Dopo aver speso (o meglio: sprecato) tante energie ed anni di vita a cercare di perseguire il miglioramento della ciclabilità urbana, senza riuscire a concludere fattivamente nulla, credo sia giunto il momento di fare il punto sull’idea che mi sono fatto del quadro generale di funzionamento della governance cittadina.
Il motivo che mi spinge a ciò è la convinzione di aver agito pratiche non fattive a causa di una cattiva interpretazione del suddetto quadro generale, e che questa mia “cattiva interpretazione“ non sia casuale ma artatamente prodotta al fine di rendere non fattive le pratiche mie e di altri.
Il primo punto, già sviluppato in passato, riguarda la sostanziale soggiacenza della classe politica alle dinamiche economiche. In particolare risulta falso l’assunto che vengano realizzate opere pubbliche finalizzate al benessere della cittadinanza. La priorità è spender soldi e, nel contempo, mantenere inalterato l’attuale status quo.
La situazione corrente è infatti il risultato di un solido equilibrio, instauratosi nell’arco di decenni, all’interno del quale classe politica e classe imprenditoriale vanno a braccetto nello spendere il denaro pubblico a proprio unico vantaggio. L’equilibrio consiste nell’essere abbastanza abili da approfittarsene senza che l’elettorato se ne accorga.
Risulta pertanto priva di fondamento l’idea che si possa far pressione sugli uffici pubblici per ottenere, ad esempio, un riorientamento delle politiche trasportistiche: reti ciclabili, trasferimento modale, riduzione del trasporto motorizzato privato. Tale trasformazione sarebbe turbativa dell’equilibrio.
Se la trasformazione dovesse funzionare rischierebbe di innescare una rivoluzione dagli esiti disastrosi sia per l’attuale classe politica sia per quella imprenditoriale. L’antico motto del “Gattopardo” risulta sempre valido: bisogna che tutto cambi perché non cambi nulla. L’attuale contesto storico consente di non cambiare nulla anche non cambiando nulla, ma se proprio dovessero agitarsi istanze di cambiamento è essenziale che vengano dirette verso vicoli ciechi burocratico/legislativi.
In quest’ottica si può leggere, ad esempio, la vicenda dei Biciplan Municipali del 2007, successivamente rivisti in chiave di Piano Quadro della Ciclabilità nel 2010, poi ancora più avanti col teatrino del Piano Generale del Traffico Urbano nel 2013. A distanza di dieci anni appare ormai evidente come l’unica finalità di tutti questi sedicenti progetti fosse perder tempo, sfinire i propugnatori delle istanze dal basso, seminare zizzania e divisioni nel mondo del cicloattivismo e del volontariato senza concedere nemmeno un’unghia alla possibilità di un reale cambiamento.
La conclusione è che le opere pubbliche realizzabili appartengono a due sole tipologie: quelle appaltate alle società con le quali la classe politica è già “in affari” (tipicamente strade per automobili) e quelle finanziate dai privati in chiave speculativa, sempre a patto che, da parte di questi ultimi, ci si accordi con la parte politica per la spartizione.
Le opere pubbliche hanno un duplice ritorno: in termini di denaro ed in termini di voti. Quelle che portano molti voti possono anche portare poco denaro, ma l’ideale è che portino entrambi. L’optimum è la realizzazione di un’opera molto costosa che trovi grande appoggio da parte della cittadinanza e che, da ultimo, non risolva alcun reale problema e mantenga la situazione di invivibilità attuale esattamente com’è, se non direttamente che finisca col peggiorarla.
Non stupisce, dato questo meccanismo, se la principale fonte di spesa pubblica avvenga nella realizzazione di tratte stradali: ampliamenti, svincoli, autostrade. La popolazione italiana è nota per essere facilmente convincibile che i nuovi assi stradali risolveranno problemi di traffico (è mezzo secolo che ci raccontano che si costruiscono strade per ridurre il traffico quando tutte le esperienze internazionali raccontano che avviene esattamente il contrario).
L’eventuale appalto viene cantierizzato da ditte locali già “in buoni rapporti” con la classe politica, la nuova strada viene salutata con entusiasmo dalla popolazione che in un primo tempo trova un nuovo canale di scorrimento ed un temporaneo “sollievo”. La politica passa all’incasso alle elezioni successive magnificando il proprio operato.
Sul medio periodo i terreni circostanti la strada vengono prontamente edificati, i lotti venduti prima che i futuri residenti si rendano conto dell’aumentata pressione antropica sulla tratta. Sul lungo periodo il traffico si satura di nuovo e la situazione finale è peggiore di quella iniziale, ma i cittadini non sono in grado di risalire la catena dei meccanismi di causa/effetto ed attribuire le responsabilità.
Alla seconda tipologia (opere finanziate dai privati) appartengono le lottizzazioni edilizie abitative e commerciali che, come abbiamo visto, finiscono col gravare di nuovo traffico la già satura rete stradale e rendere desiderabile la realizzazione di nuove tratte stradali, innescando nuovamente il processo sopra descritto.
Quanto visto fin qui procede ininterrottamente dal dopoguerra ai giorni nostri e rappresenta lo status quo inizialmente introdotto (gli anglofoni lo definiscono BAU: Business As Usual): un sistema che si autoalimenta producendo aspettative prima e degrado ed insoddisfazione poi, divorando risorse pubbliche e consumando territorio e suoli, producendo realtà urbane disumane ed alienanti, da ultimo obbligando la gran parte dei cittadini a dipendere dall’automobile, che diventa quindi un ulteriore strumento di salasso economico.
Pensare che un simile impianto socio-culturale (di rapina) possa spontaneamente trasformarsi in una illuminata organizzazione urbanistica di stampo nordeuropeo dall’oggi al domani è pertanto totalmente illusorio. Lo stanno a dimostrare decenni di fallimenti dei movimenti ciclo-ambientalisti.
In un arco di tempo in cui il Comune di Roma non è riuscito a produrre che pochi metri di ciclabili urbane, disegnate a terra con la vernice, abbiamo assistito al raddoppio del tratto urbano dell’A24, al completamento della Prenestina Bis ed al proseguimento dei lavori del raddoppio di via Tiburtina. Queste sono le priorità. Le sole ed uniche. A breve ci attende l’autostrada Pontina, che sventrerà le zone agricole della riserva di Decima e Malafede.
La conclusione è che occorre una drastica revisione delle strategie d’azione e comunicative, onde evitare altri decenni di infruttuosi tentativi ed ulteriore incancrenimento urbanistico.
(nella foto il tratto finale della “Prenestina Bis”, fresco di realizzazione…)