Disegnare una rete di Bike-Lanes

Quando, pochi giorni fa, ho iniziato a metter mano ai dati ECC2014, il mio amico Rotafixa mi ha posto una semplice domanda: “se ne può ricavare un progetto?”

La mia risposta è stata che un “progetto” deve necessariamente rispondere ad una domanda in termini politici, e che i dati in sé non formulano una domanda, pur fornendo la base per una possibile risposta. Essendo giunto ad una impasse, ho deciso di procedere con l’approccio “marzulliano” del “si faccia una domanda e si dia una risposta”.

Dunque, sapendo su quali strade prevalentemente si muovono i ciclisti, e desiderando massimizzare l’efficacia del mio intervento, buonsenso vuole che inizi ad infrastrutturare le direttrici più utilizzate. Il lavoro che ho fatto sulla base dati è stato quindi selezionare un ristretto gruppo di direttrici dove il traffico ciclistico si affolla maggiormente. Ho applicato un filtro di contrasto e questo è quello che ne è venuto fuori.

Il passaggio successivo è stato di applicare la mia “radiografia” sul tessuto della città, operazione resa molto semplice dal software gratuito Google Earth.

Next step: senza guardare quali strade ci fossero sotto, ho provveduto a tracciare le direttrici evidenziate dall’immagine.

Le tracce di colore diverso dal rosso sono piste ciclabili (in verde), fa eccezione la ciclabile Tevere (in azzurro) e la pseudo-ciclabile di via Prenestina (in grigio).

Questa è all’apparenza una mappa “discriminante”, perché rappresenta quasi unicamente strade del centro città. In realtà lo è meno di quanto appaia perché l’evidenza dei dati è che i ciclisti tendono a muoversi preferenzialmente dalle periferie verso i poli attrattivi siti principalmente nel centro città. Quindi una rete inizialmente impostata in questa maniera servirebbe non solo i ciclisti del centro, ma anche quelli delle zone periferiche.

Altro appunto: alcuni corridoi sembrano iniziare e finire nel nulla, e questo non ha molto senso in una logica di rete. Anche questo è un falso problema: quei corridoi sono probabilmente solo passaggi obbligati tra zone “permeabili” al flusso di biciclette (come ben spiega il modello di città a grappolo), quindi corridoi “critici” da mettere in sicurezza per garantire il transito da una zona sicura ad un’altra zona sicura.

La cosa interessante di questo lavoro è che non richiede la conoscenza del territorio (quella ce l’hanno già i ciclisti che hanno tracciato i percorsi), quindi la fase finale consiste nell’andare a scoprire di quali strade stiamo parlando.

Le immagini possono essere ingrandite cliccandoci sopra, ma se realmente volete andare nel dettaglio il file con le tracciature è scaricabile da qui. Si tratta ovviamente di una base di partenza, ma tutto sommato un’ottima base: il disegno e la realizzazione di corridoi sulla sede stradale, senza necessità di pesanti lavori di infrastrutturazione, può essere eseguito nell’arco di pochi mesi, valutato in tempo reale ed esteso, nel giro di un anno, anche alle zone più periferiche. Tutto sta a cominciare.

N.b.: qui un’analisi successiva più esaustiva

Post scriptum: va bene che sono un NERD e mi diverto ad elaborare dati, va bene anche che tutto sommato questo lavoro mi ha portato via un paio d’ore in una mattinata uggiosa in cui non avevo granché meglio da fare, ma quanto possiamo andare avanti noi ciclisti romani a fare il lavoro che altri, generosamente retribuiti dalla collettività, fanno finta non sia di propria competenza?

la cultura della paura (perché non dovremmo portare il casco)

piombino in bici

nota: questo pezzo è una trascrizione riadattata della conferenza “the good life” di Mikael Colville-Andersen durante un TEDx a Copenhagen
è la risposta migliore a una delle obiezioni più classiche che ciclicamente viene fatta a chi si sposta in bici in città: “certo che dovresti metterti il casco”
e ribalta buona parte dei punti di vista più radicati sulla pericolosità del ciclismo urbano

il video con i sottotitoli è disponibile in fondo al post

5146199786_2db68f2212_z the good life

introduzione

“La bella vita”

Queste tre parole probabilmente significano qualcosa di completamente diverso per persone completamente diverse.
Ho delle concezioni personali su che cosa significhi la bella vita per me e per la mia famiglia. Una di queste cose è la bicicletta, o meglio, le persone in bicicletta. Una sinfonia di movimento generato dagli uomini in mezzo al paesaggio urbano. È in gran parte ciò di cui mi occupo: promuovere l’uso urbano della…

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Il lavoro dei Diari si arricchisce di nuovi dati

I Diari della Bicicletta

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Recentemente ho avuto la possibilità di metter mano all’enorme mole di dati prodotta nel corso dell’European Cycle Challenge 2014, una “competizione” europea che ha coinvolto per un mese centinaia di ciclisti romani ed ha consentito di acquisire e tracciare i loro percorsi. Maneggiare una tale quantità di informazioni non è semplice, ma alla fine sono riuscito a produrre una efficace “heatmap” della situazione romana, in grado di riprodurre non solo i tracciati ma anche la relativa frequenza di utilizzo. Sono dati da non prendere per oro colato, ma che comunque disegnano una mappa della città dal punto di vista dell’uso che ne fanno attualmente i ciclisti, e mi interessava confrontarla con lo studio portato avanti sul territorio del V Municipio e con le conclusioni cui un anno fa eravamo giunti.

I nuovi dati confermano sostanzialmente quello che eravamo arrivati a dedurre partendo da una serie di tracciati molto più ridotta…

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Il flusso sanguigno

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Ricordate il contest European Cyclists Challenge 2014 cui i ciclisti romani parteciparono praticamente costringendo l’amministrazione comunale ad aderire?

Se ve lo ricordate ancora, a molti mesi di distanza, ricorderete pure che uno dei punti nodali di quella “sfida” era la raccolta di informazioni sui tragitti quotidiani dei ciclisti, che avrebbero potuto essere trasferiti su una mappa per evidenziare quali direttrici avessero più necessità di intervento. Per questo motivo accolsi con entusiasmo la notizia, giunta nelle settimane seguenti la conclusione della sfida, riguardante il fatto che il Comune di Roma aveva deciso di acquistare i dati raccolti dagli organizzatori del “Challenge”.

“Fantastico!”, pensai, “Ora finalmente avremo una base dati ottimale per organizzare la ciclabilità romana!” Inutile dire che quei dati precipitarono nel solito “inghiottitoio” che nulla restituisce, al pari dei black holes teorizzati dagli astrofisici.

Che altro fare se non rimboccarmi le maniche, scaricarmi la mostruosa mole di dati (un singolo file .csv da 580Mb…) e cominciare ad elaborarmeli da me? La solita fatica di Sisifo, ma qualcosa pian piano comincia ad uscir fuori. La foto che vedete qui sopra è una prima e molto grezza elaborazione. I tre “cerchi” che il flusso dei ciclisti romani disegna sono il Colosseo (a sinistra), Piazza dei Re di Roma (in basso) e Porta Maggiore (in alto).

Questa rappresentazione rende evidente come solo alcune direttrici dell’intera rete stradale vengono utilizzate. La prima considerazione è che quelle direttrici assolvono efficacemente le esigenze di spostamento dei ciclisti ed andrebbero messe in sicurezza prima di altre.

La seconda considerazione è che si può fare la scelta di sistemarne solo alcune, dirottando su di esse flussi dispersi. Ma ad una condizione: che siano direttrici efficaci, non dei “giri di Peppe”.

L’ultima considerazione è che non si può continuare a costruire piste ciclabili “dove non danno fastidio”, come si è fatto fin qui. Perché se queste non rispondono a precise esigenze di mobilità risulteranno soldi buttati.

In realtà c’è un’ultima riflessione, e verte su una questione di metodo. Nei mesi scorsi l’Agenzia Mobilità del Comune di Roma ha richiesto ai singoli municipi di elaborare delle proposte sulle “ricuciture ciclabili” a parer loro più urgenti. Un’informazione che da questi dati emerge con un dettaglio impareggiabile, molto migliore di quanto qualsiasi ufficio tecnico municipale fosse in grado di elaborare… e che Agenzia Mobilità possedeva già.

La guerra nelle strade

Quante volte abbiamo sentito i media riferirsi ai dati sull’incidentalità stradale come ad un “bollettino di guerra”? Migliaia di morti ogni anno, centinaia di migliaia di feriti, in prevalenza giovani ed in ottima salute (l’incidentalità automobilistica è la prima causa di morte nella fascia d’età tra 18 e 25 anni) dovrebbero indurci a ragionare almeno un po’. Tuttavia su questi dati cala sistematicamente una cappa di omertà, e ci viene spiegato che tutto dipende dai comportamenti individuali, dal caso, dalla necessità, e che questa carneficina è in sostanza non evitabile.

Ho provato a prendere il concetto in senso letterale, lavorando sull’idea che “guerra” fosse un po’ più che una metafora per spiegare il fenomeno… come conseguenza ho iniziato a sviluppare parallelismi inquietanti. Si tratterebbe certo di una “guerra atipica”, ed andrebbe compreso quali siano le parti in conflitto e quale la posta in palio.

Quella in corso in ogni nazione del mondo occidentale è definibile solo nei termini di una guerra fratricida. Non è un concetto che debba apparire particolarmente atipico alla luce del fatto che in molte nazioni del terzo mondo hanno sperimentato conflitti analoghi, seppur combattuti con le armi e, dove non ci sono, coi machete (Ruanda).

La molla del conflitto in Ruanda viene identificata da Jared Diamond (Collasso) nella sovrappopolazione, e nel conseguente conflitto per le risorse alimentari: nella sua definizione una catastrofe malthusiana. Quello della sovrappopolazione è un dato evidente anche nel nostro contesto sociale ma alla radice del conflitto non ci sono (ancora) problemi alimentari, bisogna scavare più a fondo.

Quello che è diventato scarso, nella nostra società, è lo spazio. Sembra un paradosso ma le abitudini al consumo compulsivo, il modello di vita moderna che si è instaurato nel corso dei decenni, ha finito col confinarci in spazi sempre più ristretti e per periodi via via più prolungati senza che fosse possibile percepire questa forma di “riduzione in cattività” (operata spontaneamente dopo averla collettivamente interiorizzata).

Tuttavia, anche ciò che non percepiamo a livello conscio, ciò che consapevolmente neghiamo (“Sono prigioniero? Che sciocchezza!”), matura a livello inconscio producendo nevrosi. E non è negabile che l’accumulo di ricchezza e di oggetti, dentro le nostre case e fuori, la pretesa di spostarsi sequestrati dentro veicoli ingombranti che molto facilmente intasano le strade induce forme di stress non più gestibili.

Ricordo ancora con chiarezza il mio primo giorno da ciclista. Sembrerebbe strano, dato che sono passati ormai ventisei anni, ma è evidente che i momenti chiave della nostra esistenza, quelli attorno ai quali la nostra vita ruota e cambia direzione, restano fermamente stampati nella memoria. Ricordo nettamente gli spazi sconfinati che improvvisamente mi si aprivano davanti, la percezione di essere microscopico in un vasto mondo, la sensazione di libertà.

Sensazioni preziose perché ormai rare, ma nonostante ciò dalle quali dipende l’equilibrio mentale degli esseri umani. Ci raccontiamo che è normale vivere chiusi in appartamenti, è normale chiudersi in un veicolo per raggiungere il posto di lavoro, lavorare al chiuso la maggior parte della giornata, richiudersi di nuovo in un veicolo per andare finalmente a vivere un momento di svago, al cinema, ad ammirare spazi sconfinati proiettati su uno schermo in uno stanzone chiuso.

La mia diagnosi è che viviamo collettivamente in una condizione di claustrofobia latente, non percepita e quindi non gestibile, che produce nevrosi ed induce, come effetti collaterali, tutta una serie di comportamenti aggressivi legati alla percezione degli spazi ed all’affermazione/desiderio di libertà.

Inscatolati ed ingabbiati dentro le nostre automobili e confinati su sedi stradali che anch’esse hanno le caratteristiche facilmente riconoscibili di gabbie (guard rails, recinzioni, muri perimetrali…), le uniche forme di libertà che ci è concesso esprimere riguardano l’utilizzo di quella sede stradale: guida veloce, aggressiva, indifferenza alla segnaletica. Alimentiamo la nostra necessità di affermazione individuale e di libertà misurandoci coi limiti fisici dei nostri recinti mentali.

Torniamo ora al parallelo con la guerra. Chi combatte? Tutti quelli che hanno in mano un’arma, per quanto nella forma impropria di un veicolo: automobilisti, motociclisti, conducenti di mezzi pesanti. Chi è il nemico? Tutti e nessuno: le strade sono un’arena dove si combatte per l’affermazione individuale. Chi ci guadagna? Quelli che traggono vantaggi diretti dal modello di consumi attuale e non sono disposti a rimetterlo in discussione. Incidentalmente quegli stessi soggetti che hanno la massima capacità di orientare l’opinione pubblica e la percezione collettiva.

Si tratta nei fatti di una guerra atipica e non dichiarata, ma che ci coinvolge tutti nel ruolo di vittime e carnefici. Una guerra per di più inutile, prodotta in parte dall’egoismo e dall’avidità, ma in misura ancora maggiore dalla sciocca non-gestione, mancata organizzazione degli spazi urbani e collettivi, che un’attenta pianificazione urbanistica avrebbe potuto rendere molto più sani ed ospitali.

Alla luce di quest’analisi diventa evidente che le soluzioni non possono consistere unicamente nella repressione delle elevate velocità e dei comportamenti a rischio, ma dovranno coinvolgere un ripensamento complessivo del modello sociale e relazionale creando occasioni in cui la condizione di claustrofobia possa trovare sfogo.

Il punto principale è, come spesso accade, la mancata percezione della condizione patologica nella quale, come collettività, siamo lentamente scivolati. Le trasformazioni sociali e culturali che hanno seguito la rivoluzione industriale hanno portato sì ricchezza e benessere, che la propaganda non manca di esaltare, ma anche una quantità di problemi e contraddizioni sui quali si glissa, o si fa finta che non esistano del tutto.

Come interventi immediati andrebbe operato un recupero degli spazi urbani attraverso la rimozione forzata delle vetture in sosta, che da sole rappresentano una fetta importante delle “recinzioni non percepite” ed una limitazione pervasiva degli spazi collettivi (divenuta ormai usuale e pertanto difficile da mettere a fuoco).

Parallelamente andrebbe operato un recupero degli spazi non edificati ed andrebbero attivamente promosse forme di attività all’aria aperta in grado di riequilibrare la quotidiana sensazione di claustrofobia. Questo tipo di attività (passeggiate, bicicletta, jogging…) vengono già svolte individualmente da una parte della popolazione più attenta al proprio equilibrio mentale, ed andrebbero estese ulteriormente aumentandone le occasioni e gli spazi destinati e promuovendone la fruizione.

In prospettiva l’intera organizzazione urbana andrebbe ridisegnata in vista di una riduzione complessiva dell’uso delle automobili, sia investendo nel trasporto pubblico che con disincentivi al possesso ed all’uso di tali veicoli. Iniziative che in realtà più evolute della nostra si stanno già portando avanti da anni. Noi cosa stiamo aspettando?


(piazza Santo Stefano a Budapest)