Jackson C. Frank


Correva l’anno 1986 ed il sottoscritto si ritrovava indosso una divisa, a svolgere il servizio militare in quel di Portogruaro (VE) alla caserma "Capitò". Nei lunghi ed inutili mesi di leva obbligatoria mi si offriva, tuttavia, l’occasione di conoscere uno spaccato molto vario di umanità, e di condividere ed approfondire numerosi interessi. Uno tra questi, che nella mia limitata cerchia di frequentazioni non avevo avuto modo di sviluppare riguardava la musica.

Poco prima di partire avevo infatti acquistato una delle invenzioni fondamentali di quel periodo, il "Sony Walkman", apparecchio capostipite degli attuali e diffusissimi iPod, in grado di rendere la qualità acustica della stereofonia, prima relegata ad imponenti ed inamovibili impianti casalinghi, facilmente trasportabile, sotto forma di agili musicassette, pressoché ovunque.

Dopo un’infanzia ed un’adolescenza trascorse ad assorbire passivamente quanto trasmesso da radio e tv di stato (a casa dei miei non si concepiva nemmeno lontanamente la necessità di "scegliere" la musica da ascoltare), la magica scatoletta a pile mi offriva finalmente l’opportunità di approfondire una materia nuova ed affascinante.

Ma "cosa" ascoltare, soprattutto senza spendere cifre di cui all’epoca non disponevo? A questa domanda venne bizzarramente in soccorso la mia assidua frequentazione di librerie, incluse le cosiddette "Remainders", specializzate nella rivendita sottocosto di edizioni invendute e fondi di magazzino.

In una di queste ebbi la fortuna di trovare numerosi fascicoli di una pubblicazione da edicola intitolata "Il Rock storia e musica", dove ad uno striminzito fascicoletto critico era allegata tanto di cassetta con i successi più significativi del relativo artista. Il passaggio dal "nulla" (o poco più) dei "Festival di Sanremo" alla ricchezza e varietà della produzione musicale anglosassone dei decenni precedenti fu traumatico quanto entusiasmante: Bob Dylan, Jimi Hendrix, Bruce Springsteen, I Police, Frank Zappa… c’erano più energia, idee musicali, emozioni in quella manciata di nastrini di quanti ne avessi incontrati nei lunghi anni di ignoranza giovanile, pazientemente coltivata dai redattori di polverosi palinsesti televisivi.

Non saprei dire se quella rivoluzionaria invenzione mi "salvò la vita", ma di sicuro mi ha evitato crisi depressive profonde. Potevo infilarmi le cuffiette sulle orecchie ed ascoltare la voce di Bruce Springsteen cantarmi della libertà fuori dalle mura della caserma, mostrarmi "la luce in fondo al tunnel". Potevo lasciare che la chitarra di Jimi Hendrix illuminasse di colori acidi e psichedelici il grigiore della mia vita in uniforme, o lasciarmi convincere da Bob Dylan che "i tempi stanno cambiando".

Ragionando anche di queste cose nelle lunghe ed inutili serate passate nei bar nelle ore di "libera uscita" finii con lo stringere amicizia con un ragazzo milanese, Andrea, lui sì appassionato di musica fino alla radice dei capelli, onnivoro e con gusti decisamente affini ai miei. Andrea diventò in breve il mio "spacciatore di musica strana", e cominciò a sgrezzare la mia rudimentale comprensione dei diversi generi musicali, erudendomi sulle differenze tra folk, blues, rock, jazz, country, fusion, new age, progressive, pschedelia e quant’altro.

Andrea aveva una sterminata collezione di migliaia di vinili, acquistati usati nel corso degli anni presso negozietti di settore, bancarelle e fiere, che si accresceva in continuazione. Divorava riviste di settore, "Mucchio Selvaggio" e "il Buscadero" in testa, per poi andare a rovistare tra l’usato in cerca di dischi ed artisti sconosciuti ai più. Non di rado tornava dalle licenze con manciate di cassette appena registrate dei suoi più recenti acquisti, e per solito mi sottoponeva quelle che pensava avrei trovato più interessanti.

Mi passava queste cassette, io le ascoltavo e poi commentavo: "questo mi piace… questo no… questo mi emoziona… questo mi lascia indifferente… questo è sincero… quest’altro è finto…" e via così. Un giorno mi confessò cosa lo stupiva di me e del mio rapporto con la musica: "io leggo recensioni di gente che ha passato la vita intera ad ascoltare dischi" mi confessò "diversi li frequento di persona, gente che conosce pressoché tutto lo scibile musicale prodotto fino ad oggi. Scrivono ed affermano cose sulle quali spesso non mi trovo d’accordo. Tu, al contrario loro, di queste cose non sai quasi niente, conosci quattro dischi in croce, hai abissi di ignoranza sconfinati ancora da colmare (niente da eccepire, ero il primo ad ammetterlo) eppure ascolti la musica ed istintivamente mi dici le stesse cose che ne pensano loro. Non capisco come sia possibile!"

Una delle principali fonti di divergenze tra noi era un tale Frank Marino, virtuoso della chitarra sullo stile di Hendrix. Andrea era un suo fan sfegatato mentre io, pur adorando Hendrix, trovavo Marino insopportabilmente noioso. "Non c’è emozione in questa musica" gli spiegavo, "solo tecnica. Niente cuore, solo cervello. È musica cervellotica… mi sembra di ascoltare un tizio che si masturba mentalmente suonando una chitarra!".

Un bel giorno se ne tornò con la consueta manciata di nastri, tra i quali figurava quello di un tale "Jackson C. Frank". Me lo fece ascoltare e me ne innamorai pressoché all’istante: canzoni per voce e chitarra dietro le quali aleggiava una tristezza infinita. Volevo saperne di più, ma nemmeno lui ne aveva mai sentito lontanamente parlare. Un disco come decine di altri, di uno sconosciuto cantautore inglese degli anni ’60, tanto poco importante da essere ormai dimenticato. Un autore "minore", di cui a vent’anni di distanza si era persa ormai la memoria.

Seguì un dialogo di questo tenore.
Io: "Questo me lo devi assolutamente registrare"
Lui: "Questo? Ma sei sicuro? Questo qui non è nessuno!"
Io: "Non importa. Lo trovo bellissimo, struggente…"
Lui: "Frank Marino no, e un emerito sconosciuto sì? Proprio non ti capisco!"

La musica triste non ti "tira su" nei modi classici, non ti dà una "botta di allegria". Però offre conforto, ti dice: "non sei il solo ad essere triste, ascolta, sono triste anch’io, anzi, sono molto più triste di te, ma possiamo andare avanti, possiamo trasformare questa tristezza in qualcosa di bello". In quel periodo io non ero in grado di comporre musica… trasformai la mia tristezza in qualcosa che somigliava a delle poesie, e dovettero passare anni prima che mi fidassi abbastanza da farle leggere a qualcuno.

Quella singola cassetta mi accompagnò per anni. Finito il servizio di leva me ne tornai a casa, lasciai l’università, cominciai a lavorare, mi comprai un impianto stereo, cominciai a leggere riviste musicali, comprai ed ascoltai alcune centinaia di dischi, ma Jackson C. Frank restava un "signor nessuno", cancellato dal tempo, dagli anni e dalla memoria collettiva, insieme alle sue splendide canzoni.

Solo molti anni dopo, grazie ad internet, riuscii a risolvere il mistero di Jackson C. Frank, e mi trovai di fronte ad una storia di sfortuna quasi incredibile. Scampato miracolosamente ad un incendio nella sua scuola, in cui avevano perso la vita la maggior parte dei suoi compagni, il giovane Jackson (americano, non inglese) nei lunghi mesi di convalescenza in ospedale imparava a suonare la chitarra. Dieci anni dopo, come risarcimento per le ustioni che ancora lo segnavano, otteneva 100.000 dollari dall’assicurazione e decideva di partire per l’Inghilterra. Qui finiva col conoscere Paul Simon, che gli produceva il primo ed unico L.P. Due anni dopo, i soldi dell’assicurazione ormai quasi finiti, la scena musicale era cambiata al punto che a nessuno interessava più la sua musica. Le cicatrici fisiche e mentali della sua disgrazia giovanile lo precipitarono in una profonda depressione, che i medici scambiarono per schizofrenia curandola nel modo sbagliato. Ebbe un figlio che morì di fibrosi cistica. Finì a dormire sui marciapiedi. I danni delle ustioni lo paralizzarono. Fu quindi accecato da un colpo di fucile ad aria compressa, sparato da ragazzi che si divertivano a tirare a casaccio in mezzo alla folla ed alla fine morì, per complicazioni polmonari ed arresto cardiaco, nel ’99, all’età di soli cinquantasei anni. Ora tutta la storia è raccontata (in inglese) su Wikipedia.

E, paradossalmente, a distanza di tanto tempo si comincia a riscoprirlo come uno dei grandi interpreti dimenticati di un’epoca ormai troppo lontana. Per me resterà sempre l’oscuro cantautore, che nel periodo più grigio della mia vita ha condiviso la meravigliosa eleganza e tristezza di una manciata di canzoni. Un piccolo grande artista con cui la vita ha giocato una delle sue partite forse più crudeli.

Ispirazione

L’ispirazione è qualcosa che arriva quando meno te l’aspetti, al punto che puoi dirti fortunato se riesci ad accorgertene in tempo e metterla a frutto. Magari stai facendo una cosa normalissima ed insignificante, ed ecco che all’improvviso ti si accende un "motore" in testa, e pretende che tu lo soddisfi.

Qualcosa del genere mi è successa sabato scorso. Con Manu eravamo invitati alla festa di "rinnovo della promessa matrimoniale" di suo fratello e della relativa consorte, dopo dieci anni di matrimonio. Al solito sorge il problema di cosa scrivere sul "bigliettino" che accompagnerà il nostro regalo. Se ne parla un po’, quindi io propongo che ognuno dei "regalanti" scriva un proprio pensiero. Io ho in mente una mezza battuta umoristica (del tipo: "siete a buon punto… non mollate!") se non che, mentre tiro fuori la macchina dal parcheggio, mi viene da pensare: "come potrebbe essere in inglese?".

A quel punto l’ispirazione apre bocca:

"Ten years after, ten years older
Years of thunder, years of gold"


Però, non male, enfatico… poi ci vorrebbe qualcosa di un po’ più interiore:

"Years of laughter with (qui ci manca qualcosa…)
Years of happiness, years of love"


Nel frattempo mi raggiunge Manu, sale in macchina, e dato che io devo guidare le chiedo di scrivere sotto dettatura. Lei sgrana tanto d’occhi, ma ormai è abituata alle mie stranezze. Mentre passiamo accanto all’ippodromo di Capannelle completo il secondo verso:

"Years of laughter with the joy in your hearts"


Una quartina. Potrebbe essere già buona così. Manu concorda, l’ispirazione no. La testa continua a macinare:

"Time flows by in a turbulent stream
Drags the seasons and all those youthful dreams"


Bello, abbastanza malinconico, ma il tempo porta anche cose buone:

"Brings the wisdom, through the ages of life"


E qui mi blocco per un bel po’, poi mi ricordo che sto scrivendo per una coppia di sposi e chiudo con:

"Makes us conscious to be husband and wife"


Due quartine. Direi che ci siamo. Uno sguardo al passato, uno al presente. Niente da fare: "ci manca un pezzo!" insiste l’ispirazione, e io non posso darle torto, c’è ancora il futuro. Penso ai miei cognati, alla loro profonda fede, e non posso che concludere con un’invocazione:

"Keep us safe with the warmth of our friends
Keep us rich with the love of our children
Keep us strong for the troubles to come
Make us right for the work to be done."


Finalmente, siamo arrivati, parcheggio. Manu è arrabbiata con me perché non ho raccolto i suoi suggerimenti (non ero io, li ha bocciati l’ispirazione). Con pazienza trascrivo tutto il "sonetto" sul bigliettino augurale e lo firmo, col mio usuale "sprezzo del ridicolo". Che ne penseranno i destinatari? Non lo so. Certo non è cosa usuale ricevere un regalo con "allegata" una poesia in inglese, scritta sul momento. Ma in fondo anche loro, come Manu, sono abituati alle mie stranezze.

Durante la cerimonia scatto un po’ di foto. In testa la canzone di Patty Smith "Because the night". Mi ci vorrà diverso tempo per realizzare che ha la stessa metrica del mio componimento. A questo punto manca solo un titolo, non mi sento particolarmente ispirato, penso che "Ten Years" possa anche andare.

Ten Years

Ten years after, ten years older
Years of thunder, years of gold
Years of laughter with the joy in your hearts
Years of happiness, years of love

Time flows by in a turbulent stream
Drags the seasons and all those youthful dreams
Brings the wisdom, through the ages of life
Makes us conscious to be husband and wife

Keep us safe with the warmth of our friends
Keep us rich with the love of our children
Keep us strong for the troubles to come
Make us right for the work to be done.


Non credo di padroneggiare l’inglese a sufficienza da poterlo considerare qualcosa di veramente significativo. Questo piccolo componimento ha però un senso profondo per me. Parla di cose che mi appartengono, mi "muove dentro delle corde". Intanto ai miei cognati è piaciuta. Se poi dovesse riuscire a fare altrettanto anche con qualcun altro/a, beh, tanto di guadagnato, ne sarei felice. E i madrelingua perdonino la mia "maldestria".

Futurologia

Si discute parecchio ultimamente, in special modo in internet, del futuro del mondo del lavoro. La cosiddetta “crisi“, relegata dai nostri mass-media fra le notizie di costume, non mostra segni di inversione di tendenza: i consumi rallentano, le aziende licenziano e chiudono, gli scambi internazionali di merci e materie prime sono ai minimi storici, i mercati segnano il passo, il costo dell’energia da combustibili fossili, dopo un anno di calmierazione probabilmente artificiale, ha ripreso a salire.

Cosa sta succedendo? In sostanza siamo prossimi al “fondo del barile“, abbiamo estratto e consumato risorse non rinnovabili ad un ritmo forsennato per decenni ed è giunto il momento, per così dire, di “pagare il conto“. Il petrolio, per fare l’esempio più classico e forse più significativo, ha circa un secolo di vita. Si è iniziato ad estrarlo negli Stati Uniti, dove affiorava praticamente al livello del suolo, si è proseguito forando e trivellando qua e là per il pianeta, scoprendo giacimenti molto consistenti ma anch’essi non illimitati, ed ormai non se ne scopre più di nuovi da un bel po’. Tra gli ultimi importanti vi sono quelli “off shore” scoperti nel Mare del Nord, ormai praticamente esauriti.

E qui entra in gioco il lavoro di Hubbert sulla “teoria del picco” e successivamente quello del “Club di Roma” che nel ’72 pubblicava il “Rapporto sui limiti dello sviluppo“. In sostanza esiste una relazione matematica ben definita che lega il tasso di scoperta di nuovi giacimenti al picco di estrazione di una determinata risorsa. Ogni volta che una risorsa fossile trova un utilizzo acquista valore, e si inizia a cercarne nuove fonti di approvvigionamento. Dopo un po’ le principali vengono individuate, ma nel frattempo i metodi di ricerca migliorano ulteriormente, fino al punto in cui la gran parte dei “giacimenti ricchi” è scoperta, poi si ha il “declino“, nel senso che ne vengono trovati di nuovi ma “minori“, e via via se ne trovano sempre meno.

Questo non significa che nel momento in cui la scoperta di nuovi giacimenti declina si è già in crisi, perché si continua allegramente ad estrarre da quelli in attività, ma Hubbert individuò un nesso di causa-effetto tra il “picco della scoperta” e quello della “produzione“, predicendo che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto il “picco produttivo” per il petrolio a metà degli anni ’70. Questa predizione si è avverata, da allora la produzione USA è in declino, ma nel frattempo erano stati individuati nuovi giacimenti, situati in gran parte nella penisola araba, che hanno spinto la crescita dell’economia occidentale fino ai giorni nostri.

Cosa avviene quando si applica la teoria di Hubbert non già ad un singolo stato ma all’intero pianeta Terra? Le previsioni effettuate negli scorsi decenni datavano il raggiungimento del picco mondiale dell’estrazione di petrolio a cavallo della fine del presente decennio. Di fatto la crisi globale innescata dall’impennata dei prezzi di un anno fa ha prodotto una riduzione dei consumi, che si è riflessa in un calo nell’estrazione di petrolio. È difficile affermare se questa coincida o meno con il picco previsto da Hubbert, ma è molto verosimile che sia così. Allora perché nessuno ne parla?

La risposta a quest’ultima domanda è in realtà ovvia, nessuno ne parla perché sono temi scomodi, perché ci ritroviamo in una società in cui alla deresponsabilizzazione individuale fa da necessario contralto la deresponsabilizzazione collettiva. Dobbiamo constatare come il meccanismo di “delega democratica“, invece di innescare una crescita sociale e culturale, ha prodotto nel nostro paese un crescente allontanamento della popolazione dai processi decisionali, ed una perdita di consapevolezza e responsabilità rispetto alle conseguenze dirette ed indirette delle proprie azioni. In un’epoca di “vacche grasse” hanno avuto migliori opportunità di essere eletti i partiti e quegli esponenti politici che, come imbonitori da fiera, hanno raccontato agli elettori quello che questi ultimi volevano sentirsi raccontare: “va tutto a gonfie vele“, “non ci sono problemi“, “andrà sempre meglio“; pompando nella popolazione quei valori di superficialità e mercificazione funzionali ad un moderno sistema capitalistico.

Forte della sua ricchezza, l’occidente ha nel tempo maturato un’egemonia culturale sul resto del pianeta basata sull’ideologia del “libero mercato” e sul paradigma della “crescita” indefinita, un’idea di continuo cambiamento in meglio in cui tutti si ritrovano sempre più ricchi man mano che il tempo passa. Un’impalcatura ideologica che mostra crepe impressionanti già ad una prima analisi molto rudimentale, ma che essendo fondata sull’egoismo individuale ha trovato quasi sempre una generalizzata, entusiastica ed acritica, adesione.

Ad un primo approccio molto superficiale l’idea di “crescita indefinita” pare soddisfare le umane pulsioni più di qualunque altra filosofia “limitante”, ma basta ragionare appena un po’ più a fondo per evidenziarne il sostanziale inganno. Basta, ad esempio, rendersi conto che il territorio a disposizione è limitato. Consideriamo quanto è successo a livello abitativo dal dopoguerra ad oggi. Nel primo dopoguerra è iniziata la “ricostruzione” del paese, e tutti quelli che lo hanno desiderato e ne hanno avuto la possibilità si sono costruiti, o comprati, la casa. Negli anni successivi si sono costruiti, comprati o ristrutturati la seconda casa. Per raggiungere questa seconda casa si sono comprati tutti un’automobile, il risultato è stato che le città si sono riempite di automobili, diventando ben presto invivibili.

A questo punto si è cominciato ad abbandonare le città, preferendo vivere “fuori“, nei sobborghi, in villini monofamiliari connessi al tessuto urbano con strade e superstrade, di conseguenza il traffico su queste strade di adduzione è lievitato a livelli incompatibili con una decente qualità della vita, e si è finito col pagare il sogno della “casa nel verde” a prezzo di ore ed ore in coda per recarsi al lavoro. Tecnicamente si può affermare che siamo tutti “più ricchi“, dal momento che possediamo più case, più automobili, più strade, quello che non possediamo più è il nostro tempo, disperso tra un ingorgo e l’altro, dissipato lungo la via, dentro scatole a ruote. È evidente come sull’altare del soddisfacimento di miopi egoismi sia stato depauperato un patrimonio inestimabile di “ricchezza non quantificata” in termini di cementificazione delle campagne, perdita di ore di vita personale e relazionale, degrado paesaggistico ed urbano, abbattimento della qualità della vita. Aggiungete a questo una progressiva crescita della popolazione ed otterrete di dipingere un affresco folle in cui, in capo ad un secolo, l’intera penisola sarà ricoperta di abitazioni.

Quindi ci troviamo di fronte ad un modello economico strombazzato e propagandato per decenni che già del suo, se fosse realistico, ci condurrebbe progressivamente a situazioni di assoluta invivibilità, ma la cosa più interessante è proprio il fatto che “realistico” non è, poiché basato sull’idea, impraticabile, di una disponibilità futura di energia e materie prime a basso costo simile a quella che abbiamo vissuto da un secolo a questa parte. Hubbert, e più recentemente i fatti concreti, ci insegnano che le cose non stanno in questi termini.

Ho più volte definito la condizione attuale, quella in cui la maggior parte delle persone oggi viventi ha passato l’intera esistenza, come un’ubriacatura da petrolio: ora il petrolio ha imboccato la china discendente. Questo non significa che finirà domani o dopodomani, ma che se ne estrarrà sempre meno, e costerà sempre di più. Altre fonti energetiche, fossili e rinnovabili, non sembrano in grado ad oggi di prendere il suo posto per il loro basso rendimento effettivo. A parità di energia investita le altre risorse energetiche, fossili e rinnovabili, hanno un rendimento più basso, il che lascia sì un margine utile, ma incompatibile con l’attuale livello di consumi. Ad aggravare il quadro c’è il progressivo esaurimento delle materie prime.

L’analisi di Hubbert si applica a qualunque risorsa “fossile“, dai metalli per l’industria al fosforo per i fertilizzanti agricoli, con in più un fattore economico legato al mercato energetico. Anche a parità di facilità di estrazione e lavorazione produrre una tonnellata di ferro ha un costo energetico in termini di petrolio necessario per azionare i macchinari di estrazione e trattamento del minerale grezzo. Nel prossimo futuro ci troveremo di fronte all’azione combinata di minor ricchezza dei giacimenti e maggiori costi energetici di lavorazione, il che farà salire rapidamente il costo delle materie prime e dei semilavorati. Questa non è una previsione, sta già accadendo. Ad esempio il prezzo del rame, componente essenziale nell’industria elettronica, si è triplicato nel volgere di pochi anni.

Terminata questa necessaria premessa posso procedere a tratteggiare, a tinte purtroppo fosche, il futuro che ci aspetta nella prossima decade. Il primo inevitabile riflesso di questa situazione è che tutto finirà col costare più di prima, dai carburanti per autotrazione, ad ogni tipo di merce e manufatto, ai prodotti alimentari. E’ difficile prevedere che contraccolpi questo avrà sull’ordinamento sociale, ma la percezione dell’uomo della strada sarà di un progressivo impoverimento collettivo, e questo innescherà tensioni sociali a vari livelli.

Molte merci, di conseguenza, non si venderanno più, e cominceranno a riprender piede quelle attività artigianali legate al recupero e alla riparazione di oggetti usati. La corsa all’usa e getta degli ultimi decenni vedrà un’inversione di tendenza. Un altro cambiamento epocale riguarderà i trasporti, col declino da un lato dell’automobile privata, e dall’altro dell’insensato spostamento di merci da un capo all’altro del paese.

Coll’aumentare dei costi del carburante e delle materie prime ridiventerà concorrenziale il trasporto collettivo, su ferro e su gomma, mentre sulle tratte brevi si tornerà ad utilizzare la bicicletta, veicolo giunto ormai a livelli di efficienza ed affidabilità ben lontani da quelli a cui erano abituati i nostri nonni. Per contro l’espansione incontrollata del tessuto urbano subirà un brusco arresto via via che ci si renderà conto dell’impraticabilità di vivere troppo lontani dal proprio posto di lavoro. Un “urban sprawling” reso possibile dalla diffusione di massa del trasporto privato declinerà con esso, e si porrà il problema di recuperare i terreni ex-agricoli scomparsi sotto cemento ed asfalto.

L’aumento del costo dei carburanti per autotrazione si rifletterà direttamente sul costo delle derrate alimentari, prodotte fin qui grazie all’agricoltura meccanizzata. Si renderanno evidenti i nefasti effetti prodotti negli ultimi decenni con l’impoverimento dei suoli agricoli e, se non si arriverà nell’immediato a vere e proprie situazioni di emergenza alimentare, vedremo trasformarsi la nostra alimentazione nei termini di una riduzione del consumo di carni ed un simmetrico aumento del consumo di cereali. In prospettiva si torneranno a sfruttare quelle “terre marginali” che la meccanizzazione del lavoro agricolo ha reso non concorrenziali, innescando un flusso “di ritorno” dalle città alle campagne, ed il recupero di tecniche di coltivazione meno legate ai combustibili fossili.

Ma il passaggio probabilmente più drammatico riguarderà tutte quelle occupazioni figlie dell’attuale “filosofia dello spreco“. Non potendo più far fronte alle esigenze basilari, dal cibo ai vestiti al riscaldamento di casa, interi settori industriali legati al “superfluo” declineranno molto rapidamente, producendo un’ondata di licenziamenti e chiusure di attività. Tutta questa mano d’opera in esubero dovrà essere gestita con adeguate politiche sociali, sussidi di disoccupazione e quant’altro si renderà necessario nel lasso di tempo richiesto dall’assestamento nel nuovo paradigma del “consumo sostenibile“.

Molta di questa manodopera potrà essere riversata nel mercato delle attività artigianali, in lavori di riparazione e manutenzione dell’esistente, ma inevitabilmente si andrà incontro ad un periodo di insoddisfazione diffusa e tumulti sociali. Persone a cui è stato insegnato ad omologarsi ad un modello di vita basato sul possesso e sul consumo faticheranno ad adeguarsi ad un nuovo paradigma basato sul recupero, sul riuso, sulla parsimonia, e questo disagio sociale potrà essere facilmente strumentalizzabile a fini politici.

Perché il vero problema non sarà tanto quello di riabituarsi ad un livello di consumi e qualità della vita comunque superiore a quello vissuto dai nostri avi, quanto il fatto che questo assestamento sarà accompagnato da una percezione di arretramento rispetto alle aspettative maturate. Milioni di persone marceranno al grido di “ridateci quello che ci avevate promesso“, le istituzioni perderanno di credibilità e con molta probabilità si finirà col ricadere, da più parti, in forme di governo ed organizzazione sociale non democratiche, che avranno il loro corollario di guerre pretestuose e tragedie assortite, come purtroppo la storia del ventesimo secolo ci insegna.

Se questa escalation spazzerà via la civiltà come la conosciamo, o se invece si riuscirà a percorrere una transizione graduale verso la sostenibilità, non è dato saperlo, come pure non è dato sapere quando ed a quale livello di civiltà il processo finalmente si assesterà. Prevedere il futuro non è possibile. Anche questa rapida carrellata di eventi non è altro che un’estrapolazione basata su quanto ci è dato di sapere al momento. Esistono altri problemi, enormi, legati all’indebitamento dei paesi ed alla virtualità dei mercati finanziari che possono aggravare sul breve termine, e di parecchio, gli sconquassi poc’anzi previsti. L’alternativa di una crescita continua ed incontrollata è, probabilmente, ancora peggiore, perché non farebbe che posticipare nel tempo e rendere ancor più catastrofici gli eventi sopra descritti. Sarebbe per me paradossale, ma non implausibile, verificare a distanza di anni il sostanziale ottimismo di queste mie previsioni.

L’alba nella città dormiente


Nella lunga ed inesausta ricerca di spazi e luoghi poco frequentati dai miei simili mi accade di proporre e coinvolgere amici in esperienze improbabili. Dalle escursioni e viaggi in bici in località semi dimenticate dal turismo consumista e fracassone, alle nottate di osservazioni astronomiche in cima a montagne desolate, chi sceglie di seguirmi sa che l’assurdità apparente delle mie proposte ripaga con un senso di straniazione e di reale divertimento” che, come ho più volte spiegato, affonda le sue radici nell’idea di “divergere”: allontanarsi da sé, da quello che si è o, più precisamente, da quello che nel tempo ci siamo abituati a pensare di essere.

L’ultimo di questi “esperimenti” è andato in scena lunedì scorso: girare in bici per le strade deserte di un centro città ancora immerso nel sonno, alle cinque di mattina. L’ho intitolata “L’alba nella città dormiente”. Approfittando della festività di San Pietro e Paolo, Roma a quell’ora avrebbe dovuto essere perfino più deserta del solito, e la prossimità al solstizio estivo garantiva più di un’ora di luce prima del “risveglio”. Sono riuscito a convincere alla “levataccia” solo otto persone, ma tutti/e hanno molto apprezzato l’esperienza.

Muoversi in bicicletta, un mezzo del suo silenzioso, attraverso una città deserta lascia esterrefatti. Ho realizzato che tutto sembra diverso per il semplice fatto che l’attenzione non è disturbata dal traffico, dal rumore, dalla necessità di non farsi investire. Attenzione che può finalmente concentrarsi nell’ammirare quello che abbiamo intorno. È altresì sconcertante rendersi conto di quanto il traffico ci porti via anche solo per il suo stesso esistere. E se non è il traffico è, pur molto meno grave, l’affollamento di vie e piazze centrali.

Detto questo lascerò la parola alle foto che, tra un colpo di pedale e l’altro, sono riuscito a scattare.

N.b.: per chi volesse godersi queste ed altre foto del giro in qualità “più decente”, le ho inserite anche nel mio spazio su “Picasaweb”.