Consapevole di affrontare un tema “caldo”, ed altresì della estrema difficoltà di rispettare tutte le posizioni al riguardo, credo sia giunto il momento di fare un punto delle questioni relative alle diversità negli orientamenti sessuali. Dopo aver discusso questi argomenti in sedi diverse, il quadro complessivo mi è ormai sufficientemente chiaro da poter essere esposto in questo spazio.
Per “diversità negli orientamenti sessuali” intendo il fatto che lo sviluppo della maturità sessuale non comporta automaticamente lo sviluppo di un’attrazione nei confronti di persone del sesso opposto, come i meccanismi riproduttivi dovrebbero spingerci a fare, ma produce spesso un’attrazione nei confronti di individui dello stesso sesso, che prende il nome di omosessualità.
L’omosessualità è una variante comportamentale che si osserva in molte specie animali oltre alla nostra, prevalentemente in quelle caratterizzate da comportamenti sociali. Il legame con la socialità è a mio parere la chiave di lettura principale, ma prima di arrivarci bisognerà piantare un po’ di paletti e ripartire dall’origine della riproduzione sessuata, qualcosa come due o tre miliardi di anni fa.
La riproduzione sessuata è caratterizzata dallo scambio di materiale genetico tra due individui, non necessariamente di sesso diverso. Esistono, soprattutto nelle forme di vita più arcaiche, specie ermafrodite, in cui i caratteri maschili e femminili non sono differenziati (p.e. nei gasteropodi). Il vantaggio evolutivo dello scambio di materiale genetico consiste nella rapida produzione di varietà rispetto all’individuo standard.
Laddove una specie di creature in grado di riprodursi solo per copie identiche ha tempi di trasformazione lentissimi, una specie capace di riproduzione sessuata effettua ad ogni step riproduttivo una sorta di “lancio dei dadi” genetico tale da produrre un ampio ventaglio di opzioni.
Sebbene la maggior parte delle mutazioni genetiche siano dannose per gli individui che ne sono portatori, la presenza di una varietà di forme consente alla specie di adattarsi meglio e più in fretta alle trasformazioni ambientali, scongiurando il rischio di estinzione e rappresentando un significativo vantaggio.
Negli animali, creature in grado di mettere in atto un set comportamentale diversificato, la necessità di effettuare l’accoppiamento con un altro individuo della stessa specie richiede la presenza di un istinto riproduttivo, laddove in specie più semplici (p.e. le piante) richiede semplicemente la sincronizzazione della stagione fertile, ed a volte neppure quella.
Di cosa parliamo quando usiamo il termine “istinto”? Gli istinti appaiono quando gli organismi diventano capaci di perseguire spontaneamente delle attività, e rappresentano una sorta di programmazione di base del cervello. In animali molto semplici (p.e. gli insetti) gli istinti sono geneticamente scritti nella rete neurale e fanno parte del bagaglio di strutture che si differenziano nel corso dello sviluppo embrionale.
Le creature più evolute, con un cervello di dimensioni maggiori e la capacità di elaborare reazioni diversificate, posseggono anch’esse istinti, per quanto meno netti e più dissimulati all’interno di un ventaglio comportamentale vasto. Questo semplicemente perché gli istinti si attivano molto più in fretta di qualsiasi ragionamento, e nella lotta per la sopravvivenza anche una frazione di secondo può fare la differenza.
Quindi noi creature complesse cresciamo con una parte di cervello responsabile degli istinti, relativamente fissa ed immutabile, ed una parte plastica in grado di apprendere informazioni dal mondo circostante ed elaborare risposte diversificate.
Possiamo immaginare un istinto come una sorta di “memoria di sola lettura” del cervello, i cui effetti possono essere gestiti ma non resettati. È evidente come negli animali più semplici tali istruzioni siano anch’esse molto semplici: l’insorgere di istinti diversi da quelli del resto della specie comporta quasi sempre l’estinzione dell’individuo e la perdita del suo bagaglio genetico.
Facciamo l’esempio di una farfalla. La farfalla rappresenta l’ultimo stadio metamorfico di una creatura che passa la maggior parte della vita come bruco a nutrirsi della vegetazione. Un ultimo stadio che a volte ha unicamente una funzione riproduttiva: alcune farfalle non possiedono neppure l’apparato digerente, possono solo accoppiarsi, deporre le uova e morire.
Chiaramente per una creatura simile l’insorgere di una variante dell’istinto riproduttivo che induca ad accoppiarsi con individui dello stesso sesso rappresenta un fallimento totale, e una tale anomalia si perderebbe definitivamente con la morte dell’individuo stesso, senza tramandarsi alle successive generazioni.
Una differenza fondamentale che possiamo invece notare nelle specie evolute, non solo la nostra, è che questo tipo di variante comportamentale non solo continua a ripresentarsi generazione dopo generazione, ma è totalmente slegata da qualsivoglia carattere di ereditarietà diretta.
Ed in effetti questa è la caratteristica più sorprendente, ad un primo distratto esame: il fatto che un tratto comportamentale tanto svantaggioso per l’individuo sia stato conservato a livello di specie. Se affrontassimo la questione in maniera rudimentale dovremmo aspettarci che questa variante finisca con lo scomparire nel volgere di poche generazioni, man mano che gli individui portatori affrontano problemi maggiori degli altri a portare a termine la fase riproduttiva.
Ma l’etologia ci insegna che non sempre ciò che è svantaggioso per l’individuo lo è anche a livello di gruppo: il gruppo (il branco, lo stormo, la tribù) si comporta come un sovra-organismo, i cui singoli individui sono gli organi. Per questo motivo (come racconta Daniel Goleman in Intelligenza sociale), gli individui con tendenze “estreme” (p.e. quelli più disposti a correre rischi rispetto alla media) rappresentano una risorsa che il gruppo ha interesse a conservare.
L’esempio che viene fatto è quello di uno stormo di uccelli. All’interno dello stormo di uccelli ci sarà un ventaglio di possibili reazioni istintive: alcuni individui tenderanno a volare più vicini fra loro, altri ad allontanarsi maggiormente. Il fatto di allontanarsi li esporrà a rischi maggiori, ma al tempo stesso consentirà allo stormo di individuare più facilmente i predatori, e mettere in salvo un numero maggiore di individui.
Ecco come un comportamento dannoso per l’individuo si traduce in un vantaggio per il gruppo, che avrà interesse a preservarlo, ad esempio facendo riprodurre di più, e più in fretta, gli individui con comportamenti estremi. Tutto questo a livello inconscio, ma è evidente che i due istinti, quello per i comportamenti estremi e quello riproduttivo che tende a far preferire l’accoppiamento con questi individui, devono evolvere di pari passo.
Per contro, uno stormo di uccelli privo anche di uno solo di questi due istinti risulterà più vulnerabile ai predatori ed avrà maggiori difficoltà a prosperare. Questa linea di ragionamento ci porta ad un’unica conclusione: se la nostra specie conserva un tratto comportamentale tanto svantaggioso per la riproduzione del singolo individuo com’è l’omosessualità (soprattutto quella maschile), evidentemente questo rappresenta un vantaggio per la collettività, tutto sta a comprendere quale sia.
Il punto, secondo me, sta proprio nel meccanismo preposto alla socialità (ne ho parlato tempo addietro in un altro post), ovvero quel complesso sistema cerebrale che ci fa star male da soli. Star male in senso stretto, dal momento che in assenza di nostri simili il cervello attiva lo sviluppo di tossine che ci fanno ammalare più facilmente.
È un falso paradosso molto simile a quello appena visto per lo stormo di uccelli: l’individuo che si ammala quando sta da solo tenderà a stare in gruppo, ed il gruppo rappresenterà per tale individuo un vantaggio straordinario per la sopravvivenza, di gran lunga maggiore rispetto allo star bene anche da soli.
Ma il sistema psico/emotivo, inevitabilmente complesso, che fa sì che il cervello disinneschi i “protocolli di autodanneggiamento” in presenza di nostri simili, evidentemente non può essere troppo netto. Non può proprio a causa della diversificazione nelle caratteristiche fisiche e comportamentali della nostra specie, che si è adattata a suddividersi in gruppi di maschi nella funzione di cacciatori e gruppi di femmine in quella di raccoglitori.
Un meccanismo di appagamento emotivo troppo rigido, e discriminante rispetto al sesso, non funziona altrettanto bene di uno più elastico e tollerante, e questo si riflette in un ventaglio di comportamenti sociali e sessuali esteso.
Quindi, e vengo al punto, l’omosessualità non è una questione che riguardi l’individuo, bensì l’intera specie. L’essere creature sociali, e lo straordinario vantaggio evolutivo che ne consegue, è legato a doppio filo ad una “elasticità” nelle reazioni sessuali, affettive e comportamentali senza la quale semplicemente non saremmo quello che siamo.
Forse saremmo addirittura estinti.
Opporsi a questa caratteristica “di specie”, pretendere che l’omosessualità sia “un errore”, o “un comportamento aberrante”, è del tutto privo di senso. È un tratto comportamentale che fa semplicemente parte del nostro retaggio di esseri umani, ovvero di tutto il ventaglio di diversità che ci ha consentito di sopravvivere in un ambiente ostile, e prosperare.