Ripensare la ciclabilità urbana – seconda parte

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

Cosa dunque produce le discontinuità nel tessuto urbano descritte nella prima parte? Partendo dall’esperienza personale, volendo muovermi dal quartiere dove abito verso il centro città, la via Tuscolana rappresenta un passaggio pressoché obbligato a causa dell’unico ponte che scavalca un doppio tronco ferroviario, la linea regionale Roma-Napoli e quella per Ciampino (da cui si diramano poi le varie tratte verso i Castelli e il sud del Lazio).

Un passaggio obbligato non solo per le biciclette ma per l’intero traffico veicolare, e che si viene quindi a configurare come un corridoio di traffico denso e veloce, privo sia di sistemazioni ciclabili che di vie alternative. La ferrovia (di superficie) rappresenta perciò una efficace barriera, ed una discontinuità critica nel tessuto urbano, impedendo di fatto l’esistenza di una rete di viabilità minore necessaria alle esigenze di una mobilità leggera.

Un problema del tutto analogo a quello prodotto dai corsi d’acqua, le cui due rive possono comunicare solo attraverso ponti, al di sopra dei quali si concentra l’intero traffico veicolare (che poi finirà col disperdersi su aree più vaste, una volta restituito ad una rete urbana capillare). Tuttavia, a differenza dei fiumi, è possibile oltrepassare l’impedimento prodotto dalle ferrovie anche per mezzo di sottopassi, la cui criticità è di rado inferiore a quella rappresentata dai ponti.

Osservando attentamente la mappa, per scavalcare la ferrovia le alternative al ponte di via Tuscolana sono infatti unicamente altri ponti e sottopassi. Verso nord, a poco meno di un chilometro, è presente un sottopasso bidirezionale (su via di Porta Furba) ancora più claustrofobico ed allucinante del ponte, con continuo passaggio di auto in entrambe le direzioni ad ogni ora del giorno e della notte, e dotato di marciapiedi risibili.

Verso sud, a più di un chilometro di distanza ed ormai in tutt’altra direzione rispetto a quella desiderata, lo sdoppiamento della ferrovia produce in rapida sequenza prima un ponticello, poi un sottopasso (su via del Quadraro), il tutto in una strada stretta, a doppia corsia, con passaggio di auto veloce e frequente.

L’effetto che queste strozzature producono sul traffico veicolare è quello di concentrare i flussi precedentemente diffusi in pochi “colli di bottiglia”, che risultano permanentemente affollati e per gli automobilisti hanno caratteristiche tali da poter essere percorsi ad alta velocità, rappresentando un importante fattore di rischio per ciclisti e pedoni. In molti ponti e sottopassi i marciapiedi pedonali sono del tutto assenti e, quando presenti, di dimensioni inadeguate.

Una volta individuata la realtà responsabile del problema (in questo caso la ferrovia, ma come abbiamo visto anche i fiumi) risulta abbastanza semplice percorrerla alla ricerca di situazioni analoghe. Il risultato è che, invariabilmente, in ogni (raro) punto in cui la rete stradale interseca l’asse ferroviario si riscontrano situazioni di criticità per la mobilità leggera: congestioni di traffico, alta velocità dei veicoli, assenza di sistemazioni in sicurezza di sedi pedonali e ciclabili, spesso perduranti anche a distanza dall’impedimento stesso.

Ma il problema non è limitato alle sole barriere lineari disegnate da ferrovie e fiumi (Tevere ed Aniene). In maniera del tutto analoga si comportano infrastrutture viarie recenti dedicate al solo traffico motorizzato. Sto parlando delle autostrade urbane.

La città di Roma incorpora diverse strutture di questo tipo, destinate allo scorrimento veicolare veloce e privo di impedimenti, la più grande e vistosa delle quali circonda l’intera città e prende il nome di Grande Raccordo Anulare. Rispetto alla mobilità leggera il GRA rappresenta una sorta di “cinta muraria”, i cui unici varchi (con rarissime eccezioni) risultano presidiati da un traffico incessante e caotico, e non di rado da ingorghi.

Gli svincoli del GRA sono, da sempre e con grave peggioramento negli ultimi anni, un nodo gordiano inestricabile che impedisce ai ciclisti di Roma di uscire dalla città in sicurezza, ed a quelli fuori città di entrarvi, fatta eccezione per i gruppi di ciclisti sportivi che, in virtù del numero, riescono a forzare tale barriera (non senza qualche preoccupazione). Altre “muraglie” analoghe innestate nel tessuto cittadino sono il tratto urbano dell’A24 Roma-L’Aquila, l’autostrada Roma-Fiumicino e la Tangenziale Est.

Tutte queste strutture destinate al traffico veicolare motorizzato presentano limitati punti di attraversamento, spesso caratterizzati da svincoli, traffico pesante e nessuna sistemazione in sicurezza per la mobilità ciclabile e pedonale. Quel che è peggio, rappresentano dei forti attrattori di traffico per i nodi di scambio con la viabilità ordinaria e, non da ultimo, essendo corridoi pensati per il solo traffico veicolare e vietati a bici e pedoni, nei punti in cui intersecano le altre “barriere” summenzionate (fiumi e ferrovie), spesso rappresentano l’unica forma di bypass viario nell’arco di diversi chilometri.

L’effetto prodotto dall’accumulo queste barriere è una “impermeabilità” alle bici tra aree anche molto prossime tra loro. A nord i quartieri a ridosso della via Salaria e della via Flaminia, pur “guardandosi” l’un l’altro, sono ciclabilmente incomunicanti a causa del fiume Tevere, di uno scalo ferroviario e della via Salaria, che assume molte delle caratteristiche di una autostrada urbana.

A sud-ovest, per contro, il collegamento tra le due popolose aree di Magliana e dell’Eur è affidato ad un’esile pista ciclabile, il cui imbocco conoscono in pochissimi, all’altezza del viadotto della Magliana. Tolta quella, per chilometri e chilometri non c’è letteralmente maniera di superare gli ostacoli prodotti da fiume, ferrovie ed autostrade.

Ad est, il collegamento tra i quartieri che si sviluppano intorno ai due assi viari di via Tiburtina e via Prenestina risultano pressoché isolati a causa dei muri di traffico che si producono nei sottopassi, svincoli e cavalcavia dell’A24 e delle linee ferroviarie (AV Roma-Napoli e treni regionali per Tivoli e per l’Abruzzo)

Parlando di “muraglie”, infine, non si può fare a meno di menzionare le cinte murarie della città antica, che anch’esse rappresentano una barriera attraverso le cui porte transitano i flussi di traffico in entrata e in uscita dal centro città (al pari dei diversi acquedotti romani variamente disseminati nelle periferie, sotto le cui arcate autovetture e ciclisti si contendono i pochi metri di asfalto percorribile).

Quelle analizzate fin qui sono le barriere più evidenti alla mobilità ciclistica tra quartieri, ed una volta tracciate sulla mappa cittadina disegnano un quadro evidente, per quanto tragico, dell’incomunicabilità tra periferie, e di quella tra periferie e centro città. Una città cresciuta adattandosi in maniera molto precaria ad infrastrutture preesistenti, dotata di un tessuto urbano estremamente disomogeneo e pressoché priva di infrastrutture atte a garantire il superamento di queste barriere.

Una “forma urbis” che ho definito “a grappolo” o, con una metafora che mi hanno suggerito poco fa, un “arcipelago” di quartieri separati tra loro da “fiumi” di acqua, ferro ed asfalto, uniti da rari collegamenti attraverso i quali fluisce un traffico forsennato di autoveicoli.

Purtroppo il discorso non si chiude qui, perché ci sono ancora altre barriere, meno evidenti e più sottili, da analizzare. Le vedremo nella terza parte, dove cominceremo anche l’analisi delle possibili soluzioni.

(continua)

Ripensare la ciclabilità urbana – prima parte

Nei venticinque anni passati a girare in bici per la città di Roma mi sono ritrovato spesso a passare per punti obbligati, ancorché molto pericolosi. Se mi fossi domandato “perché passo da qui?” la risposta sarebbe stata, presumibilmente: “perché non ci sono alternative”. Ora, venticinque anni dopo, sono arrivato finalmente a formulare una nuova domanda: “per quale motivo non ci sono alternative?”

L’approccio del ciclista alla dimensione urbana è drasticamente diverso da quello dell’automobilista, che per solito percorre pedissequamente la viabilità principale, confidando nel fatto che sia la via più scorrevole. Il ciclista, tuttavia, ha altre priorità che non la sola scorrevolezza. Nel suo moto non frenetico attraverso la città privilegia, negli spostamenti, la sensazione di sicurezza, e la tranquillità propria della viabilità minore.

Per questo il ciclista esperto è un conoscitore molto più attento degli spazi cittadini, delle scorciatoie, dei mille trucchetti che gli consentono di spostarsi in tranquillità. Anche se occasionalmente non disdegna, quando è di fretta, i corridoi veloci affollati di autovetture (situazione di anno in anno meno drammatica, man mano che gli automobilisti si abituano alla presenza dei ciclisti sulle strade ed adeguano i propri comportamenti).

Nonostante questa conoscenza palmo a palmo del territorio, tuttavia, il ciclista esperto si ritrova spesso a dover sgomitare, inevitabilmente, vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, col traffico veicolare. Perché questo accade? Perché in questi casi tutta la sua esperienza non è sufficiente a trovare una soluzione diversa?

Sull’onda di questo interrogativo, formulato pochi giorni fa, ho cercato di sviluppare un modello della città in grado di spiegare tale incongruenza, accumulando similitudini ed osservando dall’alto la “forma urbis” su una mappa. Il risultato ha sorpreso me per primo, perché appare applicarsi perfettamente alla comprensione di molte diverse problematiche della ciclabilità romana, fin qui apparentemente slegate fra loro.

Discutendone con amici ciclisti ho tuttavia realizzato come questa “vision” sia troppo radicale rispetto alla maniera consolidata che molte persone hanno di approcciare l’esperienza urbana di tutti i giorni, ed il modello teorico troppo astratto per poter rappresentare esattamente ogni sfumatura dei problemi quotidiani dei ciclisti romani. Per evitare una “crisi di rigetto” ho deciso di sviluppare l’idea complessiva in piccole tranche, in modo da consentire di familiarizzare coi singoli punti prima di riassumerli tutti in un quadro complessivo.

Il primo punto che intendo sviluppare riguarda l’irregolarità su larga scala del tessuto urbano, molto diversa dalla “regolarità” presente su piccola scala nei singoli quartieri. Ad esempio una struttura regolare “a griglia”, come quella del quartiere Tuscolano dove vivo, e comune a molti altri, presenta vantaggi indiscutibili. Primo fra tutti la presenza di strade principali e secondarie che conducono tutte nelle stesse direzioni, e la conseguente possibilità di scelta.

All’interno di un tessuto urbano uniforme il ciclista non fatica a spostarsi, adattando il tragitto all’esigenza o all’estro del momento. Le cose cambiano drasticamente, tuttavia, quando dal proprio quartiere si cerca di spostarsi in quelli circostanti o verso il centro città, perché si trova di fronte a discontinuità del tessuto urbano, col risultato di dover contendere spazi di viabilità vitali con l’aggressiva mobilità motorizzata.

Questo è il primo punto del nuovo modello: la città è articolata in zone a diversa fruibilità o, come ho preso a chiamarle, a diversa “permeabilità” al traffico di biciclette. Non un territorio uniformemente distribuito ma zone cycle-friendly separate tra loro da una serie di impedimenti e situazioni a rischio. Va da sé che la nuova formulazione porta con sé anche un nuovo approccio ai potenziali interventi.

Invece di puntare a dispendiose sistemazioni ciclabili su scala cittadina, con lunghe fasi di progettazione, confronto con i residenti, conferenze di servizio, cantierizzazione, ed un seguito di difettosità inattese, inefficienze localizzate e mille altri problemi, si può pensare di intervenire sulle singole criticità, aiutando i ciclisti a transitare da una zona “ad alta permeabilità” ad un’altra, risolvendo i nodi critici senza necessariamente mettere in cantiere chilometri di piste/corsie ciclabili.

Nella seconda parte della discussione illustrerò un metodo estremamente efficace per l’individuazione dei summenzionati nodi critici, applicabile all’intera area urbana.

(continua)

Jevons, la città e le auto

“If you plan cities for cars and traffic, you get cars and traffic. If you plan for people and places, you get people and places.” (Fred Kent)

Qualche mese fa mi era capitato di menzionare il paradosso di Jevons in riferimento al consumo di risorse, ieri l’ho collegato alla diffusione delle automobili negli spazi urbani. Riducendo la questione all’osso, se gli spazi urbani sono già saturi non si riuscirà a renderli meno affollati col trasferimento modale su altre forme di trasporto, semplicemente perché gli spazi “liberati” saranno nuovamente saturati da altri utenti che prima non trovavano la convenienza di utilizzarli.

In estrema sintesi: le strade si liberano facendo politiche per ridurre il numero di automobili, non pensando di trasferire utenza ad altre modalità di trasporto. Né più né meno quello che hanno fatto in Olanda negli anni ’70. Dopo avere allargato le strade per fare più spazio alle automobili, anche abbattendo edifici, quello che hanno potuto verificare è che più spazi si concedono alle automobili, più automobili finiranno con l’occuparli. Il tutto è descritto in questo bel video, sottotitolato e messo a disposizione dal blog Nuova Mobilità.

Gli olandesi, tuttavia, hanno reagito col pragmatismo che li contraddistingue: una volta verificato che il risultato non era quello desiderato, hanno nuovamente ridotto la sezione delle vie, ricostruendo gli edifici abbattuti e riportando le strade alla loro larghezza originaria. A seguire hanno perseguito l’obiettivo di limitare l’accesso delle auto ai centri città, ed in generale attivato politiche che ne marginalizzassero l’utilizzo.

A questo si ricollega l’intervento di Fabrizio Bottini: “Città: coraggio, fatti ammazzare”, dove la costruzione di autostrade urbane viene paragonata ad un fucile puntato contro i cittadini, pronto ad esplodere e fare vittime innocenti (non ultima la ragazza egiziana, incinta, morta assieme al figlio di quattro anni ed a quello che aveva in grembo).

La città, qualunque città, non funziona come il circuito elettrico con cui ci riassumono le fermate della sotterranea, strisce colorate separate da cui si entra ed esce solo in corrispondenza dei pallini scuri. Un noto urbanista internazionale l’ha pure inconsapevolmente usato poco tempo fa, lo slogan Ville Poreuse, a definire questa organicità metropolitana, del resto già stigmatizzata un secolo fa da Patrick Geddes, e per nulla riconducibile alle scatole incomunicanti del modello modernista.

Ed è notizia di poco fa quella di un convegno all’università Roma Tre sul tema della sicurezza, dal quale già emergono numeri agghiaccianti.

E tanto per capire la gravità della situazione il 10 per cento di tutti gli incidenti stradali italiani avviene a Roma, il 7 per cento a Milano. «E questo dà una misura della sicurezza- conclude Benedetto- anche riguardo quelli mortali: a Roma muoiono per questo motivo mediamente 200 persone l’anno, mentre, ad esempio, a Parigi sono in tutto 35 persone l’anno.

Penso che il quadro che emerge dalla somma di tutte queste informazioni sia abbastanza chiaro. Non possiamo ancora credere nell’efficacia di interventi palliativi senza che il sangue di decine, centinaia di innocenti ricada sulle nostre spalle.

Dobbiamo ripensare la forma città con interventi urbanistici drastici, restituire gli spazi pubblici alle persone togliendoli alle scatole metalliche con cui li abbiamo improvvidamente riempiti, ricucire forme di spostamento leggero tra i quartieri, promuovere il trasporto pubblico a scapito di quello privato a motore, e se necessario ridislocare persone ed attività produttive.

Per fare questo occorre un primo enorme sforzo: guardare negli occhi la mostruosità di asfalto, lamiere e cemento che abbiamo edificato nel corso degli anni e comprendere che va semplicemente abbattuta. Per poi, subito dopo, edificarne una nuova in base a criteri completamente diversi.

Follia collettiva

Sono reduce da un’esperienza moralmente ed umanamente devastante: accompagnare mia madre ottantenne in un ospedale del centro città (Fatebenefratelli al’Isola Tiberina) per degli esami di routine. Cosa ci sia di devastante in ciò è presto detto: per farlo ho dovuto guidare un’automobile nel traffico cittadino. Un’esperienza alla quale non sono più abituato.

In realtà mi capita di prendere occasionalmente l’auto per recarmi in ufficio, soprattutto nei giorni di pioggia in cui le strade della periferia finiscono con l’allagarsi. E’ un tragitto in gran parte su vialoni relativamente sgombri e scorrevoli, che mi consente di percorrere una decina di chilometri in venti, venticinque minuti. Un tempo tutto sommato accettabile, e soprattutto al di sotto della fatidica soglia di mezz’ora che rappresenta il limite oltre il quale comincio a perdere le staffe.

Stamattina, invece, tra andare e tornare (20 chilometri in tutto), in orario di punta, ci ho messo un’ora e mezza, sovraccaricando pesantemente le arterie coronarie. La cosa più micidiale del traffico romano è la sua terrificante conflittualità, il dover tener d’occhio i veicoli a 360° all’intorno, gestire l’imprevedibilità delle manovre altrui, qualcosa di molto più simile all’arrembaggio di una ciurma di pirati che a quello che può considerarsi il normale scorrimento viario di una moderna città.

Ancora più sconcertante è realizzare come tutta questa aggressività, la competitività allegramente sprecata, il menefreghismo delle più elementari regole di convivenza civile, per tutti quelli all’intorno rappresenti la normalità. Una normalità subìta, accettata e vissuta come ineluttabile. Un inferno quotidiano dentro il quale calarsi, passivamente, giorno dopo giorno.

“Come si fa a salvare queste persone?”, mi sono domandato. Come si fa a salvarli da sé stessi? Quale immensa campagna di psicoterapia collettiva sarà necessaria per restituire alla collettività una lucidità di pensiero ormai perduta?

Non ho risposte, ovviamente. Non le ho da decenni. Finirò prima o poi con l’arrendermi all’idea che le culture scelgono da sé di che morte quotidiana morire. Che ci si può tenere per quanto possibile al di fuori del flusso di pazzia collettiva che pare ineliminabile nelle aggregazioni umane, ma non deviarne più di tanto la corrente.

Ora l’automobile (di mia moglie) è nuovamente parcheggiata, e mi auguro, come accade di solito, che per quando sarò costretto a prenderla di nuovo avrò dimenticato dove sia. Prenderò la bici e me ne andrò in ufficio. Percorrerò ugualmente i miei dieci chilometri in una quarantina di minuti, ma stando fuori dal traffico.

Guarderò il cielo anziché il paraurti della vettura di fronte. Ascolterò i canti degli uccelli ed il fruscìo del vento anziché lo scoppiettare ritmico delle marmitte. Sentirò l’aria sfiorarmi la pelle e di nuovo mi sentirò un essere umano, anziché un topo in gabbia.