Un vecchio guerriero testardo

Sabato scorso, tra la pedalata con i bambini al mattino e l’uscita in mountain bike del giorno dopo, ho partecipato ad un incontro sul “ciclismo urbano nella Roma dell’auto”, promosso dal blog RomaPedala ed ospitato presso la libreria Rinascita di via Prospero Alpino.

L’obiettivo di questo incontro, nell’intenzione il primo di una serie, era fare il punto sull’infrastrutturazione ciclabile della città, sulle sue potenzialità di sviluppo e sui tanti, insormontabili, problemi di realizzazione, primo fra tutti il menefreghismo e l’ignavia dei cittadini stessi. Per me, al di là di tutto, una bella occasione per ritrovare diversi amici ed amiche, compagni di battaglie vecchie e nuove, ed ancora una volta tastare il polso alla situazione attuale del cicloattivismo romano.

A vent’anni di distanza, più o meno, dalla mia prima partecipazione ad una riunione di Pedale Verde (associazione che, peraltro, non esiste più) la situazione è molto mutata. Il numero di ciclisti è aumentato, la consapevolezza è cresciuta, ma la città, al contrario, è molto peggiorata, e sotto diversi profili: urbanizzazione forsennata, cementificazione, aumento esponenziale del traffico e mancata realizzazione di infrastrutture ciclabili essenziali consegneranno ai posteri delle periferie già pronte al collasso.

Mentre gli interventi si susseguivano, uno dopo l’altro, mentre rivedevo passare davanti ai miei occhi immagini già viste, ascoltavo discorsi già fatti, sentivo gravare su di me il peso di tutti questi anni di battaglie semi-inutili. Dopo un po’ ho cominciato a sentirmi vecchio, superato, fuori posto.

Domenica mattina, mentre percorrevo in bici, quasi all’alba, una via del Mandrione deserta, riflettevo proprio su questo. Poco prima, mentre mi infilavo la salopette invernale da ciclista, lo specchio mi aveva restituito una figura sovrappeso, ingombrante, pesante di tutta la carne cresciuta addosso a quel ragazzo pieno di ideali di vent’anni prima.

Pensavo: “sono vecchio, è vero, eppure eccomi qui, alle sette di una domenica mattina, mentre tutta la città dorme, a correre in bici per prendere un treno che mi porterà a Latina, da dove scalerò una montagna. Sono vecchio, ma non riesco a star fermo, non accetto la resa, non fa parte di me. E sono ancora qui, vivo!

È stato lì che ho capito che tipo di “vecchio“, negli anni, ero diventato. Inguainato in quella tuta nera aderente mi sono rivisto come in un lontano, immortale fumetto della fine degli anni ’80: “Il ritorno del Cavaliere Oscuro”, di Frank Miller.


“Dark Knight” mi capitò per le mani completamente ‘fuori tempo massimo’, dopo che da ragazzo ero stato un consumatore famelico ed accanito di fumetti, anche e soprattutto di quelli di supereroi. Ma da almeno dieci anni avevo smesso, finendo col trovarli troppo rudimentali per i miei maturati gusti di adulto ed iniziando ad alimentare la mia fame di ‘fantastico’ con la narrativa fantascientifica.

Poi, un pomeriggio, bighellonando per librerie com’ero solito fare, buttai l’occhio su questo voluminoso ciclo di storie, iniziai a sfogliarlo e ne rimasi totalmente affascinato. Niente a che vedere con il linguaggio dei comics della precedente generazione: impaginazione, tecniche narrative, impatto visuale… un mondo nuovo!

Parlare oggi di quest’opera, che in vent’anni ha fatto versare fiumi d’inchiostro, appare quasi inutile. Dopo quel ciclo narrativo il fumetto mondiale non è più potuto essere lo stesso. Il percorso iniziato da Stan Lee negli anni sessanta, immaginare super-eroi con super-problemi, trovava finalmente compimento nell’opera di Miller.

Dark Knight” spazza via le vecchie regole fin dall’inizio, fin dalla premessa. Il protagonista del fumetto è un Bruce Wayne ormai cinquantenne che, come tutti gli altri supereroi, è stato costretto dal Congresso degli Stati Uniti ad abbandonare la propria attività. Ma non ci riesce.

Il mondo, nel frattempo, continua ad andare a rotoli, in un’escalation di violenza gratuita che i governanti preferiscono cavalcare anziché reprimere, finché ad un certo punto il “lato oscuro” del nostro eroe non si risveglia, Wayne indossa di nuovo l’identità dell’uomo pipistrello e si rituffa nella notte, a dare la caccia ai criminali.

Ma non è più ‘come prima’, e la narrazione ne dà atto alternando i dialoghi ai pensieri del protagonista. Questo ‘Batman invecchiato‘ sente il peso degli anni, ha i capelli grigi, ma resta ugualmente un gigante in mezzo ai comuni mortali, anche senza super-poteri riesce ancora a fare cose che la gente normale nemmeno si sognerebbe.

Un gigante sul piano fisico e morale, che guarda l’umanità dall’alto del proprio ‘superomismo‘ e la vede nettamente distinta in vittime, carnefici e giustizieri, facendo propria una scelta di campo quasi inevitabile. Ma al tempo stesso un eroe tragico, prigioniero di un dualismo schizofrenico tra bene e male di cui molto spesso si perde il confine.

Il capolavoro di Miller è un affresco a mille tinte, prevalentemente fosche, un manifesto umano e politico (peraltro dalle connotazioni fortemente destrorse), spietato nel restituirci una rilettura della società attuale, per quanto grottesca, purtroppo tragicamente verosimile.

Sono rarissimi i casi in cui la cosiddetta ‘cultura pop‘ riesce a saltare il fosso e farsi ‘cultura‘ tout court, a farsi arte, e questo è uno di quelli. Difficile da apprezzare per chi non padroneggi già i linguaggi del fumetto d’azione, per chi non si sia precedentemente ‘sporcato le mani‘ (e gli occhi) con una forma narrativa ‘pulp‘ e ghettizzata. Ma se ha ancora senso, nel nostro tempo, parlare di ‘narrativa epica‘, il “Dark Knight” di Miller ne fa parte a pieno titolo.

E quale scopo più nobile, in fondo, per l’arte, che non insegnarci a leggere e comprendere il mondo e noi stessi? Alla luce di questo, nelle fantasie di un ragazzo ormai invecchiato, rileggo la mia storia e tutto quello che è successo intorno a me, negli anni, come sono cambiato, com’è cambiato il mondo.

Sono, nel mio piccolo, solo un supereroe stanco, non ho più speranze di salvare il mondo, ma pure non posso fare altro che andare avanti, a testa bassa, a combattere per le cose che ritengo giuste. Un vecchio guerriero testardo…

Chiacchiere inquinanti

Inizio a scrivere questo post nel corso di una conferenza promossa dall’amministrazione provinciale di Roma intitolata "Provincia di Kyoto". Il tema riguarda, ovviamente, gli interventi per l’applicazione del protocollo di Kyoto sulle emissioni inquinanti. In genere riesco a non farmi incastrare in queste iniziative "dibattimentali" che, per solito, lasciano il tempo che trovano, ma temo sia più forte di me… ogni tanto ci ricasco.

Ci ricasco e quasi immediatamente finisco col pentirmene. Mi ritrovo immerso in un chiacchierificio a 360° dove l’utilizzo di termini roboanti viene usato per mascherare da un lato l’assenza totale di idee nuove e vincenti, dall’altro la parimenti assoluta impotenza a gestire una situazione di sostanziale disfacimento del tessuto urbano e sociale delle città.

Città abbandonate ad una crescita caotica ed insensata, a cui le istituzioni democratiche non riescono a porre freni proprio a causa del fatto che da quel caos sono state elette. Un cane che si morde la coda.

Dopo un po’ ho rinunciato. Ho salutato i pochi conoscenti e me ne sono andato lasciandomi alle spalle un’ora e mezza di "fumo" sparso a piene mani, dal "palco" come dalla "platea". Me ne sono andato da un locale il cui riscaldamento eccessivo faceva a pugni col tema stesso dell’incontro che stava ospitando. Sconfortato.

L’ultima battuta mi è scappata mentre salutavo Romano, che cercando di trarne qualcosa di buono mi ha detto: "beh, c’è molta carne al fuoco", io gli ho ribattuto: "sì, peccato che non la cuociano mai!"

Sono preoccupato

Di solito, quando passa un po’ di tempo senza che scriva qualcosa su questo blog, non è un buon segno. Per la verità, per quanto riguarda la mia vita privata è tutto più o meno tranquillo, ma i segnali che giungono "da fuori" sono prevalentemente negativi, a volte terribili e spesso ambigui.

Un segnale che interpreto negativamente, ad esempio, è la sconfitta del governatore uscente Soru alle recenti elezioni per il rinnovo del consiglio regionale in Sardegna.

La Sardegna non si può annoverare tra le regioni che in questi ultimi anni siano state amministrate male, quantomeno a confronto con altre realtà consimili (una fra tutte la Campania), e questo al di là della vicinanza o meno alle posizioni politiche di Soru.

Tuttavia, nella contesa con un’amministrazione tutto sommato rodata ed efficiente, l’ha spuntata un emerito signor nessuno, grazie alle plateali "spinte" dell’attuale governo e ad una campagna elettorale ospitata dai telegiornali delle reti televisive nazionali assolutamente sbilanciata e soverchiante.

L’unico segnale che se ne può ricavare è quello di un elettorato confuso, disorientato e facilmente asservibile per mezzo della propaganda televisiva. Una situazione che può tornare utile solo ai demagoghi che governano questo paese, gestendone il lento scivolamento nel declino politico, sociale e culturale.

Alla sconfitta elettorale hanno fatto immediatamente seguito le dimissioni di Walter Veltroni, ex sindaco di Roma ed attualmente ex segretario di quell’ircocervo politico che risponde al nome di Partito Democratico.

Sul PD non ho voluto infierire direttamente, limitandomi a qualche commento al vetriolo sui blog di altri (in testa "TIC-Talk Is Cheap" e "Leonardo", che alla materia hanno dedicato diversi post), ma rimane comunque un enorme senso di delusione, con un retrogusto amaro di disastro annunciato.

La parabola politica di Veltroni è esemplare dello stato miserrimo in cui è ridotta la politica in questo paese, ed è il perfetto riflesso speculare del berlusconismo strabordante che, dall’opposta sponda politica, caratterizza l’attuale fase storica.

Un’esibizione di plateale incapacità politica ed organizzativa, non solo da parte sua ma di un intero partito che si era proposto come erede delle tradizioni della sinistra ed ha, nei pochi mesi trascorsi dalla sua fondazione, sistematicamente e scientemente sperperato ogni residua credibilità.

Nel frattempo il governo di destra che si è dato la città in cui vivo non perde occasione per erodere i confini della convivenza civile, reinventando in forme neppure tanto nuove uno tra i più esecrabili strumenti di emarginazione sociale storicamente noti: i ghetti. A farne le spese le popolazioni nomadi, ideale capro espiatorio di un disagio sociale montante.

Una situazione già pessima di per sé, ma che potrebbe forse essere recuperabile sul lungo periodo, se fossimo in presenza di una congiuntura internazionale diversa. Invece i segnali che arrivano dall’estero sono ancora più drammatici.

Ho da poco scoperto "Due Cents", un blog che si fa carico di tradurre in linguaggio comprensibile la situazione economica internazionale. Non sono mai stato un appassionato di mercati. A dirla tutta ho, da sempre, un cattivo rapporto col denaro. Ma da quello che riesco ad intuire, riguardo quello che, ho la sensazione, gli organi di informazione preferiscano tacere e sorvolare, la situazione è grave come non mai.

C’è, da un lato, il progressivo esaurimento delle risorse energetiche fossili, petrolio in testa, che a detta di molti ha ormai raggiunto il suo picco di produzione ed in futuro ne sarà disponibile sempre meno ed a prezzi progressivamente crescenti.

Dall’altro lato l’indebitamento collettivo di singoli, imprese, intere nazioni, che ha raggiunto livelli di pura follia, pregiudicando la credibilità dell’intero sistema economico internazionale, che potrebbe collassare rapidamente, un pezzo alla volta, come un gigantesco castello di carte.

In tutto questo ogni cosa sembra andare avanti come sempre, ma è ineludibile la sensazione che ci si stia dirigendo ad occhi chiusi verso il baratro. E persino l’essere semplicemente preoccupato, a volte, mi sembra un indulgere all’ottimismo.

Eluana e Johnny

La vicenda umana di Eluana Englaro e della sua famiglia ha monopolizzato il dibattito politico nelle ultime settimane, facendo discutere, anche aspramente, sostenitori di opposte tesi. Ora che la questione, almeno per quello che riguarda i diretti interessati, è finalmente risolta, aggiungo alcune considerazioni personali a quanto già detto e scritto da altri.

La prima domanda di fondo emersa in queste settimane è, a mio parere, "di chi sia la vita", ed in che maniera ne possa disporre. La seconda, ben più complessa, cosa possa essere definito "vita". Su questa base si sono accavallate tesi ed antitesi, castelli di ipotesi inverificabili e retorica assortita, lasciando intoccati i veri nodi della questione.

Ovvero se "la vita" sia di proprietà dell’essere che la stia sperimentando, e questi possa gestirla nella pienezza del "libero arbitrio", o non piuttosto "donata" da un "essere supremo", che resti comunque l’unico "giudice" delegato a poterne disporre, tutelato in questo dalle leggi dello stato.

In realtà, ad oggi, a poter decidere cosa e chi mantenere in vita (e aggiungerei "come", ovvero "a quale prezzo") sono piuttosto i progressi legati alla scienza medica, ed è sull’uso o meno di questi che teisti e laici si accapigliano, non di rado mostrando più interesse per l’affermazione di principi astratti che per il benessere delle persone.

Non credendo in dio sono obbligato a schierarmi con la prima tesi, ma per quello che mi è stato insegnato del cattolicesimo devo ritenere che l’abbracciare la seconda comporti comunque, per i credenti, qualche dubbio etico non banale.

Ancora di più in un caso come questo, dove persino la definizione di "vita" appare incerta, e il termine stesso viene spesso brandito in maniera strumentale. A cosa dovremmo paragonare un corpo umano in stato neurovegetativo ormai da diciassette anni? Nella peggiore delle ipotesi… ad una pianta?

Certo, le piante sono "vive", ma non ci facciamo scrupoli a potarle, mangiarle, farne parquet o semplicemente distruggerle. E, da un altro punto di vista, una pianta quello è, non è mai stata altro di ben differente.

A maggior ragione non è mai stata un essere umano. Una donna, per di più, che ha espresso chiaramente la volontà di non diventare qualcosa di assimilabile ad un vegetale. La categoria "vita" è troppo generica per poterci aiutare a dirimere un caso come questo, e rischia di indurci a commettere semplificazioni grossolane.

E se questo corpo non fosse un "vegetale", ma il suo livello di coscienza tale da rendere la persona che lo abita pienamente consapevole, pur se incapace di qualsiasi azione? In tal caso recidere quella vita significherebbe davvero "uccidere" una persona. Ma una persona in quali condizioni?

Vidi un film, anni fa, "E Johnny prese il fucile", di Dalton Trumbo. Un film scomodo. Narrava la storia di un reduce americano della prima guerra mondiale col corpo completamente devastato da un’esplosione. Privo di braccia e gambe, cieco, sordo e muto, incapace di comunicare col resto del mondo è ospitato in un ospedale militare dove tutti pensano che anche il suo cervello sia parimenti distrutto.

Invece non è così, il cervello di Johnny è perfettamente lucido, ed alterna sogni della sua vita "di prima" (che nella pellicola sono scene a colori, a differenza delle immagini del presente filmate in bianco e nero) a periodi di veglia da incubo, in cui vi è solo buio, silenzio, e il dolore delle cicatrici e degli arti recisi.

Nella sua disperazione trova il modo di comunicare con la sua infermiera, battendo la testa sul cuscino in codice morse, ed inizia con lei un dialogo che culmina nella richiesta di poter morire, di poter porre fine ad un’esistenza priva di senso, fatta solo di vuoto, dolore e ricordi strazianti.

Ma l’infermiera commette l’errore di informarne i suoi superiori, i quali, temendo uno scandalo, la fanno trasferire, condannando definitivamente Johnny alla solitudine, alla disperazione ed alla follia.

Il caso di Eluana è certamente molto diverso, ma lo stesso se ne traggono conclusioni analoghe: una vita inaccettabile non può essere inflitta a qualcuno/a che non la desideri. Non è moralmente ammissibile costringere una persona in una condizione subumana contro la volontà della stessa esplicitamente e lucidamente espressa.

Pensando al film di Trumbo mi sono chiesto se si sarebbe potuto mandarlo in onda in una prima serata televisiva, ed al dibattito che avrebbe potuto farvi seguito. Dibattito di cui la nostra epoca avrebbe, ritengo, una estrema necessità, per affrontare e definire un’idea di "qualità della vita" che vada oltre il vuoto paradigma produrre/consumare che da decenni sta plastificando e sterilizzando le nostre esistenze.

Discutere di una vita "degna di essere vissuta", anziché della generica sussistenza dei segnali vitali. Discutere di "senso", anziché di riflessi automatici come il battito cardiaco e la respirazione. Ripensare un’umanità che non sia ridotta alle semplici funzionalità biologiche.

Ma non si è fatto. Si è preferito dar spazio alla usuale trita contrapposizione di opposte ideologie. E questo mi ha suggerito un parallelo inquietante: che la nostra intera società, la nostra cultura, sia ormai ridotta in una condizione paravegetativa analoga a quella di Eluana, fossilizzata dalla sedimentazione di steccati ideologici e partigianerie politiche, ormai priva degli strumenti intellettuali capaci di dar vita ad un pensiero critico collettivamente condiviso.

Subito dopo la morte fisiologica di Eluana, a conclusione di una vicenda umana personale e collettiva che ha investito l’intera nazione, si è registrato un record di ascolti per la puntata del "Grande Fratello". Nessuno scandalo, solo tanta tristezza. "The Show Must Go On".

Stagioni diverse

Con l’intenzione di ritrovare un vecchio amico che non leggevo da diverso tempo (non moltissimo, tutto sommato) ho saccheggiato questa vecchia raccolta di "racconti lunghi" dalla libreria che mia sorella ha lasciato, piena di "bestseller", a casa di mia madre.

Racconti lunghi, o romanzi brevi, definizione difficile da spiegare soprattutto agli editori, che infatti hanno accorpato quattro storie molto diverse in un unico volume, che raggiunge a malapena la mole di un romanzo medio di King. Meglio per noi lettori, direi, che evitiamo di riempire gli scaffali di esili volumetti e risparmiamo un po’.

In realtà tre su quattro di queste storie sono risultate talmente interessanti da trarci dei film. La copertina del 1991 riporta in grandi caratteri proprio il titolo del film tratto per primo, "Stand by me", lasciando in alto (e sulla costolina laterale) il titolo originale della raccolta: "Stagioni diverse".

La prima cosa che mi ha stupito è stato realizzare che dal primo racconto, "Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank", è stato tratto, successivamente alla pubblicazione di questo volume, un film ben più famoso: "Le ali della libertà", con Tim Robbins. Il racconto sembra la sceneggiatura del film, tanto è definito al millimetro. Gli autori della pellicola non hanno fatto altro che rimanere fedeli a quanto scritto da King fino all’ultima virgola, o quasi.

In realtà il finale del film è leggermente diverso, nel racconto il protagonista Dufresne scappa con i soldi che ha maturato investendo in azioni prima della condanna, anziché con quelli nascosti per conto del direttore del carcere, e quest’ultimo non si suicida in seguito allo scandalo. Il finale del film, per questo solo dettaglio, è migliore di quello del racconto. Ma appunto è un dettaglio in un affresco magistrale, il racconto scritto da King, che ha dato vita ad uno dei film più importanti nella storia del cinema.

Anche dal secondo racconto è stato tratto un film, "L’allievo". Non lo sapevo, né ho visto il film. Il racconto è buono, ma vive una sua dimensione claustrofobica che impedisce alla fantasia di King di aprire veramente le ali. Storia interessante, insomma, ma che non lascia il segno.

È invece sconvolgente la bellezza de "Il corpo", da cui è stato tratto "Stand by me". In poche decine di pagine King costruisce mondi dentro mondi, racconti dentro racconti, in una sorta di "Cappella Sistina" della letteratura. Per chi come me ha provato a misurarsi con la narrazione è un’esperienza devastante, il trovarsi al cospetto di un gigante.

Considerando quanto è faticoso, dopo tutti questi anni, trovare ancora qualcosa di veramente entusiasmante, questo racconto di King è quello che mi ci voleva. Una storia di cose minuscole, quattro ragazzi dodicenni che partono a piedi per andare a vedere un cadavere non ancora rinvenuto dalla polizia, che si trasforma strada facendo in un rito di passaggio all’età adulta, echeggiando vissuti ed emozioni comuni a ciascuno di noi.

E compie perfettamente quello che lo stesso autore scrive nella postfazione: "quello che ogni buon racconto dovrebbe fare… farti dimenticare per un po’ la realtà che ti pesa sulle spalle e trasportarti in un luogo in cui non sei mai stato". King è uno che ci riesce, almeno con me. Non sempre, ma spesso.

Ed ancora ricordo come fu capace, con "IT", primo romanzo suo che mi capitò tra le mani (di cui però non ho amato il finale, troppo lungo e confuso) a farmi provare nostalgia di un luogo e di un tempo, il Maine degli anni ’50, in cui non ero mai neppure lontanamente stato. Nostalgia! Vi sembra possibile? Signori: Stephen King.

Piccoli miracoli quotidiani

Domenica pomeriggio, grazie ad una serie di coincidenze, ho potuto dedicare un paio d’ore ad insegnare alla mia nipotina Lucrezia, che a breve compirà sei anni, ad andare in bicicletta senza le rotelle stabilizzatrici. Erano mesi che se ne parlava ma poi, fra una cosa e l’altra, avevamo sempre dovuto rimandare.

Secondo me sei anni sono già tanti (ho visto bambini molto più piccoli muoversi sicuri anche senza le ruotine laterali) ma in questo caso ha un po’ pesato la preoccupazione di mia sorella che si facesse male. “In discesa, anziché frenare, pedala!“, mi spiegava, e così ha preferito dilazionare l’evento, almeno fino a pochi giorni fa.

Ingaggiato in veste di “consulente speciale” ho sancito che occorreva uno spazio “largo e leggermente in discesa“, ed abbiamo optato per il vicino parcheggio di un supermercato (chiuso, ovviamente, essendo domenica pomeriggio). Luogo decisamente triste, ma con le caratteristiche “geometriche” necessarie.

Abbiamo iniziato da subito sulla biciclettina nuova, ed il mio ruolo è consistito nel dare suggerimenti “teorici” su come partire e sull’uso dei freni, ed un contributo “pratico” reggendo la bici per il portapacchi, in modo da compensare le perdite d’equilibrio temporanee di mia nipote. I primi tentativi non sono stati immediatamente entusiasmanti, soprattutto per il carico di timori ed aspettative della stessa protagonista, ma poi, nel giro di pochi minuti, mi sono reso conto che il più era fatto.

Nel frattempo il fratellino Emanuele, tre anni ancora da compiere, impazzava in sella ad una “moto elettrica” regalatagli dal padre, sotto gli occhi di mia sorella che “supervisionava” la prole ed il mio “metodo didattico“.

Completata la “fase uno” ci siamo trasferiti nel vicino parco della Caffarella, per dare più spazio e continuità all’esercizio (il parcheggio era in effetti troppo piccolo, e costringeva dopo pochi metri a sterzare, facendo perdere nuovamente il controllo della bici così faticosamente raggiunto). Mi è parso evidente fin dalle prime pedalate che il ghiaccio era ormai rotto, ed una volta partita Lucrezia se la cavava già egregiamente, tanto che potevo lasciarla andare anche per diversi metri senza tenere più la bici, ma solo standole accanto.

Il problema, a questo punto, è stato più vincere una sua insicurezza psicologica che risolvere una carenza di equilibrio e controllo del mezzo. La soluzione è stata metterla di fronte al fatto compiuto. Ad un certo punto mia nipote ha ripetuto per l’ennesima volta “Zio, reggimi, stammi vicino!“, io le ho detto “Sì, sì, non ti preoccupare” e mi sono fermato.

Lucrezia ha percorso con la sua biciclettina traballante dieci, venti, cinquanta metri. Poi ha frenato e si è girata a cercarmi, non trovandomi. Io, da dove mi ero fermato, in lontananza, l’ho salutata. A quel punto ha dovuto accettare il fatto che ce l’aveva fatta da sola, ma restavano altre riluttanze da vincere: insisteva che l’aiutassi nella partenza.

Per due o tre volte siamo andati avanti così, con io che la “lanciavo” e lei che viaggiava autonomamente per qualche decina di metri, allontanandosi da sola e fermandosi per vedere quanta strada aveva fatto. È stato più o meno a questo punto che mia sorella, con gli occhi luccicanti, me l’ha indicata dicendo più o meno: “Guarda che roba! Ti sembra strano se mi commuovo?

E, beh, no, strano no. Ma questo mi ha un po’ fatto riflettere. Magari sono io poco emotivo, o do troppe cose per scontate, o forse ero solo concentrato sull’obiettivo di riuscire a rendere Lucrezia “ciclisticamente autonoma“, ma è stato a quel punto che ho realizzato che qualcosa era davvero successo, un passaggio, un cambiamento, un’altra cosa da cui non si poteva più tornare indietro.

E, un po’, su scala microscopica, quello che in quel momento stava accadendo era una metafora di tutta la nostra vita, legata a filo doppio allo scorrere del tempo, proiettata in avanti per necessità. Una scala da salire un gradino alla volta, che svanisce dietro le nostre spalle rendendo impossibile ripercorrerla all’indietro.

Finché non è rimasto da recidere l’ultimo esile filo. “Zio, aiutami a partire“. “Secondo me ce la puoi fare da sola“. “No, mi devi aiutare!“. “Facciamo così, tu provi a partire da sola, e se non ce la fai ti aiuto io“. “Va bene“. E, quasi inutile dirlo, è partita, senza aiuto da parte mia.

Mentre già andava le ho gridato: “Hai visto? Hai fatto tutto da sola. Ora non hai più bisogno di me.” Lo dicevo sapendo che non era del tutto vero, ma che era necessario farglielo credere. E quindi si è allontanata, con la sua bici nuova, con la sua vita nuova.

Io e mia sorella siamo rimasti lì, ad aspettare che completasse il giro e ritornasse da noi. Rendendoci conto che ci sarebbero stati in futuro altri giri, sempre più ampi, finché un bel giorno, ormai adulta, avrebbe finito col lasciare il nido per crearsene uno suo, e non avrebbe più fatto ritorno.

Poi ha cominciato a farsi buio, e siamo dovuti rientrare a casa, obbligando Lucrezia a rinunciare al suo “gioco nuovo” ma con la promessa di portarla, domenica prossima, a fare “il giro di tutto il parco“. Un altro gradino salito, un altro passaggio compiuto, forse più vistoso di tanti altri che pure accadono ogni giorno. I tanti piccoli miracoli quotidiani che, in mancanza di definizioni migliori, chiamiamo “vita“.