Il motivo per cui da quasi sei mesi non scrivo di libri è che questo è il tempo che ho impiegato per venire a capo del mastodontico romanzo di David Foster Wallace, "Infinite jest". Dimensioni a parte (quasi 1200 pagine più un altro centinaio di note), ogni tentativo di descrivere quest’opera in poche parole è destinato a fallire. Anche solo per raccontarlo a sommi capi bisognerebbe scrivere un libro intero.
Da appassionato (ormai quasi ex-appassionato) di fantascienza le mie incursioni nella letteratura "mainstream" non sono mai state molto frequenti. In genere leggo cose che mi regalano, lasciando scegliere gli altri, altre volte seguo consigli raccolti dalla rete.
I motivi che mi hanno spinto ad acquistare questo vero e proprio "mattone" sono stati in parte la sua mole (l’antico fascino dei libri "grossi", quelli che durano a lungo), in parte l’ambientazione in un futuro prossimo e paradossale, in parte echi di un "rumore di fondo" culturale che fanno sì che mi restino in testa nomi sui quali mi riprometto di indagare.
La prima cosa in assoluto che ho saputo di David Foster Wallace è che si era suicidato. Questo deve avermi messo in testa il nome, e la curiosità di capire i motivi del suicidio di un coetaneo scrittore. Dove mi avrebbe portato questa curiosità non potevo neppure immaginarlo.
Di cosa parla "Infinite jest"? Di tante cose, di tantissime. Di troppe cose. E di troppe persone… anzi, personaggi (ammesso che la differenza sia poi così netta): ragazzi, vecchi, adulti, fantasmi di personaggi già morti, uomini, donne, in situazioni a volte improbabili, a volte terribilmente realistiche, disperate e disperanti.
Con un occhio chirurgico, con dettagli al limite del maniacale, con una capacità unica di immedesimazione, DFW trascina il lettore nei mondi devastati e corrotti dei suoi protagonisti, nell’abisso della dipendenza da "sostanze".
Il tema principe di questo romanzo, che riemerge in mille rivoli, in mille forme, da ogni angolo buio della narrazione è proprio la dipendenza: dall’alcool, dai farmaci, dall’intrattenimento televisivo. Dipendenza come male dell’anima, un infinito lasciarsi andare alla soluzione più semplice, una nichilistica ricerca dell’autodistruzione di cui cambia continuamente solo la forma, ma non il risultato.
Come in un inferno dantesco i personaggi di "Infinite jest" si muovono alla ricerca di luce, di tranquillità, senza possibilità di raggiungerla, muoiono, si ammalano, lottano contro le prigioni delle proprie consuetudini e la follia di un mondo assurdo e cieco, un’America riletta in chiave parodistica ed amarissima.
Questo romanzo sta a qualsiasi cosa abbia letto fin qui come la "Cappella Sistina" di Michelangelo sta alla pittura, è semplicemente troppo, esagerato sul piano stilistico, nella quantità di personaggi e storie che riesce ad intrecciare, nella mole sconfinata di dettagli che aggiungono spessore e profondità tridimensionale alle situazioni. L’affresco gigantesco e titanico di un genio.
Ho iniziato questo libro domandandomi perché una mente giovane e brillante avesse scelto il suicidio. Ad un quarto del libro già mi stupivo del contrario: di come una persona in grado di contenere dentro di sé la consapevolezza di una tale enorme sofferenza, e l’intelligenza di restituirla in maniera così straordinariamente efficace, fosse riuscita a sopravvivere tanto a lungo. La sua biografia racconta di una convivenza ventennale con stati depressivi in progressivo aggravamento.
"Infinite Jest", a differenza del suo autore, non ha un finale. I mille fili, le mille trame, i mille personaggi in cui ci si è di volta in volta immedesimati restano infine sospesi, immobili, senza conclusione. Come una fetta di vita tagliata via dal suo contesto e letta in tempo reale. Come a raccontare il fatto che lo scorrere della vita non ha inizi e conclusioni, ma solo un confuso ed inarrestabile fluire, viaggiare, correre, ruzzolare, una volta terminato il quale non c’è davvero più nulla di cui preoccuparsi.
DFW ci lascia quest’eredità immensa e sfibrante, un romanzo le cui pagine vanno conquistate a prezzo di fatica e sofferenza, una discesa agli inferi che cambia il nostro modo di vedere il mondo e ci restituisce ad esso più maturi, ma anche emotivamente esausti. Non certo un libro da consigliare a cuor leggero.
Leggere "Infinite jest" è stata per me una sfida durata mesi. Ho amato questo libro odiandolo al tempo stesso, i suoi personaggi me li sento tatuati nell’anima, anche se so che prima o poi lentamente sbiadiranno, per certo me li ritroverò accanto negli anni a venire.
Un gigante della scrittura camminava tra di noi, e la prima cosa che ho saputo di lui è stata che si era dato la morte. Essere troppo intelligenti, ho pensato leggendo il libro, è un dono che si rischia di pagare molto, troppo caro.