Templi della conoscenza


L’arrivo al Roque de Los Muchachos lascia perplessi e stupefatti. In cima ad un vulcano ormai estinto ed eroso, su strati di roccia lavica porosa, tra arbusti d’alta quota, come impenetrabili vascelli alieni poggiano le cupole metalliche dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie.

L’altitudine, il silenzio, le aspre rocce vulcaniche ed i fantascientifici manufatti, l’oceano tutt’intorno ed il cielo azzurro, bloccano la mente in una condizione di totale straniamento. La percezione di qualcosa di bizzarro ed incomprensibile afferra le corde vocali e, senza alcuna necessità, ogni parola prende la forma di un sussurro.

Lo stupore attonito che ci avvolge rimanda alla mente l’immagine dei Moai dell’isola di Pasqua. Figure massicce e totemiche quanto enigmatiche, idoli innalzati a divinità immote ed incomprensibili immersi in un contesto che nella sua immobilità racconta la furia della natura e degli elementi.

A pochi passi dal bordo della caldera la montagna precipita verso il basso, lasciando svettare mastodontici e friabili pinnacoli di roccia vulcanica, giganti di sassi e polvere modellati dall’erosione in strati e strati caratterizzati da diverse sfumature di grigio ed ocra.

Ed il senso religioso del silenzio appare immediatamente tangibile. Quassù, a migliaia di metri sopra l’oceano, l’uomo ha innalzato templi ad una fede di cui non è neppure pienamente consapevole. Cattedrali di vetro ed acciaio consacrate alla conoscenza ultima, alla sfida ai misteri del Cosmo, alla potenza inarrestabile del pensiero creatore.

Nei millenni trascorsi dall’acquisizione di una postura eretta, dalla scoperta del fuoco all’invenzione dell’agricoltura, dalle caverne alla nascita delle prime città, l’uomo ha elevato in mille forme templi votivi a divinità sovrumane, possenti ed incomprensibili, sacrari del Mistero e di una Conoscenza rivelata dall’alto a pochi eletti, luoghi dedicati al Sapere incarnato nelle divinità, menhir, piramidi, ziqqurat, pagode, chiese, totem, obelischi, amuleti.

Finché non si è sentito pronto a prendere tra le proprie mani la fiaccola della conoscenza, a farsi carico in prima persona della definizione di sapere, e del sapere in sé, attraverso il metodo scientifico. Da quel momento ogni nuova costruzione, ogni nuovo artefatto, canta il potere della conoscenza dell’Uomo, racconta il dominio della mente sul mondo materiale, la grandezza della scimmia nuda che ha saputo imprigionare gli elettroni e far disintegrare gli atomi al proprio comando.

Ora questi immensi occhi meccanici scrutano il Cosmo sempre più lontano nello spazio e nel tempo, alla ricerca di un sapere più antico della nostra stessa specie, dell’origine dell’Universo. Sono gli occhi dell’Umanità rivolti verso le stelle, gli sconfinati e vuoti spazi intergalattici, solo per misurare e descrivere la nostra infinita solitudine, la perenne insoddisfazione che ci muove, l’inesausta spinta a protenderci oltre i nostri umani limiti.

Ma questi templi aggrappati alla montagna raccontano anche la nostra incompletezza, la nostra fragilità. Il bisogno d’infinito non è che la proiezione di una finitezza tanto ineluttabile quanto inaccettabile ed inaccettata, la fame di sapere null’altro che un’ammissione di ignoranza, ed il piccolo e fragile Uomo solo una scimmia, nuda e supponente, intenta a lanciare il suo grido di sfida al vuoto cosmico.

Alla ricerca del cielo perduto

 

Isola di La Palma, Canarie, 19 agosto 2009

Stanotte, sul Roque del Los Muchachos, accanto alle cupole dell’Osservatorio Astronomico Internazionale, la mia ricerca del “cielo perfetto” ha segnato un ulteriore passo in avanti. Tuttavia non risolutivo.

Uno degli obiettivi di questo viaggio alle isole Canarie, che ci ha regalato passeggiate sui vulcani, bagni da sogno circondati da banchi di pesci multicolori, l’ebrezza di salire ai 3500 metri del monte Teide e molto altro ancora, era proprio l’osservazione del cielo stellato da uno dei siti osservativi più famosi dell’emisfero nord, il luogo dove è stato recentemente collocato il telescopio ottico più grande del mondo, il G.T.C. Gran Telescopio de Canarias, 10m di apertura.

Dopo una prima “puntata esplorativa”, effettuata la mattina del 16 agosto, che ci ha tenuti impegnati un paio d’ore ad ammirare increduli lo spettacolo naturale della Caldera de Taburiente, ieri sera, armati di vestiario pesante e del fido binocolo Vixen 10×50, io e Manu ci siamo arrampicati in auto fin sotto le cupole dell’osservatorio per ammirare uno spettacolo ormai desueto per gli abitanti del mondo civilizzato, quello della volta celeste.

E’ stato incredibile verificare l’apparire della Via Lattea nel tardo crepuscolo… in un cielo ancora non completamente scuro si mostrava già molto più definita di quanto appaia dai siti osservativi considerati “buoni” del centro Italia, per poi dispiegare tutta la sua ricchezza e complessità di strutture a buio completamente raggiunto.

Si fa fatica a spiegare l’emozione data dall’osservazione di questo fitto ricamo di nubi chiare ed oscure, la filigrana di strutture ciclopiche eppure impalpabili creata dai gas e dalle polveri interstellari illuminate dalle fornaci nucleari di astri lontanissimi, o il tappeto di stelle che si percorre spostando il binocolo lungo il piano galattico.

Gli stessi oggetti che da noi si fatica ad individuare nel lucore di fondo prodotto dai riflessi delle luci cittadine: ammassi aperti, globulari, nebulose, galassie, appaiono qui non solo evidentissimi, ma surclassati in fascino ed interesse da strutture a larga scala che sotto i nostri cieli non sono neppure immaginabili. Il “bulge” della Via Lattea, oscurato dalle nubi di polveri del “Braccio del Sagittario”, è di per sé l’oggetto più incredibile che abbia osservato fin qui, e l’umile binocolo che da anni mi accompagna si è rivelato lo strumento adatto ad esplorarlo.

Avrei potuto restare per ore col naso all’insù, ad osservare le tenui strutture della nostra galassia, se la stanchezza e l’aspettativa di dover guidare per più di un’ora su strade serpeggianti giù per i fianchi della montagna non mi avessero indotto a chiudere la serata osservativa poco prima di mezzanotte. Avessi avuto con me un piccolo telescopio probabilmente sarei rimasto fino all’alba, crollando stremato a dormire in macchina alle prime luci del giorno.

Ma, come dicevo all’inizio, anche questo cielo per me straordinario non è esente dagli effetti nefasti dell’inquinamento luminoso. I fenomeni descritti da Bortle ed altri osservatori caratteristici di siti perfettamente bui (luce zodiacale, airglow, gegenschein) non risultavano visibili, ed anche il bordo delle montagne appariva nettamente più scuro del fondo cielo sovrastante.

Indubbiamente, mi sono detto, la scelta di collocare qui il G.T.C. è stata dettata da considerazioni diverse che non un cielo assolutamente buio: la relativa vicinanza all’Europa, la percentuale di notti osservative “utili”, la collocazione geografica complementare agli altri strumenti dell’emisfero nord, ovvero i due strumenti da 8 metri collocati sula cima del Mauna Kea, alle Hawaii (quando è giorno sull’oceano Pacifico è notte sull’Atlantico, e viceversa), la distanza di sicurezza da fenomeni meteorologici nefasti per le meccaniche di precisione dei telescopi (p.e. le tempeste di sabbia del deserto), e soprattutto la relativa insensibilità delle riprese fotografiche e delle misure strumentali ai bassi livelli di inquinamento luminoso, che invece penalizzano fortemente l’osservazione ad occhio nudo.

Così la mia ricerca continua. Ho salito, probabilmente, il penultimo gradino della scala di Bortle, mi resta l’ultimo, e non so dire se, quando e dove questo accadrà. In Nordafrica, in Namibia, luoghi persi nel nulla a migliaia di chilometri da casa, a centinaia dalla “civiltà” che ha fatto fuggire la notte, spingendola a nascondersi ai margini del mondo.

 

Il mio mondo altro

Mi sono reiscritto recentemente alla mailing-list della Massa Critica romana, giusto in tempo per invischiarmi in una di quelle discussioni sui “massimi sistemi” da cui non riesco proprio a stare alla larga. In buona sostanza un mio amico lamentava la delusione per una bicicletta pazientemente ed amorevolmente “rimessa in sesto” in una ciclofficina, in seguito divenuta il primo premio in una riffa di autofinanziamento, finita all’asta su e-bay anziché in giro per le strade romane.

A questa addolorata constatazione ho risposto con considerazioni strettamente pragmatiche (“usate il ricavato della riffa per ricomprarvela”) suscitando reazione infastidite da parte di altri partecipante alla lista, culminata con un invito ad aprire una riflessione su “la nostra impreparazione come gruppo (?) di fronte alla realtà che cerchiamo di cambiare”.

Ho accolto l’invito, come sempre a modo mio, da “cane sciolto”, fuori dal giro delle “ciclofficine popolari”, e la risposta che mi è uscita di slancio è stata la seguente:

“ti regalo da subito una chiave di riflessione: l’impreparazione nasce dal non volerla vedere, la realtà, perché se la guardi bene ti fa passare la voglia di fare qualunque cosa. Quindi giocoforza le persone “più attive” sono anche quelle meno adatte ad affrontare (termine in seguito aggiustato in “interpretare”) la realtà. Per questo esiste il dialogo, il confronto, la discussione con gli altri, quelli “meno attivi”, quelli che con la realtà hanno scelto di scendere a patti e ne hanno un’idea un forse po’ più precisa.”

La discussione è proseguita con ulteriori (pochi) scambi di battute, anche piccati, ma al di là di tutto il tarlo di quello che avevo testé affermato ha continuato a rodere nella mia testa. Dopo aver formulato la tesi della dicotomia tra comprensione del Mondo e speranza di cambiamento non potevo fare a meno di applicare le stesse considerazioni a me stesso ed al mio approccio con la realtà circostante.

Avendo vissuto in passato grandi speranze di cambiamento, ed avendole viste arenarsi di fronte all’atteggiamento conformista della maggior parte dei miei concittadini, mi risulta ad oggi molto difficile provare gli stessi slanci ed entusiasmi di vent’anni fa.

Sono diventato disilluso e circospetto, e tendo ad evitare dolorosi “sprechi di risorse” di fronte a situazioni che non offrano sufficienti “margini di successo”. In questo senso la mia maturata “comprensione del mondo” mi rende meno “attivo” di un ventenne privo di esperienza, che non vedrà gli stessi ostacoli e proverà, con pieno diritto, a perseguire le proprie idee ed iniziative con ben altro slancio.

Tuttavia mi sono anche reso conto che, in un altro senso, la sopravvenuta “comprensione ed accettazione della realtà” non ha ha prodotto un appiattimento sul conformismo dominante, bensì ha fatto sì che procedessi a ritagliarmi un mondo mio, fatto di spazi, usi, tempi e luoghi diversi da quelli della maggior parte dei miei concittadini. Un “mondo altro” in cui essere me stesso, ospitato negli interstizi dimenticati ed abbandonati dalla realtà circostante.

Un esempio. Stamattina ho inforcato la mountain bike e mi sono mosso per un giro di una ventina di chilometri, quasi tutto compreso tra i parchi urbani del comprensorio dell’Appia Antica. Sentieri per me familiari, ma che andando mi rendevo conto di come fossero sconosciuti non solo ai romani in genere, ma addirittura alla stragrande maggioranza degli abitanti del quartiere Tuscolano. Nei brevissimi tratti “di raccordo”, in cui sono stato costretto a condividere la sede stradale con le automobili, ho approfittato di ogni metro di marciapiede libero per tenermene fuori.

Poi mi sono imbucato nel parcheggio deserto dell’ippodromo di Capannelle, ho varcato in entrata ed in uscita aperture nelle reti di recinzione, ho attraversato l’Appia Nuova per imboccare una stradina secondaria “senza uscita”. Molti ciclisti leggono “strada senza uscita” e non realizzano che la segnaletica è per le automobili, la mia “strada senza uscita” invece diventa un sentiero che poche centinaia di metri più su sbuca direttamente sull’Appia Antica.

La “Regina Viarum” è un luogo che i romani conoscono bene, ma siccome è scomoda da raggiungere (potrei dire “per fortuna”), ed ancor di più da raggiungere con la bici sul tetto dell’automobile… risulta sempre pochissimo affollata. Difficile far capire ai romani che possono spostarsi direttamente “con” la bicicletta, difficile farli uscire dalle gabbie mentali che li spingono a percorrere in bici le stesse strade che farebbero in macchina, imbottigliandosi nel traffico.

Quello che potrebbe apparire un hobby, un passatempo è in realtà per me un’esigenza, una necessità. Vivere la realtà che i miei concittadini trovano abituale è al contrario fonte di stress. Sabato mattina ero in un megastore di articoli sportivi per acquistare un paio di scarpe da montagna. Anziché girare da una sezione all’altra desiderando questo e quell’altro dopo un po’ mi sorprendevo a stupirmi di quante cose diverse “non” avessi bisogno.

Lo stesso discorso vale per gli appetiti intellettuali. Anziché seguire “l’ultima moda” vado cercando tracce di pensiero e di arte negli interstizi lasciati vuoti dai mass media, in internet, su blog semisconosciuti, cucendo insieme frammenti di senso partoriti da pensatori appartenuti a secoli diversi, a culture diverse. Come una sorta di intellettuale randagio.

Ultimamente, poi, non riesco più a seguire quella che viene spacciata per “politica”, non so più che musicisti siano “sulla cresta dell’onda”, o quali generi musicali vadano “per la maggiore”. Da sempre non provo alcun interesse per lo “sport”, o quello che viene ritenuto tale (p.e il tifo calcistico, o qualunque altro ambito che comporti lo star seduti in poltrona davanti ad uno schermo in cui della gente si affanni a compiere esercizi di resistenza fisica o di bravura).

Spesso mi accade di non saper cosa dire, di sperimentare una distanza tale dall’effimero da non comprendere il “perché” del dire. Mi guardo intorno ed aspetto, paziente, di poter tornare al mio “mondo altro”. A cose che abbiano, per me, un senso.

Storie di fantasia

Ho letto diversi libri negli ultimi mesi, ma siccome nessuno di essi mi ha "cambiato la vita" non ho sentito la necessità di scriverne in tempo reale. Ora che si sono ammucchiati sul tavolo ne farò un unico breve post.

Cominciamo con Frank Schätzing ed il suo monumentale "Il quinto giorno", un racconto di fantascienza che si inserisce a pieno diritto nel filone catastrofico. Strani eventi cominciano ad accadere sul fondo degli oceani, mettendo a repentaglio il mondo di superficie. È un buon racconto, condito da una notevole competenza sull’argomento "abissi marini", pressoché sconosciuto ai più (sottoscritto compreso) capace di tenere avvinta l’attenzione nonostante la mole. Pecca qua e là di prolissità, e non ho apprezzato l’evoluzione "cinematografica" del finale, col consueto susseguirsi di eventi ultra-spettacolari, che alla fine stancano senza che un singolo fatto davvero memorabile resti impresso.

A seguire ho pescato dalla libreria di mia sorella un romanzo di Valerio Massimo Manfredi, "L’Oracolo". La vicenda è ambientata in Grecia, con un prologo negli anni ’70, al tempo della "Dittatura dei Colonnelli", e la vicenda vera e propria a metà degli anni ’80. Manfredi è uno storico, e maneggia molto bene la sua materia, suggestioni ellenistiche in primis. Il romanzo è avvincente, più nella prima parte che nel finale, rispetto al quale va dato merito all’autore di non aver inflazionato la successione degli eventi con troppi colpi di scena.

Ho quindi affrontato la lettura dei "I ragazzi di Anansi", di Neil Gaiman, di cui avevo particolarmente apprezzato "American Gods". Gaiman continua ad esplorare il suo universo a metà tra reale e fantasy, proponendoci una vicenda a cavallo tra Inghilterra e Caraibi. Rispetto al predecessore, di cui imita struttura e moduli narrativi, qui la vicenda è molto più "sopra le righe", la chiave umoristica domina sulla tensione drammatica ed il tutto si risolve senza spreco di eccessivo pathos. Meno avvincente del primo, ma con trovate qua e là irresistibili.


Reperito in un’edicola quasi per puro caso, ho di seguito riletto con piacere Valerio Evangelisti in un’antologia pubblicata dalla nuova collana "Epix" di Mondadori: "Acque Oscure". Una manciata di racconti ed un romanzo breve (quest’ultimo, "Gocce nere", occupa da solo la seconda metà del volume ed era già stato pubblicato in precedenza, ma l’ho riletto volentieri…) per una lettura "da ombrellone". L’ Italian Gothic di Evangelisti rimane avvincente, nonostante la cura della plausibilità delle vicende venga volentieri sacrificata alla galoppante fantasia dell’autore. Ma è una scelta che non si rimpiange.

Infine "Guerra agli Umani", di Wu Ming 2, una strampalata vicenda tutta italiana ambientata sull’appennino emiliano tra cantieri della TAV, cacciatori, improbabili ecoterroristi, combattimenti di cani, cinghiali impazziti e molto altro ancora. Di questo romanzo colpisce lo stile di scrittura eccezionalmente sarcastico e tagliente, insieme a diverse chiavi di lettura molto interessanti sull’Italia dei giorni nostri. Forse l’unico, tra tutti quelli menzionati fin qui, che a distanza di anni potrò aver voglia di rileggere.

Il collasso della complessità


Come molti dei frequentatori di questo blog già ben sapranno, una delle mie attuali preoccupazioni riguarda il "quando" e il "come" gli effetti dell’esaurimento delle risorse fossili  diverranno evidenti, e come reagirà a questo inevitabile, catastrofico, evento la nostra "civiltà" (ammesso che il termine sia ancora applicabile al delirio odierno). Mi affascina in particolare l’idea di osservare la situazione nel suo compiersi, consapevole del disporre di un punto di vista giocoforza viziato dalla collocazione dell’osservatore, spazialmente e temporalmente all’interno del sistema osservato.

Su questo argomento, tra le ultime cose che ho letto vi è un’analisi del collasso dell’Impero Romano letto attraverso la lente del Rapporto sui limiti dello sviluppo, pubblicato nei primi anni ’70. Un lungo documento in formato PDF che è la riduzione di una conferenza tenuta alcune settimane fa dal prof. Ugo Bardi di ASPO-Italia ad un convegno promosso dall’associazione stessa. Bardi sviluppa un ragionamento parallelo tra le vicende dell’impero Romano e gli eventi attuali attraverso un’analisi comparata.

La cosa migliore, per la comprensione delle mie considerazioni, sarebbe leggere prima il ponderoso "paper" di Bardi, ma siccome consta di ben diciassette pagine dovrò tener conto del fatto che molti di voi leggeranno questo post fino alla conclusione prima di, eventualmente, affrontare una tale "impresa". Mi piace pensare che la lettura vi invoglierà a farlo.

La prima parte dell’analisi conferma quanto estremamente difficile sia rendersi conto dei lenti mutamenti epocali vivendoli dall’interno in prima persona. Dalle "Meditazioni" di Marco Aurelio alle fantasiose macchine da guerra di un anonimo funzionario imperiale del IV secolo fino al viaggio verso la Gallia di Rutilio Namaziano, appare evidente come la portata degli eventi in corso, che noi posteri possiamo inquadrare storicamente, sfuggisse ai contemporanei. Non ho alcun dubbio sul fatto che, analogamente, la portata degli avvenimenti in atto in questo momento sfugga anche a noi. Anche a quelli di noi che più si sforzano di comprenderli.

Stabilita l’estrema difficoltà di comprendere dall’interno il fenomeno, Bardi passa ad affrontare l’analisi delle cause del crollo dell’Impero Romano, partendo dal lavoro di Joseph Tainter sul "collasso delle società complesse". Il succo del lavoro di Tainter è che l’aumento di complessità che si rende necessario per gestire una fase di crescita (della ricchezza, della popolazione, del territorio), nel lungo periodo finisce con l’essere uno degli elementi determinanti del collasso, frenando e di fatto impedendo il riallineamento ad uno stato di minor complessità, compatibile con il ridotto livello di disponibilità energetica in cui il crollo del sistema si arresta.

Nel nostro caso abbiamo avuto a disposizione per decenni energia in abbondanza a costi estremamente bassi (il petrolio), ed abbiamo inventato innumerevoli modi per trasformare questa energia in oggetti reali, dando vita ad una sorta di gigantesco "paese dei balocchi" cui tutto l’occidente ha preso parte. Ma una volta che questo surplus energetico verrà a mancare, come tutto lascia supporre ed in parte si sta già verificando, la civiltà che abbiamo strutturato intorno ad esso, al pari dell’Impero Romano, non potrà più autosostentarsi e sarà obbligata a rivedere al ribasso non solo le aspettative dei singoli individui, ma anche, inevitabilmente, il grado di complessità raggiunto.

Uno dei "dettagli" su cui non sono d’accordo con Bardi (e con Tainter, ma probabilmente è solo una questione di definizioni…) è sull’identificare il picco della "civiltà" con quello della "complessità". L’aumento di complessità è una delle risposte che la società mette in atto per far fronte ai problemi generati dalla crescita, ma questo processo non è lineare ed i due termini non sono sinonimi. Il motivo della rapida "escalation" di una civiltà sta nella sua efficienza. Da questo punto di vista dobbiamo ritenere che l’Impero Romano fosse, nella sua prima fase, straordinariamente efficiente nel convertire ricchezza in complessità.

Oltre un certo punto, però, questo meccanismo comincia a perder colpi, presumibilmente nel momento in cui la curva di resa energetica si appiattisce e ci si trova con minor risorse a disposizione. In questa fase la strategia consistente nell’aumentare in complessità inizia a produrre inefficienze, anziché ottimizzazioni. A sostegno di questa tesi potrei portare un altro recente post di Bardi (fonte quasi inesauribile di modelli speculativi) su Scarsità ed ipernormazione.

Il mio parere è che la "complessità" continui a crescere ancora, quando la "civiltà" già declina. Nel dettaglio, per quanto posso osservare, nella nostra cultura il "picco della civiltà" è già stato superato mentre la complessità continua ad aumentare, sempre meno gestibile, ed il declino morale e culturale appare evidente. Quello stesso declino che non solo rende da ultimo impraticabile un ulteriore aumento di complessità, ma ben presto impedisce al sistema di riassestarsi su un qualunque inferiore livello pre-crisi, producendone il collasso.

Collasso, quindi, come conseguenza di una "ricchezza" venuta a mancare e di una complessità divenuta insostenibile ed incapace di ristrutturarsi. Uno dei fattori in gioco è, a mio parere, proprio quella che viene citata all’inizio dell’articolo attribuendola allo storico Gibbon: "la perdita di fibra morale", non già da attribuirsi alla diffusione del cristianesimo quanto come inevitabile sottoprodotto (in negativo) della crescita stessa.

Il processo che ho in mente si muove attraverso una serie di passaggi. In principio la società è organizzata in maniera molto rudimentale, a bassa complessità, e qualcosa le dà un minimo vantaggio strategico sulle culture adiacenti. In questa prima fase la vita è molto dura, ed agisce un efficiente processo di selezione sociale in base alle capacità: tutti sono consapevoli che la sopravvivenza ed il successo della collettività di cui si fa parte dipendono strettamente dal fatto di avere i migliori capi ed i migliori cervelli nelle posizioni chiave della società, e si fanno carico di ricoprire ruoli adeguati alle proprie capacità.

Questa "fase positiva", nel caso di Roma, durò diversi secoli. Un villaggio di combattivi pastori ed agricoltori si trasformò via via in una potenza tecnologica e militare, in grado di conquistare ed asservire prima la penisola italica, poi l’intero bacino del mediterraneo, strutturandosi a livelli di complessità crescenti. Ma giunti a questo punto le condizioni risultano cambiate, ed il meccanismo di "selezione in base alle capacità" perde di efficacia.

Come in un organismo vivente, in cui piccoli errori di trascrizione del DNA causano l’invecchiamento e la morte, così in un sistema ad elevata complessità tante piccole scelte sbagliate producono una marcata perdita di efficienza complessiva ed il conseguente declino. Questo, in buona sostanza, è quello che si può osservare nell’Italia dei giorni nostri, con l’ipernormazione, la burocrazia asfissiante, l’elevato livello di tassazione, la fuga dei cervelli, meccanismi elettivi che collocano persone inadeguate in posizioni chiave, perdita complessiva di consapevolezza nella popolazione, mancato rispetto delle regole, declino etico e morale.

Esiste, perciò, un fattore di "inerzia dei sistemi" tale da produrre inevitabilmente una crisi catastrofica. O, quantomeno, un lento scivolare verso il basso che a posteriori ci farà definire "crisi" l’attimo della presa di coscienza dell’avvenuto cambiamento. E c’è veramente poco da fare per far accettare ad una popolazione l’evidenza di un inevitabile scadimento rispetto agli standard di vita alla quale era stata abituata.

Per questo la parte finale dell’analisi di Bardi, quella che verte sul "che fare", è particolarmente disarmante, e concordo con lui sul fatto che sia virtualmente impossibile evitare l’evoluzione catastrofica degli eventi. La capacità di dare ascolto alle "cassandre" si perde quando la "complessità" cresce al punto da rendere l’intera organizzazione sociale incomprensibile ai più, e solo un enorme surplus energetico, qual’è stato quello degli ultimi cento anni, può consentire la sopravvivenza di un sistema in condizioni tanto critiche.

Cosa questo significherà dovremo scoprirlo sulla nostra pelle, e dubito che ci piacerà prendere atto di non avere più "la terra sotto i piedi".