Ely


Ely – “Angelo del Cuore

Una settimana fa seppellivamo Ely.

Non posso definirla un’amica. Ci si incontrava ai Ciclopicnic, scambiandoci un sorriso, un saluto, poche parole. Aveva ventisei anni, ed era una ragazza fragile, giovane e sfuggente. Dieci giorni fa è sfuggita del tutto, volando giù da una finestra. E lasciando tutti noi che la conoscevamo un po’ più soli, più tristi, e con un enorme senso di vuoto dentro.

La morte, di per sé, è una realtà difficile da accettare. La scelta di morire è ancora più inconcepibile. L’idea che, in assenza di sofferenza fisica, la vita stessa diventi ad un certo punto talmente insopportabile da scegliere di rinunciarvi volontariamente appare totalmente priva di senso. Eppure ci sono persone, giovani, perfettamente in salute, intelligenti, in grado di trovare inaccettabile la propria stessa esistenza, e scegliere di porvi fine.

Nel monologo più celebre di tutta la storia del teatro, William Shakespeare di questo faceva ragionare il principe Amleto. A distanza di quasi cinque secoli quell’interrogativo è ancora lì, irrisolto. Esplorarlo probabilmente ci costa troppa fatica. E le persone continuano a soffrire, e a morire.

Dopo la cerimonia funebre, parlandone tra noi, Manu (mia moglie) si è detta convinta che il “disagio psichico” sia uno dei grandi problemi “rimossi” del nostro tempo. Non sappiamo riconoscerlo, non sappiamo affrontarlo, non sappiamo guarirlo.

Io mi sono spinto un po’ più in là. Per poter davvero fare i conti con il “disagio” di altri dovremmo essere in grado di misurarci con l’idea che il mondo così come è, come siamo abituati ad accettarlo, la nostra stessa organizzazione sociale, sia in realtà completamente folle, assurda, priva di senso.

Un mondo che vive di competizione esasperata, di apparenze, di “status symbol“, di sfruttamento, di emarginazione, che isola le persone in spazi urbani alienanti. E che, invece di rimettere in discussione questi controsensi, bolla come “diverso“, “disagiato“, “instabile“, chi non si conforma al paradigma dell’homo homini lupus.

Penso di aver conosciuto Ely la notte che inventammo il ciclopicnic. Mai, nelle rare volte che l’ho incontrata, mi ha dato motivo di sospettare di queste sue difficoltà. Mi è sempre parsa una ragazza come tante altre, graziosa, simpatica. Niente che potesse far sospettare…

Poi, quando ho saputo cosa le era successo, ho cominciato a cercare pezzi di lei sparsi in rete, per provare a comprendere chi era stata. Troppo tardi ormai anche per questo. Il suo blog cancellato, le sue foto irreperibili. Non saprei spiegare perché, ma questa cosa mi ha turbato.

Ci affanniamo tanto per lasciare qualcosa del nostro passaggio, perché cancellare tutto? Perché questa “terra bruciata“? Eppure dovrebbe essere ovvio che una persona che sceglie di cancellare sé stessa applichi lo stesso principio a tutto ciò che la rappresenta.

Alla fine sono riuscito a trovare le foto dei suoi quadri, che non avevo mai visto (e non vi dirò dove si trovano…).

Ho già scritto tanto eppure sento di non essere riuscito a dire niente. Niente di importante. Niente che renda minima giustizia all’enormità del suo gesto. All’enormità di quello che non sapevamo di lei, di quello che non sapremo mai.

A confronto, forse, del poco che avremmo dovuto, e non siamo stati in grado di fare. Di tutto quello che non si può fare più. Dei pensieri, dei ricordi, dei rimorsi di chi nonostante tutto continua a vivere. Con un sorriso in meno. Con un pezzetto di vita in meno. Con un dolore in più. Mentre il mondo appare, tragicamente, ancora più assurdo del solito.

I diplomati dell’anno scolastico 1982/83

Recentemente, l’avvento di Facebook come strumento per rintracciare vecchie amicizie ha messo in moto processi in precedenza molto ardui da realizzare, primo fra tutti, e diventato già “un classico”, le reunion di ex compagni di scuola persi di vista da decenni.

Dal momento della mia registrazione al summenzionato social network l’idea di dover reincontrare i miei ex compagni di classe ha rappresentato un inquietante sottofondo a tutte le mie sessioni su FB, finendo col materializzarsi prepotentemente poche settimane fa.

In realtà il primo dei miei dei miei ex colleghi di studi, Federico, mi aveva contattato già a maggio, e ci eravamo incontrati di persona alla Ciemmona. Altri erano poi riapparsi, unicamente in forma “virtuale”, pian piano nei mesi successivi, fino alla convocazione della “grande cena” in quel di Frascati, dove sorgeva, e sorge tutt’ora, l’I.T.I.S. E. Fermi.

Della mia adolescenza non conservo ricordi entusiasmanti. Ero un ragazzo “strano”, perennemente “fuori posto”, incapace di adeguarsi alle mode, perso in improbabili letture ed interessi. Abitavo anche molto lontano rispetto ai quartieri di residenza dei miei compagni e non avevo praticamente nemmeno il telefono.

Se aggiungiamo a questo che la scuola che avevo scelto, un istituto tecnico con specializzazione in Energia Nucleare, era a frequentazione esclusivamente maschile, e che le mie amicizie al di fuori di esso assommavano nella pratica a zero, avrete un quadro minimo della situazione.

Una volta ottenuto il diploma la perdita dei contatti fu pressoché immediata. È difficile al giorno d’oggi immaginarlo, connessi come siamo da media asincroni e pervasivi come la posta elettronica ed i social network, ma venti e rotti anni fa passare dalle superiori all’università per me significò buttarmi alle spalle amicizie e frequentazioni, e ripartire da zero.

Insomma, trascorrevano i giorni e l’evento incombeva. Le mie due fonti principali di preoccupazione erano da un lato il film di Carlo Verdone “Compagni di scuola“, commedia amarissima di fine anni ’80, dall’altro l’involontaria partecipazione alla reunion dei compagni di scuola di una mia ex, avvenuta a metà degli anni ’90, se possibile ancora più terribile del film stesso.

“Che senso ha rivedersi dopo ventisei anni?”, mi domandavo… “perché dobbiamo confrontare le persone che eravamo con quello che siamo diventati?” Mi aspettavo di leggere sui volti degli altri i segni del tempo, paragonare fallimenti e successi, fare i conti con le proprie e le altrui scelte… una sorta di Giudizio Universale su scala ridotta.

Invece niente di tutto questo. Ci siamo ritrovati in nove ex studenti assieme all’ormai anziano professore di italiano, a cenare in una trattoriola. E pian piano, dietro i corpi appesantiti, i capelli imbiancati o perduti, i vestiti eleganti o informali, sono riemersi uno ad uno i ragazzi con cui ho passato tre anni di scuola, tre anni di vita.

Il tempo, con noi, è stato sorprendentemente clemente. Abbiamo passato la serata rievocando gli anni della scuola, esumandone gli aneddoti più divertenti, inframmezzati da brandelli delle nostre vite, i matrimoni, i divorzi, le carriere lavorative. Abbiamo fatto l’elenco di quelli che mancavano all’appello e qua e là, a tratti, nelle luci basse della locale, poteva quasi sembrare che ventisei anni non fossero passati affatto.

E… no! Se questa è la domanda: non siamo cambiati. La vita ci ha smussati, rifiniti, ha limato le asperità eccessive, ci ha resi più maturi, ma quello che eravamo lo siamo ancora, nel bene e nel male. Ognuno col suo carattere ben definito, ognuno misteriosamente pronto a rientrare nelle dinamiche e nei meccanismi relazionali messi a punto in tre anni di convivenza… una vita fa.

E tra una battuta ed uno scoppio di risa mi sono reso conto che ogni cosa era già allora esattamente così, ed è stato come rivedere un vecchio film e ricordarsi le scene man mano che la vicenda prosegue. Solo per realizzare, tardivamente, quello che l’inesperienza ed il “disagio giovanile” mi avevano sempre impedito di vedere e comprendere: di aver passato quegli anni in compagnia di veramente ottime persone.

Nelle poche battute scambiate con l’anziano ma lucido professore, che si ricordava perfettamente di me, ho ritrovato una forza, una determinazione ed una intransigenza che sicuramente mi appartengono. Non so dire quanto di questo mio atteggiamento fosse già presente, e quanto sia dovuto al suo insegnamento, ma posso affermare con certezza di apprezzare e condividere nel merito e nel metodo quanto ha cercato di trasmetterci.

Alla fine l’ora tarda e gli impegni hanno vinto la nostra voglia di continuare a raccontare. Ci siamo salutati, quindi sono risalito in macchina domandandomi se quello che avevo appena vissuto fosse successo davvero.

E, soprattutto, convinto che il passato vive insieme a noi. Che quelle persone le ho avute accanto nei ricordi, nella mia personalità, nelle esperienze vissute e nella fiducia reciproca che ci siamo scambiati allora, per tutta la mia vita fin qui.

E che a loro posso rivolgere solo un saluto ed un augurio: “a presto!”.

Mi scuso

Mi scuso con i frequentatori di questo blog per non essere riuscito ad inserire nulla da ormai troppo tempo. Può sembrare una sciocchezza, ma per me non lo è. Mantenere vivo un blog è un impegno anche e soprattutto nei confronti di chi lo legge. Mantenere viva una presenza è importante non solo per chi ci scrive.

Mi scuso anche perché questo post non rapprensenta quello che avrei voluto inserire. negli ultimi dieci giorni non ho avuto grandi "illuminazioni filosofiche", non ho vissuto esperienze indimenticabili, né particolarmente dense di pregnanti significati, solo la normale quotidianità fatta di lavoro, pasti, frequentazione di spazi di discussione on-line e meritato riposo.

Molto tempo ed attenzione mi sono stati portati via dalla nascita di un nuovo forum sulla mobilità ciclabile urbana, argomento che mi sta a cuore da anni ma non ha fin qui trovato una forma di espressione capace di incidere veramente sulle politiche cittadine.

Su questo blog avrei voluto scrivere di molte cose, ma nessuna in grado di dar vita ad una riflessione di ampio respiro. Avrei voluto scrivere di come invecchiano in fretta e drammaticamente i films di fantascienza di soli pochi anni addietro, di come è cambiata la vita di un appassionato di astronomia nell’era di internet, di come la società si imbarbarisce giorno dopo giorno, di quanto si assomiglino, tolte le apparenze superficiali, i signori della guerra talebani e gli amministratori di società che smaltiscono i rifiuti tossici ai danni delle popolazioni.

Avrei voluto ma non ci sono riuscito, e non so quando (e se) questa impasse si sbloccherà. Mi spiace.

Se una notte…

Ho concluso da poco la lettura di "Se una notte d’inverno un viaggiatore", di Italo Calvino. Come tutti gli "esercizi di stile", da Queneau in poi, mi restituisce un retrogusto amaro. Il perché è presto detto: nel tentativo di smontare e demistificare gli artifizi narrativi si finisce quasi sempre col delegittimare la "narrazione" stessa, coll’esporne le viscere si ottiene molto spesso di professarne il totale disvalore.

Raccontar storie, e soprattutto farsi raccontar storie, appartiene all’animo umano fin dalla notte dei tempi. La modernità ha portato con sé, oltre alla produzione in serie di oggetti, anche la produzione in serie di storie. La narrazione ha subito una metamorfosi analoga a quella delle catene di montaggio.

Non starò qui a biasimare il processo in sé, ma è evidente che da quando la vendita di libri è divenuta mercato di massa si è verificata una crescita esponenziale del numero di opere prodotte e commercializzate. Parallelamente si è registrato un proliferare di generi e sottogeneri, che spesso si sono codificati in forme standardizzate e ripetitive. Di tutto questo la maggior parte dei lettori è tutt’ora relativamente inconsapevole.

Calvino concepisce quindi un’opera che racconti al lettore di come egli è, e lo disveli succube dalle proprie letture al punto da non essere più in grado di affrontarne l’artificialità. Pone questo immaginario lettore, e noi con lui, di fronte ad una sequenza estenuante di inizi di romanzi, tutti diversi tra loro nella sostanza e nella forma narrativa, ed infierisce inserendo nel flusso degli eventi note esplicative della struttura soggiacente alla narrazione in corso.

Ma questo gioco in cui il lettore viene condotto è un gioco crudele. Il racconto, ridotto ad una serie di ingranaggi sapientemente incastrati tra loro, mostra tutta la sua artificialità allo stesso modo in cui la vicenda del lettore protagonista si avvita in una sequenza di accadimenti improbabili asserviti alla fantasia cervellotica dello scrittore.

Si legge in filigrana, in questo pseudo-romanzo, tutta l’iconoclastia del punk (che, seppur lontano anni luce dall’ambiente letterario, non a caso nasceva negli stessi anni in cui il libro veniva pubblicato): distruggere l’artificialità per ricostruire dalle fondamenta. Fare tabula rasa della cattiva scrittura e smascherare il "mestiere" dei fabbricanti di storie. L’operazione riesce a metà, ovvero nella sola parte relativa alla "distruzione".

Perché quello di Calvino è in realtà un gioco al massacro. È evidente, dopo un po’, che nessuno dei romanzi iniziati e non proseguiti ha una trama, una vicenda, un senso da trasmettere, un’idea da comunicare. E ciò che risulta irritante è proprio il fatto che tanto "mestiere", tanta abilità narrativa, vengano messe al servizio di un’opera il cui fine è la propria auto-negazione.

Cosa rimane al lettore di romanzi dopo questa allegra devastazione? Con che spirito affronterà i molti libri ancora da leggere che lo scrutano dagli scaffali? Come potrà più affidarsi liberamente alla fantasia altrui dopo che gli è stato ampiamente dimostrato che, per scrivere in maniera avvincente, l’avere qualcosa da dire è del tutto ininfluente?

Nel mio caso, il primo a farne le spese è uno sconosciuto scrittore inglese, tale Brian M. Stableford, autore di un romanzo tanto pretenzioso nelle intenzioni quanto mediocre nei risultati: "Il giogo del tempo", uscito nel ’94 e pubblicato da Urania pochi anni più tardi. Non è narrativa "alta", né ha la pretesa di esserlo, eppure il confronto con la sterminata arte affabulatoria di Calvino praticamente lo annienta.

(com’è che finisco a leggere certa roba? Difficile dirlo. Molti libri di fantascienza sono stati acquistati anni fa, stanno lì ad ingiallire ed ogni tanto ne ripesco uno e lo leggo, anche un po’ per ricordarmi com’ero. È un genere che continuo a seguire perché ha rappresentato, ed in qualche modo continua a rappresentare, l’aspirazione dell’uomo al superamento dei propri limiti. Con risultati, va detto, talvolta anche parecchio scadenti…)

Nonostante tutto non credo che rinuncerò tout court alla narrativa "bassa", ma per il momento ho bisogno di "rifarmi la bocca" con qualcosa il più lontano possibile anche solo dall’idea di "prodotto commerciale". Ho quindi rimesso mano a "Moby Dick", la cui lettura avevo sospeso qualche anno addietro, schiacciato dalla sua mole ultradensa.

La scrittura di Melville è talmente straordinaria, anche attraverso la traduzione, che più volte mi sono detto che varrebbe la pena leggerlo in lingua originale. Ma è un’impresa superiore alle mie forze. Per questa volta mi accontenterei anche solo di riuscire a finirlo…