suoi simili ne risulta avvantaggiato. ‘Volere di più’ è uno dei driver dell’evoluzione darwiniana, e pertanto va escluso.

Esiste tuttavia una differenza importante tra animali ed un esseri umani, consistente nelle dimensioni del cervello e, di conseguenza, in una maggiore capacità di manipolare il proprio ambiente. Per un animale la capacità di ottenere ‘di più’ è limitata; la nostra è ordini di grandezza superiore. Un animale può al più aspirare ad avere del cibo in eccesso, dopo aver raggiunto la sazietà, o più partner con cui accoppiarsi. Un umano può finanche desiderare di essere inumato, dopo la propria morte, in una piramide costruita appositamente per lui, attraverso il lavoro di migliaia di suoi simili e dissipando la ricchezza di un’intera nazione, ed ottenerlo.

Ovviamente questo non è un esempio generalizzabile. Non tutte le civiltà umane sono risultate ugualmente inclini alla megalomania. Se gli antichi romani si sono mossi a far guerra a tutti i popoli confinanti, finendo col conquistare ed asservire l’intero bacino del Mediterraneo e parte del Nord Europa, di contro esistono ancora oggi popolazioni che praticano stili di vita non conflittuali, e vivono praticando forme di sussistenza basate su caccia e raccolta. Inevitabilmente tali popolazioni subiscono la pressione dei gruppi umani più aggressivi, che mirano ad appropriarsi di territori ricchi di qualunque ‘risorsa’.

Qual è la differenza tra questi due stili di vita? Da un lato abbiamo popolazioni, convinte di ‘stare bene’, che conducono da millenni un’esistenza semplice e scarsamente impattiva, di fatto conservando, gomito a gomito col mondo moderno, forme di civiltà tipiche dell’età della pietra. Dall’altro abbiamo popolazioni che fin dall’antichità hanno ragionato sulla possibilità di ‘stare meglio’, fantasticando di migliorare il proprio stile di vita per mezzo delle innovazioni tecnologiche.

L’approccio occidentale, tecnocratico, aggressivo e consumista è risultato premiante per molti versi, principalmente perché ha generato armi e macchinari tali da consentirci di asservire il resto del mondo ai nostri desiderata, e di disporre di massivi strumenti di comunicazione per veicolare le nostre convinzioni. Su molti punti si è oggettivamente dimostrato efficace, quantomeno in termini di benessere percepito: viviamo più a lungo, siamo in grado di curare molte malattie, abbiamo una bassa mortalità infantile.

Per contro spendiamo le nostre vite in contesti artificiali, separati dalla natura e dai suoi ritmi, malamente sopportando la conseguente sofferenza psichica, svolgiamo lavori ripetitivi, siamo inclini a diverse forme di dipendenza, pratichiamo stili di vita sedentari e modalità di alimentazione irrazionali, che minano la nostra salute. Questo rende difficile stabilire quanto effettivamente le popolazioni della nostra cultura ‘stiano meglio’ delle altre popolazioni umane, con le quali condividiamo il pianeta. Ci basiamo principalmente sul benessere percepito.

Anche ammesso di ‘stare meglio’, idea sulla quale la maggioranza di noi concorda, resta il fatto che questo ‘meglio’ ha un prezzo, il cui pagamento stiamo demandando alle generazioni a venire (impossibilitate a protestare per il fatto stesso di non esistere ancora). La nostra civiltà consumista sta, nella pratica, consumando il mondo che ha ereditato a velocità crescenti, e pare inevitabile debba scontrarsi, presto o tardi, coi limiti della biosfera.

La risposta collettiva a questa drammatica evidenza è nei termini di quello che gli psicologi definiscono ‘processo di negazione’: ci raccontiamo che il problema non esiste. Tale risposta è, evidentemente, il riflesso collettivo di un bias cognitivo, atteggiamento che tendo a definire ‘Bias Culturale’. Come individui, ignorare l’esistenza di un problema ci aiuta ad affrontare la vita con maggior serenità. Su un piano collettivo, estendere ad altri questa convinzione consente alla nostra cultura di ritenersi nel giusto nell’asservire manu militari le altre e governare il mondo. Un esempio tra i tanti dell’efficacia dei famigerati ‘Processi di Inganno’ [4].

L’obiettivo iniziale di individuare un ideale ‘Peccato Originale’ della nostra cultura appare a questo punto raggiunto. Il problema attuale dell’umanità nasce da un combinato dell’iniziale desiderio di ‘stare meglio’ con la sistematica rimozione della consapevolezza di tutte le conseguenze negative generate dal soddisfacimento di questa aspirazione. Questa evoluzione culturale non deve stupire, data la nostra natura di esseri fondamentalmente irrazionali [5].

La percezione di benessere è condizione necessaria per la nostra stabilità psichica. L’urgenza di un suo conseguimento immediato bypassa facilmente le preoccupazioni sulle conseguenze negative che potrebbero conseguirne. Occorre una rigida disciplina per diventare capaci di anteporre la prospettiva di un benessere sul lungo periodo alle gratificazioni immediate.

La cosa probabilmente più preoccupante è che il processo di ricerca del massimo soddisfacimento, individuale e collettivo, tende ad autoalimentarsi, poiché l’unico freno all’edonismo appare essere la scarsità di risorse, e questo vale sia per i singoli individui che per le collettività. È più facile, direi quasi inevitabile, indulgere in eccessi quando si sperimentano condizioni di abbondanza. Oltretutto, più l’eccesso si protrae, più viene introiettato e normalizzato, aprendo la strada ad eccessi ancora più estremi, col rischio di sviluppare forme di dipendenza psichica.

Alla fine di questa lunga riflessione non ho probabilmente acquisito alcun elemento radicalmente nuovo, ma il quadro complessivo mi appare più chiaro, le relazioni di causa effetto più nette. Viviamo per ottenere soddisfazioni, semplicemente perché il raggiungimento di tali soddisfazioni ha consentito ai nostri predecessori di continuare a vivere.

Il limite tra soddisfazioni ed eccessi non è netto, né il varcare la soglia di tale limite necessariamente punitivo. Indulgere in eccessi può apparire premiante sul breve termine e non necessariamente negativo sul lungo termine (e in ogni caso la prospettiva di un ‘lungo termine’ può semplicemente essere ignorata).

Sul lungo termine la corsa dell’umanità a ricercare la massima soddisfazione nel più breve termine possibile non può che portare al collasso catastrofico degli ecosistemi. Non essendo in grado di controllare il processo, non siamo neppure capaci di cambiarne la inevitabile conclusione.

Cosa accadrà in seguito a tale collasso non dipenderà tanto da noi quanto dalla natura della catastrofe stessa. Un collasso troppo repentino, o troppo estremo, porterà alla scomparsa della nostra specie. Un collasso graduale potrebbe lasciarci il tempo per adattare i nostri stili di vita alle nuove condizioni, e continuare ad esistere come specie, per quanto in un mondo molto impoverito ed ostile.

In estrema sintesi, come affermo da tempo, “solo una catastrofe ci salverà” [6].
A patto, però, che sia la catastrofe ‘giusta’.
E questo non potrà dipendere da noi.
Quantomeno non consapevolmente.


[1] – Il Peccato Originale e le sue conseguenze

[2] – il Lago d’Aral (Wikipedia)

[3] – Il Paradosso Maori

[4] – Sui Processi di Inganno

[5] – Razionalità vs Volontà

[6] – Catastrofismo ottimista

C’era una volta il GSA

Il GSA, o Grande Sentiero Anulare, è un’idea che ha trovato piena formalizzazione poco meno di vent’anni fa, nel 2006. [1] L’idea consisteva nell’effettuare un giro in bicicletta, ad anello, circumnavigando il centro storico della città di Roma sfruttando i parchi urbani e tratti di piste ciclabili di raccordo. Si partiva dalla Piramide Cestia entrando nel comprensorio del Parco dell’Appia Antica (Caffarella, Tor Fiscale, Acquedotti), ci si riallacciava alla Riserva dell’Aniene per mezzo della ciclabile di viale Palmiro Togliatti (interrotta ancora oggi) e di qualche raccordo ‘avventuroso’, quindi si seguiva il corridoio fluviale dell’Aniene fino alla Nomentana, proseguendo su pista ciclabile fino a Villa Ada, poi Villa Borghese, per rientrare a Piramide pedalando sulla banchina del fiume Tevere. L’intero anello si sviluppava per circa 50 km, che ad un’andatura tranquilla impegnavano l’intera giornata.

Dopo averlo proposto a più riprese, in diverse salse e con diversi gruppi di appassionati, per quasi un decennio, fui colto dall’insana idea di ‘farne dono’ alla cittadinanza in maniera formale, presentandolo al Comune di Roma come un progetto organico. L’idea iniziale era di risolvere pochi punti di discontinuità, come l’assenza di attraversamenti pedonali in un paio di intersezioni critiche (Appia Nuova e Nomentana) ed una rampa di discesa su scale (Salaria), in più aggiungere una cartellonistica minimale di segnalazione del tracciato, per evitare che i fruitori si perdessero nel percorrerlo.

Purtroppo la partnership individuata per raggiungere l’attenzione delle istituzioni decise bene di prendere il controllo del progetto e modificarlo, un pezzo alla volta, finendo con lo stravolgerlo completamente. Quella che era nata come soluzione al problema di attraversare la città ‘in punta di piedi’, rispettando le diverse presenze consolidate, divenne ben presto una sorta di ‘autostrada ciclabile’, con un’ampiezza di sede incompatibile con molti dei passaggi fortunosi individuati al momento della tracciatura.

Sui motivi di questa trasformazione non mi dilungherò, come pure sulla correttezza o meno delle scelte operate di concerto con gli enti amministrativi. Si potrebbe argomentare che la prospettiva di uno sviluppo turistico del progetto richiedesse una messa in sicurezza del percorso, che non poteva prescindere dall’ampliamento della sede di percorrenza. Fatto sta che questa nuova ‘invasività’ del tracciato non ha mancato di sollevare reazioni avverse, soprattutto da parte di associazioni ed enti preposti alla tutela e salvaguardia delle aree verdi. Prima si sono mossi i comitati di Villa Ada, poi a seguire altre realtà, al punto che ora il tracciato non entra più nemmeno nella valle della Caffarella, ma si limita a percorrere la via Appia Antica, assieme a parte del traffico veicolare, in un tratto costeggiato da due muraglioni che escludono dalla vista ogni tipo di attrazione paesaggistico/culturale.

Se a questo si aggiunge la decisione di non impegnare la banchina del Tevere, dove è già presente una pista ciclabile molto utilizzata, scegliendo di entrare dentro quartieri già affollati e trafficati (Flaminio, Prati) si completa lo stravolgimento dell’idea iniziale, che era quella di usare i parchi urbani per muoversi attraverso la città. L’intera metamorfosi ha richiesto quasi un decennio, ed il risultato finale è che la sovrapposizione tra l’originale GSA e l’attuale GRAB si è ridotta, calcolando a spanne, a meno della metà del tracciato. Quel che si è perso, nella trasformazione, attiene principalmente alla varietà e diversità dell’esperienza proposta, che era la vera chiave d’interesse, a mio parere, dell’idea originaria.

Questo è ciò che avviene quando un’istanza prodotta dal basso, da soggetti che hanno ben chiara un’idea di fruizione del territorio, finisce in mano a politici e burocrati privi della capacità di comprendere ciò che stanno maneggiando. Si parte da un’idea complessa ed articolata partendo a smantellare, pazientemente ma inesorabilmente, tutto quello che non si è in grado di comprendere, mancando delle necessarie categorie mentali, fino a ritrovarsi in mano un prodotto finale che conserva dell’originale la sola apparenza, avendo perso per strada il cuore e l’anima.

Nei lunghi anni trascorsi dalla data della prima presentazione ho avuto modo di arrabbiarmi parecchio, nel vedere come la mia creatura veniva fatta a pezzi e peggiorata. Ma il processo è andato avanti così tanto che l’attuale GRAB effettivamente non rispecchia più per nulla l’idea originaria. Non la rispecchia più al punto che potrò serenamente ignorarlo, e continuare a fruire, da solo o con piccoli gruppi di amici, quello che era il percorso originario, o una delle sue numerose versioni alternative. Perché, questo è il punto, l’attuale GRAB non ha finito col danneggiare le realtà naturali a cui tenevo: ne è stato espulso, ottenendo di non stravolgerle. Se questo significherà anche un crollo dell’appetibilità nel percorrerlo, motivata dall’assenza dei tanti punti di interesse rimasti fuori dal tracciato, è sicuramente presto per dirlo. Il tempo giudicherà.


[1] Il sito del G.S.A. (sostanzialmente abbandonato da parecchio tempo)

Ambientalisti Anonimi

“Tutti pensano a cambiare il mondo, nessuno a cambiare se stesso”
(Lev Tolstoj)

Nel mio personale ‘divenire grande’, processo iniziato verso la metà degli anni ‘70 ed attualmente in divenire, non ho tardato a realizzare che molte cose del mondo non mi andavano a genio. Odiavo le guerre, odiavo l’idea che si dovesse distruggere l’esistente semplicemente per fare spazio a ‘cose nuove’, come pure che molti miei simili si appassionassero a ‘cose inutili’. Questo faceva di me, se non un disadattato tout-court, quantomeno un personaggio col quale era relativamente difficile relazionarsi.

Crescendo ho iniziato a convogliare questo mio dissenso in azioni concrete, volte a ‘raddrizzare’ un’organizzazione collettiva che percepivo come profondamente insoddisfacente. Il tutto in forme molto ingenue e ‘soft’, dato che altrettanto ingenua era stata la mia formazione politica e culturale fino a quel momento. Cominciai a definirmi ‘ambientalista’, perché individuavo nell’ambiente naturale, nella sua tutela e nella necessità di trovare un equilibrio con esso, la priorità per partire a ‘sistemare’ i guasti sociali.

Questo percorso di attivismo mi ha portato in contatto con altre persone che condividevano la mia visione della realtà, finendo col modellare la mia intera rete sociale. Se fin qui vi sembra la descrizione della canzone “Quattro Amici al Bar” di Gino Paoli [1] non vi sbagliate di molto. Poi gli anni sono passati, gli amici andati e venuti, è arrivato un matrimonio, è arrivata una famiglia. Il mondo è però rimasto com’era prima. Anzi, è peggiorato. A quel punto ho dovuto accettare, obtorto collo, l’idea che tutto il mio daffare era servito davvero a poco, se non a niente del tutto.

L’ostinazione mi era invece rimasta, ho quindi provato ad analizzare cosa fosse andato storto. È stato a quel punto che ho realizzato come nulla fosse realmente ‘andato storto’, semplicemente erano errati i presupposti da cui partivo. Era errata, in estrema sintesi, la convinzione che l’esistente tenda ad evolvere da una condizione inizialmente insoddisfacente ad una successiva più soddisfacente. O, se vogliamo, era errata l’idea stessa di ‘progresso’.

Percezione
La prima questione riguarda la percezione collettiva di cosa sia da ritenersi ‘insoddisfacente’. Le società umane sono composte da un elevato numero di individui, ognuno/a con proprie aspettative e desideri. La realtà che viene ad emergere dalle interazioni reciproche di questa moltitudine di individui ne riflette i desiderata e le aspettative, compatibilmente con le disponibilità di risorse. Quindi il primo appunto va all’idea stessa che una qualsiasi condizione, arbitrariamente scelta, possa essere collettivamente percepita come ‘insoddisfacente’, perché risultato di un assestamento che ha finito col soddisfare al meglio le aspettative collettive.

O, per altri versi, potrà pure essere percepita complessivamente come ‘insoddisfacente’, ma per motivi diversi da persona a persona. Un esempio su tutti: la distribuzione della ricchezza. Per i gruppi sociali a basso reddito sarà ritenuta insoddisfacente, e da correggere (troppa disparità), mentre per i gruppi sociali ad alto reddito sarà ritenuta insoddisfacente per il motivo opposto (troppo livellamento). Una condizione stabile sarà raggiunta quando le due insoddisfazioni speculari troveranno un equilibrio.

Manipolazione
La seconda questione riguarda le manipolazioni culturali alle quali siamo, collettivamente, sottoposti. La narrazione progressista afferma che le società evolvono da una condizione di minor prosperità ad una di maggior benessere collettivo, sulla spinta delle volontà individuali che si traducono in azione politica. Questo ‘meccanismo virtuoso’ (sempre limitatamente alla sfera umana) appare tuttavia facilmente corruttibile.

Stante che l’ammontare di ricchezza collettiva è un valore relativamente anelastico, la distribuzione di tale ricchezza dipende dalle scelte operate in sede politica. La politica, tuttavia, è a sua volta manipolabile, in via diretta ed indiretta. Diretta per mezzo di meccanismi corruttivi [2], indiretta attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione pubblica [3], operata dai grandi sistemi comunicativi: televisioni, giornali, carta stampata, intrattenimento. Tutti questi sistemi rispondono agli input delle rispettive proprietà, e possono facilmente veicolare le visioni della società e i modelli interpretativi più congrui con gli interessi che li alimentano.

Capitale Ambientale
Questo è un concetto che va introdotto ex-novo. Il ‘capitale ambientale’ è semplicemente il serbatoio di ricchezza dal quale l’umanità attinge per alimentare le proprie idee di ‘crescita’ e ‘benessere’. In estrema sintesi, ogni processo industriale inventato dalla preistoria ad oggi è finalizzato ad estrarre ricchezza dal ‘capitale ambientale’ per trasformarla in ‘benessere umano’, generando per contro un progressivo degrado della ricchezza ecosistemica complessiva.

L’agricoltura sottrae terre fertili alla vegetazione spontanea, inducendo una perdita di biodiversità ed un progressivo degrado dei suoli. L’allevamento aggiunge al processo precedente ulteriori livelli di inquinamento, consumo di acqua dolce ed alterazione delle faune microbiche. L’edilizia genera distruzione di terreni fertili, rilascio di sostanze tossiche ed inquinanti ed impermeabilizzazione dei suoli. Tutti questi processi vengono collettivamente rielaborati in termini di ‘progresso’ e ‘benessere’, perché osservati da una prospettiva totalmente antropocentrica.

Dissonanza Cognitiva
Sostanzialmente quella che ci raccontiamo, da millenni a questa parte, è una favoletta in cui l’ingegno umano ‘migliora il mondo’, con sempre nuove invenzioni mirabolanti, massimizzando la felicità delle popolazioni. La realtà è che l’ingegno umano opera sistematicamente, da millenni, a danneggiare sempre più in profondità un ecosistema planetario complesso che si è ritrovato per le mani, onde soddisfare i propri capricci estemporanei ed alimentare fantasie di potenza.

Da una prospettiva ambientalista questo comporta non tanto la necessità di rivedere singoli punti e modi di azione, al fine di limitare i danni, ma piuttosto interamente riscrivere, partendo da zero, tutte le filosofie umane preesistenti, rielaborandole in una prospettiva eco-centrica, per poi farle metabolizzare da otto miliardi di individui convinti dell’esatto contrario. Non proprio una passeggiata.

Ambientalisti Anonimi
Faccio ora un salto logico dai massimi sistemi all’esperienza personale. Dopo decenni di attivismo ambientale, principalmente legato al mondo del trasporto eco-sostenibile, recenti vicissitudini familiari e personali mi hanno motivato a fare più di un passo indietro. Su invito di un vecchio compagno di battaglie mi sono tuttavia ritrovato a partecipare ad una riunione di giovani attivisti ambientali, ritrovando a distanza di decenni lo stesso slancio ideale della mia gioventù, ma in un contesto complessivo molto più degradato.

Inevitabilmente mi sono rivisto in loro, ho provato empatia per le loro sofferenze, ma non ho potuto offrire loro il conforto di una prospettiva ottimista. La critica all’umanità intera, da me maturata nel corso dei decenni, è ormai talmente radicale da non trovare spazi in un’architettura interpretativa ancora legata ad idee come il ‘benessere umano’ o il ‘progresso’. Ho provato a starmene zitto e buono, al solito non riuscendoci, ed ottenendo solo di produrre reazioni infastidite.

La sensazione più netta è stata quella di partecipare ad una riunione del tutto analoga a quelle degli Alcolisti Anonimi [4] che si vedono in televisione, nelle fiction anglofone. Un cerchio di persone in cui ognuno pronuncia il proprio nome, saluta gli altri e quindi racconta un pezzettino della propria esperienza di vita, per condividerlo con persone che vivono la stessa condizione di sofferenza, e trovare in ciò un po’ di sollievo.

Inevitabilmente mi è sovvenuta la c.d. ‘Preghiera della serenità’ [5], che viene pronunciata nelle riunioni degli Alcolisti Anonimi, e l’ho trovata perfettamente calzante:

«Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che posso,
e la saggezza per riconoscere la differenza»

Si tratta, indubbiamente, di un processo di elaborazione del lutto. Il lutto della perdita dell’ingenuità, dell’ottimismo, della leggerezza… se vogliamo perfino del Futuro. Ho già affrontato in passato la questione dei bias cognitivi e culturali, evidenziandone la funzione rassicurante. Il ‘progresso’ e l’idea di ‘futuro’ sono due dei più potenti bias culturali, finendo col radicarsi nel sentire collettivo a tal punto da essere completamente scomparsi dall’orizzonte percettivo.

Per una questione meramente anagrafica, la mia capacità di elaborare il lutto per la perdita del futuro è significativamente maggiore di quella dei ventenni/trentenni. Tuttavia vedo anche la loro necessità di ‘lanciare il cuore oltre l’ostacolo’ come una forma di autodifesa da una realtà sostanzialmente inaccettabile. Certe prospettive sono oggettivamente insostenibili.

Orribile come deve essere stato il risveglio del popolo tedesco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nello scoprire di essere stati i macellai di popoli inermi, additati da tutto il consesso internazionale, così per i giovani ambientalisti odierni risulta inaccettabile l’idea dell’homo sapiens ‘macellaio di ecosistemi’, una creatura pronta a costruirsi giustificazioni e stampelle culturali pur di continuare a soddisfare la propria ingordigia a spese di tutto ciò che trova a portata di mano.

L’unica possibile soluzione, a meno di votarsi al martirio per una causa impossibile a vincersi, è l’accettazione del lutto. E rileggere la frase di Tolstoij, messa all’inizio di questo post, in una chiave diversa. Solitamente l’ho interpretata come una critica a chi non è in grado di cambiare, non solo il mondo, ma le proprie stese abitudini. Una sintesi del tipo: ‘se ognuno/a fosse capace di cambiare i propri comportamenti, non sarebbe necessario cambiare il mondo’.

Ora la reinterpreto in chiave diversa. Stabilito che il mondo non si può cambiare, individualmente e/o dal basso, semplicemente perché perfino i cambiamenti immaginati dalle frange ambientaliste più radicali sono al più ‘pannicelli caldi’, ininfluenti sul lungo termine, non resta altro da fare che ‘cambiare se stessi’ in modo da non voler più ‘cambiare il mondo’. Quindi rassegnarsi, elaborare il lutto, farci pace ed andare avanti.

Siamo una Specie di ‘macellai di ecosistemi’, e non da oggi, dalla notte dei tempi. Non siamo mai stati altro. Tutto quello che ci siamo raccontati, per millenni, sull’importanza del genere umano, sulla nostra lotta contro una ‘natura ostile’, sui nostri ‘successi’ e sulla nostra ‘grandezza’ sono balle. Ce le siamo fabbricate, raccontate, ci sono piaciute e ci abbiamo creduto. Purtroppo la realtà è un’altra.


[1] Quattro Amici al Bar (Youtube)

[2] I Processi di Inganno in pratica: la politica

[3] I Processi di Inganno in pratica: il sistema mediatico

[4] Alcolisti Anonimi (Wikipedia)

[5] Preghiera della serenità (Wikipedia)

Perché non scrivo più

Qualche giorno fa ho realizzato che non stavo pubblicando su questo blog da diverso tempo. Sono andato a controllare, restando abbastanza sbalordito dalla data dell’ultimo post, datato 21 luglio 2023. Era ottobre, ora siamo a novembre, sono passati quasi quattro mesi, cosa sta succedendo?

La realtà è che ho molto poco da scrivere e raccontare. Tutte le lunghe riflessioni dei mesi scorsi sull’emergere delle IdeoCulture, l’evoluzione delle società umane, i Processi di Inganno ed il ruolo dei media e della politica, hanno finito col delineare un quadro complessivo coerente, al quale non resta molto da aggiungere. Quella parte di ‘lavoro’ possiamo darla per completata.

Altro motivo della nascita di questo blog era dar conto dell’evoluzione delle mie ‘passioni’: musica, fotografia, fantascienza, bicicletta, viaggi ed altro ancora. Questa corrente di narrazione era andata declinando già da tempo, trasferendosi in parte su altri strumenti ‘social’ più affollati ed adatti a sostenere un dialogo pubblico.

Andando a scavare più a fondo, però, devo rilevare uno slittamento prospettico nella stessa percezione che ho di tali ‘passioni’, e del loro ruolo nella definizione della mia personalità. La frequentazione degli ambiti culturali legati alla psicologia, individuale e collettiva, mi ha portato a ridefinirne la rilevanza, sia individuale che sociale.

Se un tempo ero semplicemente ‘affascinato’ dall’ascolto della musica (o da particolari immagini, tanto da volerle riprendere), l’approfondimento operato nel corso degli anni mi fornisce ora una comprensione più strutturata, con conseguente perdita di molta della iniziale ‘magia’. La capacità acquisita di distinguere parti ritmiche, linee melodiche, armonizzazioni e sovrapposizioni di diverse voci e strumenti, finisce con lo smontare le esecuzioni nei loro elementi costitutivi, svelandone la recondita architettura.

Questa consapevolezza sottrae la musica da una qualsivoglia possibile narrazione, perché la sua fruizione rimane strettamente legata alle sensibilità individuali, alla capacità di distinguere ritmi ed armonie, al percorso conoscitivo personale. La stessa cosa si può dire di quasi tutte le arti. Il che rende sostanzialmente inutile ‘raccontare la musica’, almeno tanto quanto ‘raccontare’ la fotografia, la narrativa, o una qualsiasi forma artistica.

Più in generale, estendendo il discorso alle esperienze individuali viene meno la necessità di raccontarsi, di raccontare il proprio percorso esperienziale. L’unica materia sulla quale può avere ancora senso discettare sono le chiavi interpretative della realtà fattuale, cosa che ho fatto negli ultimi mesi. Ma anche su quelle sono arrivato ad una definizione complessivamente soddisfacente, e penso di avere poco da aggiungere.

Il motivo per cui non scrivo più è esattamente questo: ho esaurito gli argomenti sui quali valeva la pena di discettare ed ho parallelamente esaurito il bisogno di scrivere, di raccontarmi. Pace. Se ne sentirò nuovamente la necessità, tornerò ad alimentare queste pagine. Per adesso ho interesse a fare altro.

I Processi di Inganno in pratica: la politica

La lunga analisi sui Processi di Inganno ci ha condotti molto lontano dal comune sentire veicolato dalle narrazioni collettivamente condivise. Abbiamo visto come i Processi di Inganno emergano spontaneamente dalle esigenze organizzative delle società umane [1], e come finiscano con l’innervare ogni tipo di società, contribuendo allo sviluppo delle modalità di auto-domesticazione e producendo l’ascesa delle collettività più aggressive [2]. Si è quindi ragionato sul ruolo degli strumenti di comunicazione di massa nel veicolare le ideologie condivise e massimizzare l’efficacia dei gruppi sociali che in esse si identificano [3].

In questo modello interpretativo osserviamo collettività umane fortemente polarizzate, con la gran parte della popolazione (le masse) occupata nelle attività produttive, ed una frazione minoritaria (le élite) impegnata a gestire l’organizzazione del lavoro altrui e decidere degli indirizzi da dare alla collettività. Questa strutturazione non può fare a meno di indurre una auto-competizione, interna al gruppo sociale, per la distribuzione delle risorse.

Una frazione significativa della ricchezza collettivamente prodotta viene reinvestita nella gestione dell’organizzazione sociale. In questa chiave di lettura l’invenzione del denaro, avvenuta nell’antichità, ha rappresentato un fattore chiave nella strutturazione delle società complesse, facilitando l’organizzazione dei rapporti di forza e di potere all’interno delle collettività e conducendo ad un maggior ‘dinamismo’ delle società stesse.

Una società viene definita ‘dinamica’ quando è in grado di trasformarsi in fretta per far fronte alle difficoltà che incontra, caratteristica che la rende competitiva rispetto alle altre collettività. Il ‘dinamismo’ si traduce frequentemente in forme di aggressività e conflitti generalmente innescati dalle società ‘dinamiche’, che prevedono di uscirne vincitrici asservendo economicamente e culturalmente le collettività aggredite.

Esiste quindi un legame diretto tra ineguale distribuzione della ricchezza collettiva, ‘dinamismo’ ed aggressività delle singole società. Una società in cui le élite hanno modo di appropriarsi di una frazione importante della ricchezza collettivamente prodotta sarà più ‘dinamica’, e potenzialmente più aggressiva, rispetto ad un’altra in cui la distribuzione sia più equa (su questo punto torneremo più avanti).

È evidente qui come la strutturazione dell’organizzazione sociale emerga da un conflitto tra esigenze contrastanti. Da un lato le masse, produttrici di ricchezza, ritengono di aver diritto a disporre della maggior parte della ricchezza prodotta, dall’altro le élite, che organizzano e manipolano culturalmente le masse, sanno di dover drenare la maggior quantità di ricchezza possibile nelle proprie dirette disponibilità per poter svolgere con la massima immediatezza la funzione di organizzazione sociale.

Da questa tensione emerge l’esigenza di dar vita ad un’organizzazione capace di governare i processi sociali, incaricata di stabilire la percentuale di risorse collettivamente prodotte da destinare alle finalità di strutturazione e gestione della collettività, e di definire le modalità di organizzazione sociale. Tale organizzazione prende il nome di Governo’, e rappresenta un’articolazione della componente elitaria della società.

Le decisioni del Governo possono essere accolte dal consenso popolare oppure imposte con la forza. Quest’ultima funziona, ma è scarsamente gradita dalle masse che la subiscono, prestando il fianco al rischio di ribellioni organizzate ed insurrezioni. Il consenso, al contrario, può essere facilmente fabbricato e indotto grazie ai veicoli culturali. La ‘dinamicità’ di una società dipenderà quindi dal giusto equilibrio tra esercizio della forza e gestione del consenso.

Facciamo qualche esempio. Nelle prime civiltà della storia l’esercizio della forza era garantito dai corpi militari, mentre la gestione del consenso era demandata alle organizzazioni religiose. La natura divina degli imperatori veniva certificata dalle caste sacerdotali, la cui pervasiva funzione comunicativa convinceva il popolo che le decisioni prese dall’alto fossero nell’ordine naturale delle cose, e che convenisse obbedire non solo per le ripercussioni nel mondo reale, ma anche nell’aldilà.

Nel Medioevo europeo, nonostante l’evoluzione culturale, i Reali continuavano ad essere certificati dalla Chiesa Cattolica come regnanti per ‘Diritto Divino’, e le incoronazioni venivano obbligatoriamente sancite dall’autorità ecclesiastica, che si occupava anche del controllo e della veicolazione del sapere collettivo, condensato nei Testi Sacri. Non è stato raro il caso di regnanti colpiti da scomunica, con conseguente perdita del diritto a governare i propri possedimenti.

Solo l’avvento del Pensiero Scientifico riesce a marcare un cambiamento di passo, mettendo in discussione l’attendibilità dei Testi Sacri e scardinando l’autorità precedentemente indiscussa delle caste sacerdotali, finendo con lo spostare la gestione del consenso collettivo nelle mani di filosofi ed accademici laici. Allo stesso tempo vanno in crisi i modelli di governo gestiti dalle aristocrazie, perché in assenza di avvallo religioso viene meno anche l’obbedienza delle masse.

La razionalità (il nuovo totem collettivo spesso agitato a sproposito) suggerì quindi che le funzioni di governo dovessero essere demandate agli individui più idonei, indipendentemente dalla loro ascendenza, e che questi individui dovessero essere scelti per mezzo di un processo di investitura collettiva denominato ‘elezione’, attraverso il quale fossero investiti delle funzioni di governo della società. Questo processo ricevette il pomposo nome di ‘Governo del Popolo’, recuperando l’antico termine greco ‘democrazia’.

Di fatto la reale funzione dei governi democratici, come prima era stata per i governi autoritari, rimase quella di gestire la distribuzione della ricchezza collettivamente prodotta, in modo che la massima parte restasse nelle disponibilità delle élite in modo da garantire la massima ‘dinamicità’ dell’organizzazione sociale, proprietà che discende in maniera sostanziale dal fatto che le decisioni possano essere prese rapidamente (quindi giocoforza da pochi individui) e collettivamente accettate senza discussioni ed eccessive lungaggini.

La ‘dinamicità’ sociale, tuttavia, non discende unicamente dalla rapidità decisionale. Una società ‘dinamica’, nell’era delle innovazioni iniziata col Rinascimento e proseguita con la Rivoluzione Industriale, doveva anche essere capace di produrre innovazione: nuovi processi produttivi, nuovi assetti sociali, nuovi stili di vita, nuovi prodotti da veicolare all’immaginario sociale. Per ottenere questo risultato fu necessario ‘premiare’ gli individui più originali ed innovativi in ogni ambito, favorire l’apprendimento, lo studio e la ricerca, sia scientifica che artistica.

Questa seconda esigenza finisce col generare un primo inconveniente, perché una scolarizzazione diffusa ed un vivace humus culturale mal si conciliano con l’idea di accentrare i processi decisionali nelle mani di pochi individui. Una popolazione acculturata ed intellettualmente attiva tenderà ad opporsi ai processi di domesticazione [4], mettendo continuamente in discussione le decisioni prese ed opponendovisi più o meno vivacemente.

Il conflitto tra queste due esigenze rischia di degenerare in un’impasse, la cui unica soluzione efficace consiste nello sviluppo di un Processo di Inganno: occorre che la popolazione acculturata ed intellettualmente ‘dinamica’ venga convinta di partecipare effettivamente ai processi decisionali. Al contempo, per preservare la rapidità decisionale, occorre evitare che tale partecipazione si concretizzi.

In altri termini l’unica possibilità, per una collettività democraticamente organizzata, di rispondere alle esigenze di ‘dinamicità’ necessarie a risultare competitiva nel mondo moderno (rapidità decisionale + cultura diffusa) è quella di essere una democrazia svuotata, una mera apparenza. Questo può essere ottenuto per mezzo di una varietà di ‘fenomeni corruttivi’, la cui funzione ultima è riportare la gestione delle decisioni collettive in mano alle élite, sottraendola al controllo popolare.

A questo punto è necessario chiarire meglio cosa si intenda col termine élite nel contesto attuale. Essendo il denaro la principale fonte di potere all’interno delle collettività umane, le singole persone, o i gruppi di interesse, in grado di controllare ingenti quantità di denaro risultano anche i soggetti capaci di prendere decisioni ed imporle alla collettività. Singoli individui (i cosiddetti oligarchi) sono in questo un’eccezione, mentre più diffuse sono le entità collettive, come i consigli di amministrazione di banche e grandi società.

Questo modello combacia con l’idea che dal sistema economico capitalista, inizialmente apparso nei paesi occidentali, siano emerse le società più ‘dinamiche’ ed ‘aggressive’ degli ultimi secoli. Il confronto, anche militare, con i modelli sociali alternativi (i paesi sedicenti ‘comunisti’, Russia e Cina in testa), ha obbligato questi ultimi a riconvertirsi in forme di ‘capitalismo di stato’, con sistemi organizzativi non dissimili dai corrispettivi occidentali pur restando sostanzialmente meno democratici.

Le élite economiche controllano gli indirizzi della collettività attraverso una serie di Processi di Inganno strutturati per non essere pienamente compresi dalle popolazioni, onde evitare il rischio di generare fenomeni di rigetto. Il primo di questi processi è stato già discusso e coinvolge i già citati strumenti di comunicazione di massa [3], per mezzo dei quali è gestita la narrazione collettiva finalizzata ad orientate le opinioni delle popolazioni.

I mass media vengono agiti in due modalità complementari, da un lato selezionando ed interpretando i fatti esposti in chiave ideologica, in modo da spacciare per descrizioni oggettive ed equidistanti narrazioni spesso fortemente orientate. Dall’altro per mezzo di forme di disinformazione accuratamente orchestrate, ad esempio finanziando studi e ricerche ideologicamente orientati, basati su dati opportunamente manipolati o inventati di sana pianta, e quindi dandone ampio risalto nella comunicazione sociale.

Un altro modo per impedire che l’opinione pubblica diventi eccessivamente consapevole dei processi che la riguardano consiste nel veicolare dosi massicce di intrattenimento e distrazione, con abbondanza di prodotti di fiction, talk show incentrati sulla quotidianità e cronache sportive. Il contingentamento degli spazi informativi consente un miglior controllo sulla quantità e qualità dell’informazione veicolata.

All’interno del sistema comunicativo può anche essere reso disponibile un surplus di contenuti informativi, dal momento che la fruizione di tali contenuti riguarderà una frazione minoritaria della popolazione, una minuscola nicchia intellettuale, non impattando in maniera significativa sul risultato complessivo e fungendo da efficace ‘foglia di fico’ per l’intero meccanismo.

Il sistema politico stesso può essere considerato parte integrante dei processi comunicativi, dal momento che l’investimento di significative disponibilità economiche consente di influenzarne efficacemente i posizionamenti e le decisioni di voto. La possibilità per un singolo candidato, o per un intero partito, di ottenere buoni risultati nelle elezioni discende in via diretta dalla sua visibilità sui mezzi di comunicazione di massa e dalle disponibilità economiche complessive da spendere nelle campagne elettorali, quindi in ultima istanza dai finanziamenti che è in grado di attivare. Finanziamenti che, come cambiali in bianco, si è poi tenuti ad onorare.

Il meccanismo che consente alle élite di controllare l’operato dei partiti è, molto banalmente, quello del finanziamento. I partiti che scelgono di non operare in accordo con i desiderata delle élite non ricevono finanziamenti da spendere nelle campagne elettorali, dispongono di minor visibilità sui canali di comunicazione di massa ed hanno risorse inferiori da investire per consolidare sistemi di potere fiduciario interni alle strutture amministrative (uffici, dipartimenti, ministeri).

Da questo punto di vista l’intero processo democratico, che si incarna nei partiti politici, risulta di fatto un’appendice del sistema di potere delle élite, funzionale a redigere leggi e normative per accontentare gli interessi economici coinvolti in modalità sia palesi che occulte. Palesi con l’emanazione di leggi che favoriscano esplicitamente il sistema economico dal quale la politica stessa dipende, occulti mediante l’emissione di normative ‘fittizie’ finalizzate a confondere l’opinione pubblica, perché non adeguatamente finanziate, o carenti dei necessari indirizzi applicativi, o redatte in maniera da consentire il massimo arbitrio, quando non la totale inapplicabilità.

Esempio di legge inapplicabile, e di fatto inapplicata, resta per me la normativa 366/99 [5], la cui finalità dichiarata consisteva nell’obbligo di realizzare una rete di percorsi ciclabili a margine della viabilità esistente, nel corso di manutenzioni straordinarie, oltreché di quella futura in via di realizzazione. Nonostante la legge imponesse esplicitamente l’obbligo di inserimento dei percorsi ciclabili nelle progettazioni, è stata sufficiente l’aggiunta di una postilla, “salvo comprovati problemi di sicurezza” (o qualcosa di analogo), per far sì che non meglio definiti ‘problemi di sicurezza’ emergessero in maniera sistematica a giustificare la mancata realizzazione dei percorsi ciclabili.

In questo caso, come in molti altri, l’intenzione di non realizzare quanto richiesto dalla popolazione, o quantomeno da una parte attiva della stessa, viene occultata dietro un proclama d’intenti, mentre l’intero processo è già strutturato in partenza per essere fallimentare, rientrando in ciò a pieno titolo nelle tipologie dei Processi di Inganno.

All’opinione pubblica vengono presentati interventi atti a produrre benefici distribuiti, parte per le popolazioni e parte per le realtà economiche coinvolte, mentre sul lungo termine solo la frazione pensata per favorire determinati specifici interessi risulta realmente efficace, mentre i benefici per la collettività semplicemente svaniscono. Un discorso analogo vale per la quasi totalità delle ‘Grandi Opere’, dagli impianti olimpici alle onnipresenti infrastrutture viarie per il traffico motorizzato, passando per il Ponte di Messina.

Una tale efficacia emerge nel corso del tempo. Il sistema politico, per funzionare, necessita di ramificazioni e rapporti fiduciari. La fedeltà alle direttive è preferita rispetto all’intelligenza ed alla capacità di analisi critica, l’obbedienza è premiata, il dissenso marginalizzato ed espurgato. Gli individui più consistenti con questo processo fanno rapidamente carriera ed assurgono ai vertici dei partiti, quelli in dissenso con le dirigenze finiscono ostracizzati e non riconfermati, ad esempio con l’esclusione dalle liste di candidati.

Ancora, gli individui più in sintonia con le indicazioni del partito possono ambire a carriere trasversali, nei mass media come nei consigli di amministrazione di società coinvolte in interessi più o meno direttamente collegati alla macchina statale, come l’ambito militare, i trasporti o le grandi infrastrutture, o entrare in ruolo nella macchina statale stessa, divenendo dirigenti e quadri di ministeri, dipartimenti e società controllate.

Questo tipo di ramificazione, al pari della rete nervosa, è responsabile del trasferimento degli input dagli organismi decisionali, le élite, ad un corpo produttivo diffuso composto da individui senzienti, che vengono espropriati delle proprie capacità decisionali senza peraltro esserne consapevoli. In ultima istanza possiamo descrivere l’intera organizzazione responsabile del Governo dello Stato come una semplice propaggine, finalizzata al controllo sociale, dei poteri economici che muovono la collettività.

Free public domain CC0 photo. More: View public domain image source here

I Processi di Inganno in pratica: il sistema mediatico

Il sistema mediatico veicola la narrazione collettiva e rappresenta lo strumento attraverso il quale i Processi di Inganno [1] vengono posti in essere ed alimentati. In estrema sintesi, in una società di massa in grado di produrre plusvalore la ricchezza generata può essere redistribuita in diverse modalità. Su tali modalità la collettività deve trovare un accordo. In questa dinamica entra in gioco il controllo sugli strumenti di comunicazione di massa, che consente la manipolazione delle opinioni collettive, orientando gli indirizzi politici e pilotando i flussi economici.

Il capostipite dei moderni sistemi di comunicazione di massa sono i cosiddetti Testi Sacri. I Testi Sacri formalizzano le convenzioni collettive rispetto alle modalità di relazionamento sociale rafforzandole per mezzo di una cornice teologica. Semplificando molto: se si seguono gli indirizzi proposti si ottiene di assecondare le volontà della/e divinità, di conseguenza la collettività di cui si fa parte funzionerà meglio e il singolo individuo guadagnerà una ricompensa nell’aldilà.

Gli indirizzi veicolati dai Testi Sacri sono, tipicamente, una serie di norme comportamentali funzionali alla sopravvivenza ed alla prosperità di piccole popolazioni, spesso operanti ai livelli minimi di sussistenza: non essere aggressivi con gli altri membri del gruppo, collaborare senza conflitti, mettersi a disposizione per opere della collettività, rispettare le istituzioni religiose e ‘temporali’, agire con saggezza, reprimere i comportamenti istintivi (con particolare riguardo al sesso non finalizzato alla riproduzione) e difendersi dalle comunità rivali.

Nelle società illetterate queste istruzioni vengono veicolate con cadenza regolare, quotidiana o settimanale, nel corso di apposite cerimonie, durante le quali i testi sacri vengono letti, commentati, ed i loro contenuti trasmessi alla comunità, con l’obiettivo di alimentare un immaginario collettivo condiviso. Ad integrare e supportare la comunicazione orale contribuiscono le arti figurative, attraverso raffigurazioni iconografiche collocate nei luoghi di culto, dalle quali vengono in genere tratte raffigurazioni semplificate che finiscono ad arredare le abitazioni private.

Questo sistema di condivisione culturale ha funzionato perfettamente fino a tempi relativamente recenti, fungendo da collante sociale per le civiltà del passato. La gestione dei contenuti ed il controllo sull’ortodossia delle interpretazioni tendono a concentrarsi, col passare del tempo, nelle mani di una cerchia ristretta di alti sacerdoti. Modifiche, correzioni ed integrazioni ai testi obbligano a lunghe discussioni e non di rado conflitti. L’occasionale emergere di punti di vista divergenti, in grado di frammentare l’ortodossia dell’interpretazione e con essa il potere della casta sacerdotale, viene fermamente contrastato, ed in casi estremi represso nel sangue e bollato col termine ‘eresia’.

Il testo sacro rappresenta sostanzialmente il mezzo (medium, in latino) utilizzato per far convergere opinioni diverse, concordare linee d’azione condivise e risolvere le dispute. In cambio di questa funzione ‘mediatrice’ i rappresentanti dell’istituzione religiosa godono di uno status elevato e ricevono contributi tali da garantirne la sussistenza, la manutenzione dei luoghi di culto, le scuole di formazione e via dicendo.

L’intero processo di gestione, conservazione, diffusione ed esercizio della cultura condivisa comporta inevitabilmente dei costi, che ricadono sulla collettività. Necessariamente, nel momento in cui si instaura il classico meccanismo di trasferimento di ricchezza da una parte della popolazione ad un’altra, il confine di quanto sia giusto e necessario trasferire alla struttura di governo diventa oggetto di contesa: chi è tenuto a dare, cercherà di dare meno del dovuto, chi riceve cercherà di ottenere più di quanto gli spetti.

Tipicamente si producono due correnti di pensiero. Per alcuni la casta sacerdotale è tenuta ad esibire ricchezza, come rafforzativo della validità del messaggio veicolato, quindi paramenti appariscenti, luoghi di culto maestosi, coreografie ricercate. Per altri la necessità di veicolare un messaggio di tipo altruistico, l’unico in grado di fare da collante ad una collettività estesa, richiede l’esempio dato dalla rinuncia ai beni materiali, dall’uso di indumenti grossolani e dall’abitudine a pasti frugali.

La funzione di mediazione svolta dai Testi Sacri richiede che essi possano avallare un ampio ventaglio di opzioni. Questo viene realizzato inserendo all’interno del testo stesso fonti diverse, con orientamenti anche molto dissimili. Nello specifico, il Testo Sacro è obbligato a contenere tutto e il contrario di tutto, in modo da poter supportare una determinata linea di azione semplicemente scegliendo il brano più calzante.

Questo è già un esempio di Processo di Inganno, perché l’autorità religiosa supporta l’idea che la linea d’azione stabilita discenda da una precisa indicazione del Testo Sacro, il che la renderebbe incontestabile, tuttavia quell’indicazione rappresenta unicamente la porzione di Testo Sacro scelta dal mediatore, sacerdote od altro, ed è giocoforza strumentale al risultato desiderato.

L’inappellabilità della fonte divina, unita alla flessibilità dell’accesso ad una varietà di testi, contenenti indirizzi diversi, consente ai Testi Sacri di svolgere la funzione di mediazione tra gli interessi dei potenti e le aspirazioni delle popolazioni, manipolando queste ultime.

Non sorprende, perciò, che uno stesso Testo Sacro, la Bibbia Cristiana, affermi in alcune parti (Vangelo) la totale ed indiscutibile sacralità della vita umana, ma si presti altrettanto, in altre scritture più antiche, a giustificare guerre di conquista (le Crociate) o la persecuzione dei malati di mente (Inquisizione). I redattori del testo, fin dall’antichità, avevano ben chiara la sua funzione di controllo sociale e la necessità di contenervi l’intero ventaglio di opzioni necessarie a gestirla.

L’avvento della modernità mette in crisi questo modello millenario di trasmissione del sapere. Da un lato il pensiero scientifico e l’ascesa del razionalismo minano gravemente la convinzione diffusa di una possibile ricompensa ultraterrena per i sacrifici operati nel corso della vita mortale, dall’altro l’invenzione della stampa a caratteri mobili e la diffusione della carta, e con essi il ritorno ad un’alfabetizzazione di massa ed alla libera circolazione delle idee [2], consentono la messa in discussione dell’autorità delle istituzioni religiose e, come diretta conseguenza, delle forme di governo aristocratiche con le quali queste avevano finito col condividere una relazione simbiotica.

Stampa ed alfabetizzazione diffusa consentono la nascita di strumenti di comunicazione nuovi. I testi scritti (libri) tornano ad essere, dopo secoli di confino nelle abbazie, uno strumento di acculturazione ed intrattenimento di massa, mentre si apre un possibile mercato per le notizie recenti, che vengono distribuite per mezzo di fogli stampati, pubblicati con periodicità che diventa ben presto quotidiana, gli antenati dei moderni giornali.

Il tutto avviene all’interno di un processo che vede progressivamente emergere, dal Rinascimento in poi, una borghesia imprenditoriale dedita al commercio ed alle produzioni industriali molto più attiva e dinamica delle aristocrazie e del clero. Un nuovo ceto sociale che inizia a mettere in discussione gli antichi assetti di potere. È in questo contesto che la funzione di comunicazione sociale della carta stampata emerge con prepotenza.

Tra questi due principali contendenti si sviluppa una competizione per l’egemonia culturale. Da un lato le istituzioni religiose e l’aristocrazia, armati di Testi Sacri fissi ed immodificabili, considerati dettati direttamente dalle divinità e testimoniati da un esercito di sacerdoti, fedeli, aristocratici e sovrani per ‘diritto divino’. Dall’altro la nuova classe borghese, tecnocratica e pragmatica, arricchita dai commerci coloniali ed armata di libri e giornali in grado di veicolare idee nuove ed in continua evoluzione.

In questa contesa si ravvisa un’importante asimmetria tra i due strumenti comunicativi: mentre i Testi Sacri, come già detto, risultano obbligati a contenere tutto ed il contrario di tutto, prestando il fianco a diverse contraddizioni, i neonati Pamphlet possono focalizzarsi su un unico principio, un’unica idea, e svilupparla fino alle conseguenze più radicali, in ciò esibendo un esempio di rigore e coerenza. Nel momento in cui si sviluppa un’alfabetizzazione diffusa e la società viene travolta da un ribollire di nuove idee e filosofie, ognuna di queste è oltretutto in grado di trovare supporto in una specifica porzione del Testo Sacro, di fatto derivandone una presunta sacralità per l’intera neonata architettura ideologica.

In buona sostanza la guerra alle ‘eresie’, combattuta per secoli dalla Chiesa Cattolica grazie ad un potere centralizzato e militarmente armato, finisce con l’essere perdente nei nuovi contesti culturali, dominati dalla libera circolazione delle idee ed avvantaggiati dallo sgretolamento del controllo verticistico della Chiesa conseguente alla diffusione del Protestantesimo. (n.b.: una diversa parabola ha caratterizzato il mondo islamico, dove una semplice ma fondamentale differenza di calligrafia ha rallentato per secoli la diffusione della stampa a caratteri mobili e la circolazione di nuove dottrine filosofiche e sociali).

La capacità della carta stampata di veicolare idee e convinzioni non tarda ad essere notata dagli osservatori più attenti alle dinamiche sociali. Così descrive il funzionamento dei giornali Ferdinand Tönnies nel saggio Gemeinschaft und Gesellschaft (in italiano: Comunità e Società), 1887 [3]

«In questa forma di comunicazione, i giudizi e le opinioni sono impacchettati come gli articoli delle drogherie e offerti per il consumo nella loro obbiettiva realtà … preparati e offerti alla nostra generazione nel miglior modo possibile dai giornali, che rendono possibile la più veloce delle produzioni, delle moltiplicazioni e delle distribuzioni di fatti e pensieri, proprio come la cucina di un albergo prepara cibo e vivande in tutte le forme e quantità immaginabili. […] La stampa è il vero organo dell’opinione pubblica, un’arma ed uno strumento nelle mani di coloro che sanno come utilizzarla e devono utilizzarla. Essa è comparabile, ed in un certo senso superiore, alla forza materiale posseduta dai governi con i loro eserciti, i loro tesori e la loro burocrazia. A differenza di questi infatti, la stampa non ha confini naturali ma, nelle sue tendenze e nelle sue potenzialità, è decisamente internazionale, e quindi comparabile al potere di una permanente o temporanea alleanza fra stati.»

I giornali, grazie alla loro diffusione, diventano ben presto veicoli di comunicazione commerciale grazie agli spazi pubblicitari. La comunicazione commerciale risulta, in una prima fase, molto formale ed essenziale, diventando col tempo sempre più elaborata e seducente. I profitti derivanti dalle vendite di beni materiali vengono reinvestiti per alimentare i canali comunicativi, finendo col diventare la principale ragione di sostentamento economico della carta stampata.

Anche questa è una parabola bizzarra. Gli editori di giornali nascono per produrre un foglio di notizie da vendere a lettori interessati alle novità, e finanziano la propria attività col ricavato delle vendite. Tuttavia, nel momento in cui i giornali cominciano ad ospitare spazi pubblicitari, una seconda forma di finanziamento entra nei bilanci, andando direttamente in competizione con la precedente.

La comunicazione commerciale ha necessità di raggiungere il maggior numero possibile di lettori, ed una strategia per ottenere questo risultato è abbattere il prezzo di vendita dei giornali. Ma abbattere il costo di acquisto significa rinunciare all’introito derivante dai lettori, che finisce con l’essere minoritario nei bilanci del giornale. In conseguenza di ciò la volontà e le aspettative dei lettori diventano secondarie rispetto a quelle degli inseritori pubblicitari, ed il giornale stesso muta le proprie priorità.

Se il giornale è finanziato dai lettori, la sua priorità è preservare il diritto del lettore ad un’informazione onesta. Ma se il giornale è finanziato dalla pubblicità, la sua primaria esigenza è di salvaguardare la propria fonte di guadagni, pena il cessare di esistere. Ecco che i diritti dei lettori finiscono in secondo piano, ed il giornale stesso si allinea con i desiderata della sua reale fonte di sostentamento, finendo col supportarne, consapevolmente o meno, l’impianto filosofico. Interi settori giornalistici diventano così veicoli pubblicitari dei propri settori di riferimento.

Osserviamo in azione un altro Processo di Inganno, perché la narrazione corrente dell’imparzialità del giornalismo tende ad avvalorare l’idea che le notizie vengano riportate in maniera oggettiva ed equidistante, mentre è in atto una manipolazione, se vogliamo inevitabile, dovuta al fatto che l’editore ed il giornalista stesso finiscano col perdere l’obiettività e l’equidistanza quando si tratta di argomenti che impattano direttamente coi loro personali interessi.

Così una rivista di moda non potrà che esaltare il mondo della moda, finendo col diventare essa stessa un veicolo culturale di quella porzione di sfera produttiva, con articoli che sono di fatto pubblicità camuffate. Allo stesso modo una rivista che abbia il proprio focus sull’industria automobilistica finirà col riempirsi di spazi pubblicitari dell’industria stessa, quindi col confezionare articoli che non infastidiscano i finanziatori ed in ultima istanza col diventare una sorta di ‘estensione culturale’ del rispettivo comparto produttivo [4].

Una ulteriore conseguenza di questo processo discende dall’aver svincolato il prodotto venduto dal prezzo di acquisto: un giornale finanziato dalla pubblicità potrà offrire un maggior numero di pagine ed una migliore qualità di stampa rispetto ad uno finanziato unicamente dalle vendite, che spesso non arrivano a coprire i costi di stampa e distribuzione. Questo renderà il secondo meno curato, meno appariscente ed in ultima istanza scarsamente appetibile al lettore distratto.

Il prezzo di acquisto ha più che altro la funzione di rassicurare il lettore di stare acquistando un prodotto la cui esistenza dipende dal suo gradimento: “se i contenuti non saranno onesti e soddisfacenti i lettori smetteranno di acquistarlo e il giornale chiuderà”. In realtà i giornali chiudono solo quando smettono di essere efficaci veicoli ideologici e pubblicitari, in genere perché la scommessa di rappresentare interessi diversi e contrapposti, quelli degli investitori e quelli del lettore, finisce col perdere credibilità e gli acquirenti realizzano di essere stati manipolati.

Il discorso legato alla stampa può facilmente essere esteso ai media in generale. La televisione si è evoluta nel corso dei decenni finendo col diventare poco più che un contenitore di pubblicità, palesi od occulte (il cosiddetto Product Placement [5]). Per il cinema, da considerarsi l’evoluzione visiva della forma narrativa del romanzo, valgono considerazioni analoghe, con le vicende narrate non di rado piegate alle necessità di esibire specifici prodotti dei finanziatori. Le competizioni musicali finiscono con l’essere passerelle per gli stilisti e le case di moda, con la musica a fare da pretesto. I Talk-Show veicoli di comunicazione ideologica, non percepita come tale perché, appunto, dominante e pervasiva nel contesto sociale.

La comunicazione mediatica risulta essere il collante sociale del mondo globalizzato, veicolando e modellando stili di vita e forme di pensiero coerenti con l’impianto economico/politico al quale sono soggetti. Gli studiosi di scienze sociali le riconosco un ruolo chiave nella fabbricazione del consenso sociale necessario a mantenere una percezione di libertà nel corpus sociale, che risulta meglio tollerata rispetto agli obblighi imposti dai regimi autoritari.

Su questo argomento arrivo tardi. Già a metà degli anni ‘80 il linguista Noam Chomsky ha pubblicato un saggio intitolato ‘La Fabbrica del Consenso’, che sviluppa nel dettaglio le idee che ho tanto faticato a mettere insieme [6] (consiglio la lettura dell’originale in inglese, anche con l’aiuto di un un traduttore automatico, perché la corrispondente pagina Wikipedia italiana è significativamente priva di contenuti). Ho scoperto dell’esistenza di questo libro pochi giorni fa, l’ho acquistato ma non ho ancora avuto modo di iniziare a leggerlo. So per grandi linee di cosa tratti perché il libro ha ispirato un documentario del ’92, con un titolo analogo, disponibile su Youtube (diviso in due parti [7] e [8]).

Nel documentario Chomsky effettua una meticolosa ricostruzione della copertura data dalla stampa e dal giornalismo televisivo statunitense a due conflitti avvenuti pochi anni prima nel Sud-est asiatico, uno relativo all’invasione di Timor Est da parte dell’esercito indonesiano, l’altro riguardante il vietnam dei Khmer Rossi, dimostrando la totale assenza di equidistanza del sistema mediatico. Una denuncia precisa, seria, rigorosa e documentata, che tuttavia non ha spostato di una virgola la percezione pubblica preesistente rispetto al sistema informativo. Tutto è proseguito esattamente come prima (su questa vicenda mi riservo ulteriori approfondimenti).

A questo punto sento la necessità di puntualizzare una questione: il fatto che l’intera sfera mediatica svolga una funzione strumentale alla manipolazione dell’opinione pubblica non implica la presenza di un singolo manipolatore, o l’esistenza di un complotto. Le realtà collettive sono un filino più complesse. Per comprendere meglio questo punto dovremo fare riferimento al modello dei Sistemi Dissipativi sviluppato dall’astrofisico François Roddier [9].

Roddier parte da una questione di natura fisico/meccanica, l’aumento di entropia dell’Universo, per arrivare ad una descrizione dei processi biologici in termini di Sistemi Dissipativi. In estrema sintesi, quando si produce una differenza di potenziale energetico, condizione per un trasferimento e conseguente dissipazione di energia, si creano le circostanze per l’emergere di processi utili a facilitare questa dissipazione.

È un salto logico un po’ lungo, ma per Roddier la vita stessa è un Sistema Dissipativo, ovvero un processo che velocizza la trasformazione della radiazione solare, una forma di energia ad alto potenziale, in calore, velocizzando la trasformazione entropica. Parimenti l’evoluzione animale, l’ascesa della specie umana e le culture da essa prodotte sono riflessi di un Sistema Dissipativo, e tendono tutti alla massimizzazione di tale processo.

Non mi aspetto che questa informazione possa essere metabolizzata tanto facilmente. Roddier elenca una enorme quantità di evidenze a supporto di questa tesi nel suo blog [10], sviluppando una mole di testo equivalente ad un trattato. La sostanza, in estrema sintesi, è che le modalità di dissipazione più efficienti sono sistematicamente premiate rispetto a quelle meno efficienti, ottenendo di affermarsi e soppiantarle.

L’animale più forte, vorace ed aggressivo è avvantaggiato rispetto a quello più debole, consuma più risorse e si riproduce di più, trasferendo le sue caratteristiche alle generazioni successive. Le civiltà più forti, voraci ed aggressive assorbono e metabolizzano quelle più deboli, tramandando i propri modelli di pensiero alla posterità.

Le civiltà agricole ‘dissipano’ più in fretta di quelle dedicate alla caccia e alla raccolta, crescono di numero, costruiscono città, canalizzazioni e strade, e lentamente assorbono e ‘convertono’ le popolazioni circostanti. La civiltà industriale ‘dissipa’ più in fretta delle culture contadine, le assorbe e trasforma i metodi agricoli e le forme di allevamento. Il modello economico capitalista è in grado di ‘dissipare di più e più in fretta delle organizzazioni sociali comuniste, e sul lungo termine le manda in crisi e le metabolizza.

Tutto questo forsennato ‘consumare’ non ha in sé alcuna finalità, è semplicemente un sottoprodotto del processo di massimizzazione della dissipazione. Nondimeno, le culture che inneggiano alla corsa ai consumi risultano avvantaggiate dalle dinamiche dei Processi Dissipativi, assorbono e metabolizzano quelle meno efficienti e finiscono col permeare la cultura condivisa. Gli stessi Processi di Inganno, se ottengono di facilitare la ‘dissipazione’, partecipano al complessivo affannarsi.

In quest’ottica non ha senso indicare una specifica responsabilità di singoli o gruppi nel funzionamento della comunicazione mediatica e nella visione falsa e distorta della realtà da essa costruita e consolidata: l’unico vero driver del processo è la capacità dello strumento coinvolto di massimizzare i consumi.

Questa dinamica coinvolge l’impresa che fabbrica il prodotto, che investe denaro nel pubblicizzarlo ed aumentare le vendite; coinvolge il redattore che ne parla, convinto anch’esso del suo valore e della sua ‘necessità’, e che da tale azione trae una remunerazione; coinvolge il lettore, che partecipa al processo consumistico confermando il valore del prodotto per mezzo dell’acquisto ed alimentando economicamente il meccanismo stesso.

Più risorse, energia, lavoro, vite umane ed animali il processo di produzione/consumo riesce a coinvolgere, più ritorno ne avrà in termini di efficacia del Processo Dissipativo complessivo, più tenderà ad affermarsi nei confronti dei Processi Dissipativi concorrenti meno efficienti.

Abbiamo pertanto definito un modello verosimile delle dinamiche sociali in atto attraverso un’analisi di tipo scientifico, che prende in considerazione unicamente i fatti, li mette in fila, individua le relazioni di causa/effetto e sostanzialmente descrive la Realtà osservabile con sufficiente accuratezza. Tutto bene, quindi? Direi proprio di no.

Fin qui mi sono limitato ad una descrizione distaccata ed asettica dei processi in atto, ora però ho il dovere di proiettarli fin dove possibile, al fine di stabilire se le conseguenze dei processi in divenire fin qui descritti siano desiderabili, o quantomeno accettabili.

L’accelerazione dei consumi sperimentata fino ad oggi, all’interno di un sistema finito com’è il pianeta su cui viviamo, ha come possibile epilogo unicamente il progressivo esaurimento di quanto attualmente disponibile ed abbondante. Il processo, spontaneamente avviato ed in qualche misura inevitabile, potrà rallentare in conseguenza del declino delle risorse, ma non arrestarsi. La prospettiva più ottimistica è che si stabilizzerà su un livello di consumi molto inferiore all’attuale, e con una popolazione umana numericamente altrettanto ridotta.

Come si perverrà a tale assestamento non è facilmente prevedibile, ma è immaginabile che, se abbiamo giudicato positivamente le dinamiche che ci hanno portato alla condizione attuale (il cosiddetto ‘progresso’), non potremo che giudicare negativamente i processi simmetrici (guerre, carestie, epidemie, desertificazione) che ci guideranno nella direzione opposta.

Quello che appare certo è che i Processi di Inganno (ed auto-inganno) continueranno a compiere la loro opera di facilitazione dei Processi Dissipativi, ostacolando la possibilità di porre un freno alla corsa insensata operata fin qui. Con buona pace di chi ancora si illude che saremo capaci di cercare, trovare e perseguire soluzioni razionali.

(Continua)

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è 20150624135030%21Noam_Chomsky_.jpg
Noam Chomsky (immagine da Wikimedia commons)

I Processi di Inganno in sintesi

La lunga analisi sviluppata sui Processi di Inganno [1] ha radicalmente cambiato le mie prospettive, purtroppo in peggio. Le conclusioni cui sono giunto appaiono sconfortanti. La maggior parte degli esseri umani non sarebbe in grado di maneggiare la Realtà nella sua complessità, risultando permeabile a convinzioni irrazionali e prive di fondamento. Quanto agli altri, quelli che pure sarebbero in grado di sviluppare un pensiero razionale e strutturato, possono essere facilmente manipolati, distratti, confusi, attraverso meccanismi ben codificati descritti dalla psicologia delle masse [2].

Da almeno un secolo e mezzo i metodi di fabbricazione del consenso sono l’architettura portante dell’organizzazione sociale. I mezzi di comunicazione di massa, dall’informazione all’intrattenimento, ne sono gli strumenti operativi. L’obiettivo di questa manipolazione su larga scala è garantire la stabilità dell’ordine sociale ed alimentare meccanismi di produzione/consumo funzionali al sistema economico corrente. In conseguenza di ciò, siamo una specie collettivamente priva di una reale consapevolezza dell’esistente.

Contrariamente a quanto avviene in natura, dove i processi biologici svolgono una funzione conservativa, tendendo a preservare condizioni favorevoli al fiorire della vita (disponibilità di acqua dolce, vegetazione abbondante, equilibri chimici degli oceani e dell’atmosfera), le attività umane tendono al saccheggio e alla distruzione dell’esistente, riducono la copertura vegetale per far spazio a monocolture ed allevamenti intensivi, massimizzano lo spreco e la dispersione di acqua dolce, distruggono foreste primarie e biodiversità e disperdono nell’ambiente, in enormi quantità, sostanze tossiche e velenose, incompatibili coi processi biologici.

Questo comportamento, guidato dalla considerazione che i vantaggi sul breve termine sono evidenti mentre gli svantaggi sul lungo termine possono essere a lungo ignorati, trae la sua origine dai conflitti tribali tra le primitive comunità umane. Le collettività caratterizzate dai comportamenti più impattanti ed aggressivi hanno sistematicamente prevalso su quelle più tranquille e pacifiche, assoggettandole ed includendole nella propria visione globale. Le comunità di agricoltori stanziali sono cresciute numericamente più in fretta di quelle dei cacciatori/raccoglitori e dei pastori nomadi, finendo col governare ampie porzioni di territorio e con l’imporre alle altre la propria cultura.

Questo processo si è sviluppato in tempi diversi in differenti aree del pianeta, a partire dal delta del Nilo, dal Medio Oriente, dalla valle dell’Indo e dai delta fluviali della Cina. Ognuna di queste civiltà si è espansa fino ai confini consentiti dalle risorse disponibili, ha sviluppato nuove tecnologie, nuove forme di manipolazione ambientale e sociale, nuove ideologie. Un tratto comune a tutte è la consapevolezza del potere generato dalla conoscenza, che nei secoli ha guidato lo sviluppo del pensiero scientifico.

Da questo asservimento del sapere a logiche di dominio si sviluppa la storia dell’umanità, una storia fatta di guerre, massacri, sottomissioni, ascesa e caduta di imperi, innovazioni tecnologiche, idrauliche, commerciali, militari. Una storia in cui le collettività più forti hanno sempre operato a sottomettere quelle più deboli, asservendole e sfruttandole, anche all’interno della stessa struttura sociale. Le società moderne non rappresentano il superamento di questa storia plurimillenaria, ma solo la sua riorganizzazione sulla base di nuove disponibilità tecnologiche.

Gli imperi dell’antichità hanno solo cambiato pelle, trasformandosi da realtà politiche in imprese economiche. Il controllo dell’economia consente una maggior fluidità e reattività rispetto al potere politico, dal momento che la fiducia nel denaro è un elemento totalmente trasversale alle correnti di pensiero. Nelle società moderne la disponibilità di risorse economiche garantisce il controllo degli strumenti di fabbricazione del consenso [3], consente di pilotare decisioni politiche ed orientamenti collettivi, dimostrandosi lo strumento principe per imporre la propria volontà alle popolazioni.

Un tale processo ottiene di auto-alimentarsi sulla base dei propri stessi meccanismi, in maniera del tutto indipendente da quanto irrazionali possano essere le scelte scientemente pilotate e gli stili di vita assunti dalla popolazione. L’unico criterio selettivo è rappresentato dal successo economico del soggetto che provi ad imporre alla collettività determinate convinzioni, perché un tale successo alimenterà la narrazione dominante che, proprio grazie ai profitti, verrà da esso imposta alla collettività. Una narrazione che sarà attentamente confezionata per esaltare i portati positivi ed ignorare, occultare o negare i danni prodotti.

Il meccanismo sovra descritto è sufficiente a produrre tutte le forme di auto-inganno collettive apparse in ogni civiltà storicamente documentata. Gli scivolamenti collettivi nell’irrazionalità sono tipicamente indotti da precise dinamiche di potere, essendo promossi da individui e gruppi d’interesse che, in tali derive, intravedono l’opportunità di trarre vantaggi. Una volta in possesso di questa chiave interpretativa risulta facile applicarla ad un ampio ventaglio di situazioni ed eventi.

La diffusione delle fedi religiose, per dire, può essere fatte risalire al potere da esse conferito ad una specifica casta sacerdotale. Le convinzioni politiche sono intrinsecamente legate al potere ed al controllo sociale che ne vengono generati per i rispettivi ideologi. Le mode più stravaganti discendono dalla capacità di creare o consolidare consensi per specifiche ideologie, e di conseguenza stabilizzare determinate forme di controllo e potere.

È difficile trarre conclusioni utili da questa presa di coscienza. Riemerge un concetto già in passato sviluppato sul pensiero scientifico, ovvero che il sapere in sé non è in grado di fornire indicazioni sulle azioni da intraprendere, in assenza di un quadro ideologico nel quale inserirlo. Un quadro ideologico che non possiedo più, perché mi è ormai evidente come il fattore destabilizzante degli equilibri naturali sia specificamente la capacità umana di prendere decisioni.

Finché eravamo creature inconsapevoli, come narrato perfino nella Genesi biblica [4], incapaci di distinguere il bene dal male, vivevamo assieme agli altri esseri viventi nella semplicità dei processi di selezione naturale. Nel momento in cui i nostri cervelli sono diventati abbastanza complessi da sviluppare una capacità previsionale e l’abilità di intuire le conseguenze delle nostre azioni, abbiamo potuto classificare tali azioni in ‘giuste’ e ‘sbagliate’, generando le definizioni di ‘bene’ e ‘male’.

A quel punto è stato istintivo classificare come ‘bene’ le azioni in grado di soddisfare le nostre aspettative individuali, e come ‘male’ tutto quello che ad esse si opponeva. In quel momento abbiamo deciso, come specie, che le forzanti naturali che ci mantenevano in equilibrio con l’ecosistema fossero un ‘male’, ed abbiamo iniziato a contrastarle, con l’edificazione delle civiltà.

Non ci piaceva vivere in balia dei predatori, ed abbiamo inventato le case. Non ci piaceva soffrire la fame, ed abbiamo inventato modalità di produzione del cibo. Non ci piaceva annoiarci, ed abbiamo inventato le forme d’arte. Non ci piaceva faticare, ed abbiamo inventato le macchine. Ad ogni passaggio una parte del mondo naturale è andata perduta, ed una parte equivalente di mondo artificiale, morto e sterile, ne ha preso il posto. E in tutto questo indaffararsi a smantellare la Natura siamo progressivamente aumentati di numero, impartendo al processo una ulteriore accelerazione.

Le conseguenze di questa sistematica demolizione degli equilibri naturali sono potenzialmente catastrofiche per la sopravvivenza stessa della nostra specie, e tuttavia non riusciamo a farci una ragione della necessità di invertire la nostra collettiva attitudine alla distruzione. Abbiamo anzi definito questa distruzione ‘progresso’ [5], e continuiamo a raccontarcela come la prospettiva massimamente desiderabile, per quanto fondata su basi totalmente irrazionali.

Dovremo attendere che le conseguenze del nostro agire dissennato siano ancora più evidenti e catastrofiche perché, collettivamente, si possa provare a ripensare il nostro approccio alla realtà. E, anche a quel punto, non è affatto detto che ne saremo capaci. Piuttosto, tutto lascia supporre il contrario.

(Continua)


[1] – Sui Processi di Inganno

[2] – Psicologia delle Masse (Wikipedia)

[3] – Pubbliche Relazioni (Wikipedia)

[4] – Il Trionfo della Morte (4)

[5] – L’invenzione del Progresso (J. Simonetta)