Cyborg di tutto il mondo, unitevi!

Ieri sera, nel corso della mia quotidiana “raccolta differenziata di feed” (trad: consultando l’aggregatore per verificare quanto di nuovo fosse stato pubblicato sui Blog che seguo con assiduità) mi ha stupito molto ritrovarmi citato in “Bici Metropolitana” quale teorizzatore/capostipite di una nuova forma di umanità: il ciclista-cyborg!

Devo dire che la nuova “specie”, seppur agguerrita, stenta a ricavarsi il necessario spazio vitale in un mondo costruito per altre “creature d’allevamento”… La sua indole selvatica e randagia, tuttavia, ben promette per quanto riguarda la sopravvivenza a condizioni ben più disagevoli delle attuali. Tutto questo parlare di Cyborg mi ha fatto tornare in mente un pezzo scritto molti anni addietro, purtroppo non più reperibile in rete: L’umanoide.

Nel febbraio del 2000, tale Massimo Gramellini scrisse per il quotidiano “La Stampa” di Torino (Fiat, non a caso) un allucinante editoriale sulle neonate “Domeniche ecologiche” in cui qualunquismo e beceraggine si mescolavano in un abbraccio indissolubile alla dipendenza psicologica pressoché totale dall’automobile.

Dopo il primo shock iniziale, l’articolo mi suggerì un’allucinata visione di un povero cyborg “uomo-automobile”, allevato, fin dalla nascita, per un folle esperimento. Un individuo fisicamente connesso ad un veicolo a quattro ruote, che si ritrova per un solo giorno a vivere nel “mondo esterno”, privo di esoscheletro e di tutte le certezze che la sua condizione gli aveva sempre dato.

Per completezza, il racconto viene fornito, a mo’ di “traduzione”, all’interno dell’articolo originario.


L’UMANOIDE
di Marco Pierfranceschi

(ispirato dall’articolo SCENE DALLA DOMENICA SENZA AUTO
di Massimo Gramellini  – La Stampa – 7 Febbraio 2000)

ROMA – E’ stata una domenica bellissima. Un po’ finta, un po’ rétro. Diciamola tutta: un po’ triste. E’ che noi umanoidi del Duemila siamo fatti così: ci roviniamo i polmoni e il fegato dentro ingorghi tentacolari, ma se passa una carrozzella trainata da un cavallo non pensiamo al paradiso terrestre, ma a una carestia.

Traduzione: Da quando il capo del progetto “Integrauto”, il dottor Franco Staino, mi ha separato chirurgicamente dall’involucro di acciaio elettrosaldato nel quale sono cresciuto ho crisi di panico. D’altro canto noi umanoidi sperimentali del duemila siamo fatti così, ci crescono e ci educano con un’interfaccia veicolare, e quando ce la tolgono, per valutare le nostre capacità di sopravvivenza in un ambiente ostile, non possiamo prenderla alla leggera: ci viene il terrore. D’altro canto troppe speranze sono concentrate su di me, non posso deluderli!


E’ una colpa grave, la nostra, e speriamo che la rieducazione a cui il governo ha cominciato da ieri a sottoporci sortisca l’effetto voluto. Non è un sacrificio, ma una gioia e ci faremo presto l’abitudine, lo ha detto anche la signorina dei Verdi, Grazia Francescato. Specie se in questa opera di riconversione dal consumismo al medioevo ci verrà consentito di vedere ogni tanto qualche negozio aperto, bagliori di un mondo perverso che promettiamo comunque di abbandonare.

Trad.: Il dottore mi ha spiegato che il governo del paese è in mano ad una banda di Talebani, che vogliono reintrodurre le pene corporali come camminare, respirare ossigeno, guardare il cielo blu, e io gli credo. So di essere la punta di diamante di questo esperimento teso a salvare l’umanità dalla regressione, e farò il mio dovere, costi quel che costi.


Che l’auto fosse diventata una strega, bisognava innanzitutto spiegarlo ai bambini. «Oggi facciamo un gioco nuovo, ragazzi. Giochiamo a che le automobili non ci sono più». «T’hanno rubato la macchina, papà?». Il cinismo delle nuove generazioni flessibili. «Ma che rubata! E’ che oggi non si può usare. Vie-ta-ta». «Come gli striscioni con le parolacce?». Già.

Trad.: Mi è stato spiegato che fuori non vedrò le svastiche e le croci celtiche che mi sono tanto familiari qui, nei locali del laboratorio segreto, perché la dittatura comunist-catto-giudo-ambient-demo-plutocratica le vieta. Continuo a ripetermi che posso farcela.


E come gli spot di Berlusconi. E i referendum di Pannella: quante cose ci hanno proibito nell’ultima settimana per il nostro bene.

Trad.: Là fuori sono negati i diritti fondamentali alla menzogna, alla crudeltà, alla violenza. Solo un popolo di pecore accetta passivamente di farsi appiedare.


Agli adulti invece nessuno ha spiegato niente, nella convinzione che sapessero già tutto da soli. Così alle nove i centralini dei vigili erano già intasati, e chi chiedeva a che ora cominciava il blocco, e chi voleva sapere se era limitato al centro, perché nella società dell’informazione facciamo il pieno di notizie superflue, ma quelle che ci servono davvero non le sappiamo mai.

Trad.: Il dottore mi ha convinto che potrò contare su una adeguata cortina fumogena, che il Generale Berlusconi ha sollevato un grosso polverone sugli spot ma non ha avvertito del blocco del traffico, e i feroci vigili urbani saranno troppo occupati per notarmi, e poi i nostri faranno tutti finta di non sapere niente e cercheranno di circolare lo stesso.


Poi siamo scesi in strada, dove ci aspettava un rumore spaventoso: il silenzio. Non quello naturale dei boschi, fatto in realtà di mille suoni. Un silenzio artificiale, che provocava la prima sensazione forte della giornata: solitudine esistenziale.

Trad.: Alla fine mi sono fatto coraggio e sono uscito, mi sentivo nudo senza la mia carrozzeria aerodinamica, con l’aria non condizionata che mi soffiava in faccia, ed è stato un salto nel vuoto. Dov’era il rumore dei miei otto cilindri a V, dov’era la mia autoradio a tutto volume, dov’erano i clacson, i rumori di sgommate, gli insulti urlati da un’auto all’altra? Niente. Così dev’essere la morte, mi sono detto.


Ma era solo un momento di sbandamento nell’opera complessiva di rieducazione. Il ghigno per il solito furbone a motore pizzicato dalla polizia («Le giuro, agente, non avevo ancora letto il giornale!»), lasciava il posto al sospiro di autocommiserazione (nel senso di commiserazione per l’auto), rivolto alla nostra vettura parcheggiata in divieto di sosta: durante il coprifuoco ci sarà almeno il blocco delle multe per le automobili che stanno ferme, zitte e buone?

Trad.: Pochi passi e l’ho vista, il mio esoscheletro, il mio guscio protettivo, era lì, in divieto di sosta, dove avevo chiesto che fosse lasciata in segno di sfida, nel caso non dovessi più tornare. Il mio ultimo gesto di ribellione nei confronti di chi vuole negare le nostre libertà: di occupare i posti riservati agli invalidi, di mettere l’auto davanti ai cassonetti, in doppia fila, davanti ai passi carrabili, dentro i cortili, dentro i portoni, finché non ci faranno degli ascensori adatti e potremo finalmente entrarci dentro casa!


Pieni di speranze, abbiamo iniziato l’avventura. La riconquista dello spazio e del tempo. La fine della nevrosi e dell’inquinamento. La riscoperta della natura e dell’uomo.

Trad.: Saluto il mio corpo esterno dentro il quale, esperimento felice, sono cresciuto, e mi avvio ad affrontare questo mondo orribile ed ostile, silenzioso e freddo, so che non è fatto per me, che sono stato creato perfetto (anche se ora mi hanno tagliato le ali).


Già, ma quale uomo? E questa domanda, in attesa dell’autobus di Godot, ci ha inquinato e nevrotizzato non poco la giornata. Quale uomo hanno in mente i nostri simpatici appiedatori di Stato, quando parlano con un linguaggio da herpes di «mobilità sostenibile» e «riappropriazione di spazi collettivi»?

Trad.: Che razza di creature popolano il mondo, per essere in grado di sopravvivere e prosperare in queste condizioni? Il dottore mi ha spiegato che si chiamano “uomini”, che anche lui era uno di loro prima degli innesti biomeccanici e dell’encefalectomia. Ha detto che non dovrebbero essere troppo diversi da me, almeno in apparenza, ma che parlano usando parole difficili e quando si divertono gli capita di trasmettersi orrende malattie, cosa che a me non accadrà mai, se solo sopravviverò.


Un uomo che vive alla periferia del benessere aspetta per ore un mezzo pubblico che non arriva mai, finalmente si attacca al tram, strapieno, e sbarca in un centro movimentato da orchestrine aziendali, biciclette vietate ai sofferenti di prostata, canti da gita scolastica, stormi aggressivi di pattinatori a rotelle, ladri ecologici che ti scippano in bici (è successo anche questo), maschere da carnevale e altre non meno grottesche di naturisti griffati come Pantani, una gigantesca parata di allegrie forzate ma batteriologicamente pure?

Trad.: Ho viaggiato su un veicolo molto primitivo, con l’interfaccia biologica completamente disconnessa che armeggiava faticosamente tra leve e bottoni per azionare un pietoso motore elettrico! L’incubo è infinitamente più orrendo dei miei peggiori timori: questo veicolo è schiavo di due binari, non può fare sorpassi azzardati, non può andare contromano, non è libero di scegliere il proprio destino, non può fuggire. Quale oscena ideologia ha potuto immaginare una simile mostruosità? Là fuori torme di cosiddetti umani paiono tutti intenti in questa loro incomprensibile attività che il dottore ha chiamato “divertimento”. Non posso immaginare nulla che sia più lontano dalla mia capacità di comprensione. D’altro canto io sono stato guarito da quella terribile malattia psichica denominata senso dell’umorismo. Loro no, e continuano a soffrire.


Quest’uomo «si impossessa della sua città», dicono gli slogan della neolingua al potere. Ma per farne cosa, se non quello che altri hanno deciso per lui?

Trad.: Che tristezza pensare che queste creature vivono nel dubbio, e devono scegliere giorno per giorno quello che è giusto e quello che è sbagliato, anche considerando i modelli di vita alternativi. Quanto è più semplice e giusta la mia condizione, io so sempre esattamente quello che è giusto, perché le mie reazioni sono pre-programmate e non possono sbagliare.


Il modello di riferimento resta l’intellettuale di sinistra che abita lussuose palafitte del centro e la domenica scende in strada a piedi con le tasche gonfie di giornali, si beve un cappuccino in piazza, visita un museo col biglietto omaggio, prende l’aperitivo insieme ai suoi pari commentando quanto fa schifo D’Alema però sempre meglio di Berlusconi e infine rientra soddisfatto nella sua magione ristrutturata per concedersi un’altra mezz’ora di cultura con le ricette di Vissani.

Trad.: In realtà il dottore mi ha spiegato qualcosa, ma erano storie troppo incredibili perché le prendessi sul serio. Mi ha narrato di individui che abitano nel cuore delle città, disdegnando il cemento armato e le mille sfumature di grigio della periferia. Ha detto che usano normalmente le estremità inferiori in questa maniera contro natura che consente di strisciare in avanti senza schiacciare il pedale dell’acceleratore, e anzi lo fanno volontariamente. Pare che si riempano le tasche di fasci di sottili fogli di carta coperti di caratteri dai quali estraggono idee per nuove nefandezze… meno male che non so leggere (trascrivo queste informazioni in un registratore che ho inserito nell’omero del braccio destro)!


Bisogna accettare la dura realtà: in auto o senza, il mondo si è spostato. E quel modello ecologicamente snob è minoritario e aggrappato a un’idea di conservazione che getta nel panico le nuove generazioni, le quali si chiedono come mai l’unico futuro che sappiamo proporre loro sia un ritorno al passato, a un collettivismo che non ha funzionato con i carrarmati, figuriamoci sugli autobus.

Trad.: Le scene che vedo sono insopportabili, individui che si trascinano penosamente a velocità ridicole senza un clacson per comunicare tra loro. Quanto è terribile tutto ciò, e quanto più luminoso, al confronto, appare il futuro al quale mi hanno preparato, un futuro di strade non vuote, ma brulicanti di “autuomini” come me (prima che mi privassero, temporaneamente, del mio carapace) che si insultano festosamente l’un l’altro, che si urtano e si tamponano con gioia, che sgasano e strombazzano in libertà, in una coltre grigia e densa di fumi, col solo ossigeno necessario ad alimentare i loro cuori a combustione interna.


Gli scrittori di fantascienza pensavano che dopo l’automobile ci sarebbe stato qualcosa di nuovo, magari l’autovolante, certo non la faccia quaresimale di Edo Ronchi che anticipa un ridimensionamento del nostro stile di vita. In attesa di uno scienziato che affami i petrolieri inventando il motore che non c’è, l’unico antidoto contro l’indigestione di auto sarà il computer, che ridurrà i nostri spostamenti fisici e di conseguenza l’inquinamento, creando ulteriori problemi di solitudine, certo, ma problemi inediti, non stravecchi come quelli riapparsi all’improvviso ieri.

Trad.: Non è un mondo per esseri liberi, questo, dove si critica il consumo sfrenato, dove si pongono limiti alle sacrosante pretese, dove si fa appello all’obsoleto buonsenso, all’aborrita logica!


Le code e la sensazione di soffocamento che dà il trasporto pubblico sono gli stessi fenomeni che soffriamo a bordo dei nostri trabiccoli affumicanti. Dove però abbiamo una radio che ci tiene compagnia, invece che un vicino con le ascelle sudate.

Trad.: Questo veicolo mi fa star male, è pieno di corpi viventi, ma nessuno col quale riesca a comunicare, a confrontarmi, da pari a pari, come faccio di solito con la mia autoradio.


Sarà un male, ma ormai è la nostra vita. Quella di ieri è qualcos’altro che abbiamo già vissuto e non può tornare. Siamo più individualisti, viviamo in un contesto che ha reso improponibile, purtroppo, attaccare bottone con gli sconosciuti su un mezzo pubblico o per la strada. Cosa infatti che ieri non ha fatto nessuno… Se fosse questa la «cultura della mobilità» declamata dal sindaco palermitano Leoluca Orlando, assomiglierebbe alla sua invenzione precedente, la «cultura della legalità», che non ha reso l’Italia né più legale né più colta. Solo più arrabbiata.

Epilogo
Sono tornato, sono di nuovo a casa.
Ora è tutto finito, la mia missione è compiuta, sono sopravvissuto. Non è stato necessario scendere dal veicolo elettrico sul quale ero salito: dopo un tempo interminabile mi ha riportato al punto di partenza, e ora riposo di nuovo nel mio abitacolo. Il dottore ha detto che appena mi sarò riposato rimetterà ogni cosa a posto. Non vedo l’ora di avere di nuovo i centri del piacere del mio cervello direttamente riconnessi al pedale dell’acceleratore, l’abitacolo di nuovo sigillato, il motore acceso e rombante…

……….

… ma che succede? Un’irruzione? Che vuole questa gente? Ci hanno trovati! Stanno facendo entrare l’aria, il sole… E’ la fine! Non mi resta che suicidarmi facendo esplodere l’Air-bag!
Io ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Tubi di scappamento in fiamme al largo di Viale Don Orione… Ho visto Mercedes “Classe A” balenare nel buio, oltre le porte di “Telepass”, e ora tutti quei momenti andranno perduti per sempre, nel tempo, come lacrime di pioggia sul parabrezza… E’ tempo… di morire.”

(Traduzione di Marco K. Dick)

N.d.T.: di questo Gramellini non si può certo dire che sia un uomo stupido: in primo luogo perché dal modo in cui scrive si capisce che non è stupido… ma soprattutto, dal contenuto di quello che scrive, si desume che non è umano.


Update (2010): è buffo vedere come un “signor nessuno” dell’anno 2000, ad un decennio di distanza, sia ormai diventato una sorta di intellettuale di riferimento del presunto “pensiero di sinistra” nel nostro paese. Ok, tutti possono ravvedersi, ma a rileggere certi articoli ci si domanda quanta parte ci sia di reale presa di coscienza e quanta di opportunismo.

Star bene con poco

Stamattina, domenica ecologica, dobbiamo incontrarci in bici con Federico, che ha lanciato in rete un appuntamento per il primo Ciclopicnic del 2007. La giornata è quasi primaverile, la luce a via dei Fori Imperiali stupenda e il fatto che sia pedonalizzata ed invasa da famiglie e bambini la rende irresistibile. A sorpresa invece che uno sparuto drappello di ciclisti troviamo la "banda" quasi al completo, ovvero più di venti persone.

L’avventura dei Ciclopicnic è iniziata a luglio dello scorso anno, proprio da un’idea di Federico, ed è continuata per tutti i mercoledì successivi finché non si è fatto troppo freddo per proseguire di sera. L’inverno (per quanto mite) ha fatto sì che si scegliesse di rimandare alla primavera la ripresa degli appuntamenti serali, optando per iniziative diurne ed estemporanee, ma a quanto pare lo "zoccolo duro" dei Ciclopicnickers ha retto bene alla "lontananza" e lo spirito ciclo-goliardico è intatto.

Cosa si è fatto è presto detto: si è cominciato col bighellonare per le vie del centro di Roma, con la musica del "Ciclo-Sound-System" di Federico che diffondeva all’intorno stornelli romani e canzoni della tradizione napoletana, tra gli sguardi divertiti e un po’ perplessi dei passanti e dei turisti, e soprattutto quelli rapiti ed affascinati dei bambini.

Alle due del pomeriggio abbiamo raggiunto il nostro "solito" praticello a fianco della terrazza del Pincio, ed abbiamo "apparecchiato" con teli, plaid e quello che ognuno/a aveva portato da casa. Abbiamo mangiato, bevuto, riso, scherzato, chiacchierato, sotto un solicello tiepido e con una bella arietta fresca e frizzante. Dopodiché tutti/e di nuovo in bici per il caffè finale e verso le quattro, a piccoli gruppetti, ci siamo salutati ed abbiamo ripreso la via di casa.

A volte ci sembra che la felicità sia qualcosa di irraggiungibile, che dovremmo avere qualcosa di assolutamente unico ed incredibile per essere finalmente soddisfatti. L’esperienza dei ciclopicnic insegna invece che bastano cose molto semplici: una bicicletta, una bella giornata di sole, buon cibo e buona compagnia.

La partecipazione del cittadino

Sabato mattina ho partecipato all’incontro Il vicolo cieco della mobilità di Roma e del Lazio – Incontro-dibattito per una alternativa, promosso dal Comitato per l’Ecomobilità a Roma e nel Lazio e dal settimanale CARTA. Nonostante il ventaglio dei temi trattati fosse estremamente vario ed interessante, la sensazione che mi rimane è che si sia trattata dell’ennesima occasione persa.

Sono stati discussi i problemi legati alla mobilità, al trasporto, alla mancata pianificazione urbanistica del territorio a fronte di una crescita esponenziale delle cementificazioni abitative nella cintura intorno a Roma, dei progetti di nuove autostrade, superstrade, svincoli, complanari, che non faranno altro che accrescere la nostra dipendenza dal trasporto privato su gomma, col suo corollario di aumento di traffico, inquinamento, code, stress e incidenti, e del mancato sviluppo di una rete organica ed efficiente di trasporto pubblico su rotaia, che nel resto d’Europa si è dimostrato la carta vincente per ridurre la congestione dei centri storici e migliorare la qualità della vita dei cittadini.

Altro punto pressante sollevato ha riguardato il problema della partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, recentemente sancita dal Parlamento Europeo.

Di fatto però, invece che un incontro pubblico in cui discutere ed elaborare problemi e soluzioni, l’incontro si è risolto nell’ennesima, e per me sostanzialmente inutile, passerella di rappresentanti del mondo ambientalista, dell’associazionismo e delle istituzioni, che hanno presentato, in una sequenza interminabile ed estenuante, ognuno il suo “pezzo di problema”, pressoché incuranti (a parte poche lodevoli eccezioni) di confrontarsi con i presenti.

Intorno alle 11.30 mi sono messo in lista per intervenire, ed ho dovuto aspettare per più di due ore (!) che le dieci persone (!!) in lista prima di me occupassero il tempo dell’assemblea per “rappresentare sé stessi” ed i problemi che stavano affrontando, autoelogiando la propria coerenza, determinazione ed indispensabilità. Se da un lato è comprensibile che le persone che spendono le proprie energie in cause giuste anelino ad uno spazio in cui si riconosca l’importanza del proprio operato, dall’altro rimane del tutto antifunzionale che questo avvenga al posto di un momento di riflessione collettiva.

Per questo quando, ormai esausto, è arrivato il momento del mio intervento, e il moderatore mi ha invitato ad essere telegrafico, ho sintetizzato al massimo il mio pensiero. Ho detto che la qualità della vita ed il benessere del cittadino vanno in direzione direttamente opposta agli interessi economici che alle nostre spalle prosperano (p.e.: se si migliorasse realmente la qualità della vita nelle città, a chi venderebbero, i palazzinari, i milioni di metri cubi di nuove abitazioni nei sobborghi? Se migliorasse la salute dei cittadini a chi venderebbero, le industrie farmaceutiche, cure e medicinali?), e di questo i cittadini non sono consapevoli.

Ma ho anche aggiunto il mio profondo dissenso circa la maniera di condurre un confronto pubblico. Non si possono spendere quattro ore a fare un elenco dei problemi, senza avere poi il tempo per individuare le possibili soluzioni o le modalità di intervento. Che in ambito lavorativo le riunioni si fanno per risolverli, i problemi, non per elencarli. E che se non si riesce a garantire una reale partecipazione dei cittadini neppure ad incontri di questo tipo sarà infinitamente più difficile far sì che possano realmente partecipare alle scelte amministrative.

Di fatto la tanto pretesa "partecipazione dei cittadini" alle scelte politiche mi sembra che venga interpretata da queste persone più come "partecipazione dei rappresentanti" che dei cittadini stessi. Sarà forse che l’idea di democrazia è tanto bella e utopistica quanto di difficile applicazione, e che in fondo, i più, si contentano di qualcosa che gli assomigli anche solo vagamente.

Le regole della casa del sidro

Da qualche giorno gira in rete (o meglio in quella parte di rete che ormai in molti chiamano “Blogosfera”) una sorta di “catena di S. Antonio”, che i vari blogger si rimpallano a vicenda. La cosa consiste in questo: definire cos’è un Blog in meno di 2000 battute. Ci si sono cimentati in tanti, ed io, che “blogger” lo sono da pochissimo tempo, colgo la palla al balzo per completare un chiarimento ormai necessario su cos’è questo spazio, che ci sta a fare, cosa il lettore si deve aspettare e come si dovrebbe comportare. Data la mia abituale prolissità, temo che le “2000 battute” non basteranno neppure per la premessa.

Il termine Blog definisce per prima cosa lo strumento tecnico, ovvero la piattaforma software, studiata per consentire un caricamento dei contenuti sequenziale, semplice e veloce, e la relativa gestione degli stessi. Lo strumento è già in sé concettualmente brillante, ma la materia più interessante è di natura sociale e riguarda il “come” questo strumento ha finito con l’essere utilizzato.

Le piattaforme di Blogging hanno avuto il pregio innegabile di svincolare la possibilità di pubblicare contenuti on-line dalla necessità di possedere una competenza tecnica specifica. Prima di esse, la maggior parte delle persone dotate di un “sapere umanistico” risultavano pressoché tagliate fuori dal web. Dopo il loro avvento pubblicare pagine web belle e facilmente navigabili è finalmente alla portata di tutti.

Che cosa poteva, tanta gente, desiderare di mettere on-line? Risposta sciocca quanto imprevedibile: la propria vita, le proprie passioni, le proprie emozioni. I Blog sono diventati quindi un ibrido tra il diario personale e il “giornalismo fai-da-te”, hanno ospitato storie, sogni riflessioni, sono divenuti strumento di analisi e lotta politica, e grazie alla possibilità offerta dai “commenti” hanno generato comunità, finendo col mettere in discussione il modello tradizionale di circolazione delle informazioni (i giornali) e con esso l’idea stessa di giornalismo.

Ad oggi si individuano tre grandi tipologie di Blog: il “blog personale”, di cui questo è un tipico esempio; il “blog collettivo” in cui più persone lavorano alla definizione di un’idea o elaborano una passione condivisa (pensiamo a RomaPedala); ed infine i blog delle “firme importanti”, Beppe Grillo in testa, che privilegiano un tipo di comunicazione “verticale” ed in cui il contributo dei lettori assume un ruolo puramente marginale.

Giunti al dunque: cosa vuole essere questo blog?

Innanzitutto uno spazio personale, in cui però il personale diventi pubblico e si apra al dialogo ed al confronto. Un modo di far partecipe il mondo delle idee che mi passano per la testa, dei ragionamenti che mi producono, delle conclusioni che ne traggo. Ed anche uno spazio aperto al colloquio, ma con certe ‘restrizioni’ che discendono comunque dal mio modo di vedere, dal mio personale sentire, dalla mia idea dei concetti di educazione e decenza.

Per questo mi riservo di non approvare toni e contenuti di alcuni commenti, cancellarli o ‘troncarli’ a seconda del caso. Accadrà molto raramente e solo per quei lettori che non vorranno accettare, o sceglieranno di ignorare, le ‘regole’ che mi sono dato, il ‘tono generale’ che desidero questo spazio possieda. Non ci tengo a che diventi un ricettacolo di liti e discussioni accese, dove chiunque possa dar sfogo alla propria aggressività, superficialità o crassa ignoranza.

Usando il parallelo formulato da Massimo Mantellini il proprio Blog è come una casa, da tenere pulita ed in ordine, e arredata a proprio gusto. Una casa dove invitare gente da fuori, farli sentire a proprio agio, offrire un tè, discutere delle cose che ci interessano. Ma anche una casa in cui sentirsi in diritto di scegliere i propri interlocutori, e buttar fuori chi si comporta male. D’altronde il ‘cyberspazio’ è sconfinato, e se qualcuno/a sente la necessità di esprimere la propria personalità in modi che possono disturbarmi, la possibilità di farlo in moltissimi altri spazi non sarà loro certo negata. Ma non a casa mia…

Altrimenti le persone che ho piacere di invitarci potrebbero decidere che non vogliono più condividerla con me.

“Patti chiari, amicizia lunga”

Note a margine di una riunione estenuante

Ieri sera ho partecipato ad una riunione del Coordinamento Roma Ciclabile, struttura nata dall’esigenza, manifestata dalle diverse realtà ciclo-ambientaliste di Roma, di dialogare e coordinarsi. In realtà quello che accade sistematicamente è la plateale dimostrazione del madornale livello di immaturità dei delegati delle varie associazioni rappresentate. Piccoli interessi “di bottega”, manie di protagonismo, “cadaveri nell’armadio”, questioni speciose, dietrologie… insomma tutto l’armamentario di inconcludente e sterile polemica visto riproporsi negli anni passati.

L’unica cosa che ci salvi è l’autoironia, così dopo un po’, all’ennesima “evocazione” del fantomatico “Bici Plan” comunale, ho pensato, altro che BiciPlan, qui ci vorrebbe il BiciPlano… ho preso un foglio di carta e l’ho disegnato.

Biciplano

(questa, ovviamente, è una versione rifatta al computer…)

Poi, idealmente, ci sono salito sopra e sono volato via… pedalando… via dalle riunioni inconcludenti, dalle chiacchiere a vuoto, da una città incasinata ed ingestibile, da un mondo drogato di petrolio e di velocità, che corre, corre, e non sa nemmeno per andare dove, o perché.

Un pezzo di Cechov è ancora Cechov?

Reduce da un "weekend intensivo", denso ed entusiasmante, col gruppo del laboratorio teatrale mi ritrovo ancora una volta a dover riconsiderare  certe mie ferme convinzioni: stavolta è toccato alla "sacralità del testo".

Prendete un capolavoro della drammaturgia del ‘900, un lavoro di Cechov, buttatene via tre atti su quattro (compreso il finale), riducete di numero ed adattate i personaggi agli attori che avete a disposizione, tagliate ancora le parti delle battute che risultano ormai incomprensibili perché mancanti del resto, rinunciate alla scenografia (ridotta a pochissimi elementi quasi irriconoscibili) e… come definire ciò che resta? Soprattutto che raffronto si può fare con il lavoro originale?
Un pezzo di Cechov è ancora Cechov?

Non molto tempo addietro avrei risposto che no, non si può mutilare un’opera a tal punto e pretendere di rappresentare ancora qualcosa di accettabilmente simile all’originale. Ieri ho cambiato idea. Quello che resta intatto, di Cechov, sono le emozioni che provano i personaggi, di fatto il cuore del lavoro teatrale. La sua essenza.

Tutto risulta alla fine molto più denso, veloce, concentrato. Un po’ il lavoro che si fa in uno spot pubblicitario (dove con pochissime "pennellate" visive, in una manciata di secondi, si racconta un’intera storia), viene trasportato sul palcoscenico, e un lavoro teatrale di due ore abbondanti viene condensato in una dozzina di minuti, senza la pretesa di voler restituirne "il tutto", ma solo la sua parte più importante.

Nell’accezione che gli darebbe Baricco (si veda il post di qualche giorno fa) un "lavoro barbaro"… ma anche un tentativo di trasportare Cechov un secolo avanti, adattandolo ai tempi ed ai linguaggi attuali, e celebrarne l’intramontata grandezza.

L'eclissi della fantascienza

346440274_04e0df86f5Confesso di aver iniziato questo libro più che altro per la curiosità di leggere un autore di fantascienza di "casa nostra"… ed è finita che mi sono trovato a dover fare i conti con cinquant’anni di immaginario fantascientifico italiano, con il tramonto di un genere letterario e gli inevitabili paralleli con l’attuale momento sociale.

Il mio incontro con la fantascienza è avvenuto da giovanissimo, prima attraverso i fumetti, poi con gli inevitabili "Romanzi di Urania". Era l’unica forma letteraria in grado di assecondare il mio slancio verso il futuro, la trasformazione, il fantastico.

Facendo due conti questo genere mi accompagna da più di trent’anni, è stato spesso una sorta di "bene rifugio", in cui evadere i momenti più tristi, ed è per questo che mi duole profondamente vivere il momento di agonia che sta attraversando ormai da parecchio tempo.

Il volume pubblicato da Urania riassume per intero il problema. Un romanzo e tre racconti scritti in un arco di tempo di quarant’anni, tra il 1960 e il 1999.
Il romanzo,(del 1979) è quello che dà il titolo al volume, un’antiutopia dura e pessimista che racconta il destino di alcune migliaia di persone rinchiuse in un’astronave proiettata verso un mondo che nessuno di loro vedrà mai. In chiave di metafora, come tutta la buona fantascienza, racconta la crisi dei regimi socialisti dell’Europa dell’est, e l’impossibilità di gestire un potere totalitario senza mentire.

Questa è senza ombra di dubbio la parte migliore del volume, il resto è più un tributo alla carriera letteraria di Aldani, si spazia da un racconto grottesco ed ormai inverosimile (del 1960) sulla gestione privata della salute pubblica, ad una stra-datata saga a base di scienziati, venusiani, dischi volanti, dinosauri e "raggi della morte" in puro stile "superscienza" degli anni ’30 (e chi ha letto J. W. Campbell Jr. sa di cosa parlo…), ad un racconto del ’99 che non si può neppure definire di fantascienza e rifà il verso a certe cose di Buzzati.

Va bene il tributo, va bene il valore letterario, ma è sconcertante che un genere nato per speculare sul futuro, o sui possibili futuri, sia a tal punto "alla frutta" da proporre, nella maggior parte delle pubblicazioni, opere ormai platealmente vecchie. Non solo si pubblicano racconti del tutto superati dall’evoluzione scientifica, culturale e sociale, ma gli si dà una veste grafica avveniristica ed accattivante che prelude all’esatto contrario di quanto si offre.

E’ come se la fantascienza, o meglio i pochi ancora appassionati di questo genere, fossero ormai paradossalmente più proiettati verso il passato che verso il futuro. Come se il futuro che non riusciamo più ad immaginare fosse qualcosa di appartenente ai tempi andati. Si guarda indietro, agli anni ’50, agli anni ’60, per cercare tracce di quel "domani", all’epoca così contingente, quasi a portata di mano, che adesso non abbiamo più, non siamo più in grado di immaginare e forse neppure più di desiderare.

Browsers e Templates

Il post di oggi è un post di servizio, ho dovuto cambiare il Template del Blog (dicesi, l’aspetto con cui appare) perché per qualche stra#ç@§!!! di motivo quello precedente non veniva visualizzato correttamente da Internet Explorer 6 (ringrazio Piero per la segnalazione).
Terrò questo finché non risolvo il problema, spero di scovare la magagna e quindi poter tornare al precedente quanto prima.

Update – 19 gennaio 2007
Magagna scovata (trattavasi di un bug di Internet Explorer, a detta dei tenutari di Splinder) e, apparentemente, sanata. Il problema più grosso è stato il non poter riprodurre sulla mia macchina il difetto, dal momento che ho un Mac.

P.s.: a margine di tutto questo segnalo il tempo inutilmente perso in una scorribanda interminabile su siti di templates vari e più o meno improbabili, chi ha proprio voglia di farsi del male può comodamente usare Google per andarseli a cercare…

Arrivano i Barbari

Barbaricco

Ormai alcuni mesi fa mi segnalarono la presenza on-line di un saggio di Alessandro Baricco, pubblicato sulle pagine web di Repubblica.it.
Seguii il link, lessi il penultimo capitolo e non ci capii quasi nulla, ma tanto bastò ad affascinarmi ed accendere la mia curiosità di leggere tutto il resto.

Il saggio prova ad analizzare le trasformazioni che attraversano la nostra società, le “mutazioni” dell’oggi, cercando di definire se realmente si tratti di un’involuzione, di una “Calata dei Barbari”, oppure di qualcosa di totalmente diverso.

Nel primo capitolo (che in realtà è solo la prima parte di una lunghissima introduzione), così chiarisce il concetto:
Voglio dire che quella è precisamente la cosa che mi piacerebbe capire: in cosa consiste la mutazione che vedo intorno a me.
Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedo menti raffinate scrutare l’arrivo dell’invasione con gli occhi fissi nell’orizzonte della televisione. Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura né storia.
I barbari, eccoli qua.

Raccontare il libro intero è impossibile, e tutto sommato sostanzialmente inutile, non devo convincere nessuno  a comprarlo (semmai, al più, potrei regalarlo) dal momento che è interamente disponibile in rete, vi basta andare al link e leggervelo da soli. Il prosare di Baricco è affascinante, ed ha un modo molto ad effetto (molto “barbaro”, nella sua definizione) di concatenare gli argomenti, inanellare aneddoti, rileggere fatti ed eventi della storia recente e lontana.

E soprattutto è affascinante la conclusione a cui arriva, che trovo abbastanza condivisibile, che no, non di “barbarie” si tratta, ma del “nuovo”, un nuovo talmente diverso da ciò che abbiamo imparato da non riuscire ad inquadrarlo e comprenderlo. Come peraltro è sempre accaduto nel corso della storia dell’umanità.