La funzione di contenere la diffusione dei comportamenti auto-competitivi nelle esatte proporzioni capaci di avvantaggiare il gruppo senza comprometterne l’efficienza viene svolta per mezzo di uno stigma sociale condiviso. I partecipanti al gruppo condividono una soglia di tolleranza che non deve essere superata. Al di sotto di tale soglia una moderata quantità di comportamenti auto-competitivi è tollerata, al di sopra scatta il biasimo collettivo dell’individuo o del gruppo responsabile.
Essendo le organizzazioni umane diverse e molto complesse, non esiste una soglia univoca ma unicamente una convergenza comportamentale in direzione di tale soluzione. Culture diverse metabolizzano e stigmatizzano in modi differenti i comportamenti auto-competitivi.
In alcune culture è presente una elevata tolleranza alla competizione sul piano fisico, al bullismo ed alla conseguente sopraffazione, e sono tipicamente le culture più aggressive verso l’esterno. Queste culture risultano, per contro, meno tolleranti nei confronti delle forme di inganno esercitate fra membri della stessa comunità.
In questa categoria rientrano le IdeoCulture [1] militari, dagli imperi dell’antichità ai moderni fascismi, nelle quali l’esaltazione della competizione e della violenza reciproca, fra individui come fra nazioni, fa da contraltare a continui richiami all’integrità morale, al rispetto delle regole, delle leggi e delle tradizioni.
Simmetricamente, le culture che basano il proprio successo sull’astuzia, esercitata nei confronti di soggetti esterni alla propria cerchia relazionale, sono anche più tolleranti riguardo all’esercizio dell’inganno fra i propri membri ma hanno, per contro, una bassissima tolleranza per i comportamenti aggressivi e violenti.
In questa categoria rientrano le IdeoCulture mercantili, che traggono il massimo vantaggio dal coltivare processi di fiducia finalizzati all’asservimento ed alla domesticazione collettiva. Un’IdeoCultura mercantile massimizza i propri vantaggi quando riesce a mediare tra comunità pacifiche che lavorano a produrre tipologie diverse di risorse, ed a guadagnare nello scambio.
Le due forme di auto-competizione appaiono in questo senso auto-escludenti: l’evidenza di una competizione sul piano fisico inficia la possibilità di sviluppare anche una competizione sul piano intellettivo (inganno), perché un individuo/gruppo consapevole di essere coinvolto in dinamiche di sopraffazione di tipo fisico sarà più difficile da ingannare.
Il terzo tassello del quadro che vado costruendo lo individuo in questa forma di reciproca auto-esclusione. Ricapitolando, i comportamenti ‘auto-competitivi’ nei gruppi umani possono definirsi:
– intrinseci, perché funzionali all’efficacia del gruppo stesso [2]
– modellati attraverso forme di stigma sociale
– necessariamente minoritari, perché potenzialmente dannosi [3]
– auto-escludenti, perché reciprocamente incompatibili
Ora non mi resta che estendere il quadro interpretativo alle dinamiche tipiche delle relazioni tra IdeoCulture, arrivando ad una miglior definizione dei processi di manipolazione reciproci e del ruolo svolto dai meccanismi di inganno.
Quello che osserviamo, in animali capaci di comportamento sociale, è che i gruppi tendono a strutturarsi sulla base di un preciso ordine gerarchico, definito per mezzo di conflitti tra i singoli individui. Il più forte si collocherà in posizione apicale, e a discendere tutti gli altri. P.e., se in un pollaio il cibo viene distribuito in un unico punto, le galline vi accedono in uno stretto ordine gerarchico: la gallina più forte scaccia le altre e becca per prima, e solo quando ha mangiato a sufficienza lascia spazio alla seconda, e così via [1].
Forza ed intelligenza sono le due caratteristiche vincenti sul piano evolutivo, sia a livello di singoli individui che a livello di gruppi. Nei gruppi umani la seconda ha finito con l’assumere, col passare del tempo, maggior importanza rispetto alla prima. Entrambe le caratteristiche risultano diversamente distribuite fra la popolazione e finiscono col giocare un ruolo nella definizione dei rapporti gerarchici sulla base dei quali, all’interno dei gruppi, vengono distribuite le risorse.
La forza è una caratteristica auto-evidente, l’intelligenza è più nascosta e camuffabile. Individui intelligenti ma non particolarmente prestanti possono aspirare a ruoli di maggior rilievo (e maggiori vantaggi), anziché attraverso lo scontro fisico, ricorrendo all’astuzia e/o all’inganno. Entrambe queste modalità, come già visto [2], hanno pesanti controindicazioni.
Se i combattimenti, basati sulla forza, possono ferire e danneggiare i singoli individui, indebolendo il gruppo, l’inganno tradisce la fiducia reciproca tra pari che risulta essenziale alle dinamiche di cooperazione, instilla diffidenza tra singoli individui e tende a minare la coesione del collettivo. Per questo motivo entrambe queste forme di conflitto sono socialmente biasimate e culturalmente collocate nell’ambito dei comportamenti antisociali che vanno contrastati e contenuti.
Volendo schematizzare, i gruppi sociali funzionano in base ad un equilibrio perennemente instabile:
– ogni individuo cerca di ottenere il massimo vantaggio per sé (ed in subordine per la propria ristretta cerchia relazionale)
– la partecipazione al gruppo massimizza i vantaggi ottenibili rispetto alla vita solitaria
Ma:
– i vantaggi dipendono dall’azione organizzata di tutti i membri
– il patto sociale richiede che quanto ottenuto sia equamente redistribuito
L’ultima esigenza entra in aperto conflitto con il primo punto, ovvero l’appetito individuale ad ottenere il massimo risultato per sé. Per gestire questo precario equilibrio le diverse civiltà hanno provveduto ad elaborare norme di relazionamento sociale via via più complesse. Si va dagli antichi codici giuridici [3] alle norme comportamentali formalizzate nei credo religiosi [4].
L’aspetto interessante dei comportamenti auto-competitivi è proprio il precario equilibrio che essi inducono nelle dinamiche di gruppo. Come si ottiene un equilibrio in una società arcaica? La questione riecheggia, in analogia, l’esistenza del mancinismo e la sua descrizione in chiave evoluzionista.
Il mancinismo è una fenomenologia presente in pressoché ogni specie vivente [5]. In buona sostanza, ciò che osserviamo è che la maggior parte degli individui nelle popolazioni umane ed animali presenta una simmetria bilaterale imperfetta, con il lato destro che tende ad essere più sviluppato e funzionale di quello sinistro.
Si scrive con la mano destra, si calcia il pallone con il piede destro, si ascolta di preferenza con l’orecchio destro, si osserva nei cannocchiali con l’occhio destro e via dicendo. A fronte di questa maggioranza destrorsa, in una piccola percentuale della popolazione, tipicamente intorno al 10%, l’asimmetria si manifesta in forma speculare, con la parte sinistra più sviluppata e dominante.
(in realtà è più complesso di così, perché il mancinismo può riguardare singole parti del corpo; nel mio caso, pur essendo destrorso per mano, piede ed orecchio il mio occhio dominante è il sinistro: se devo scattare una fotografia, o osservare in un telescopio, l’occhio che utilizzo di preferenza è sempre il sinistro, perché il mio emisfero cerebrale destro è più efficiente nell’organizzare e dare un senso a ciò che sto osservando…)
Le domande che l’esistenza del mancinismo solleva, dal punto di vista evolutivo, sono due: la prima è perché esista, la seconda perché risulti sistematicamente minoritario, in una proporzione che è molto simile nella quasi totalità delle specie osservate (anche specie filogeneticamente molto lontane). La risposta ad entrambe è che il mancinismo esiste perché produce un vantaggio, ma solo a patto che non sia particolarmente diffuso.
Per capirci, un mancino appare avvantaggiato da questa sua atipicità in un ridotto ventaglio di situazioni, ma è un vantaggio che tende a scemare in presenza di altri mancini. Da un punto di vista evolutivo la selezione naturale premia gli individui ‘asimmetrici’ (mancini e destrorsi), perché l’uso ripetuto di una parte anatomica ne perfeziona la funzionalità, e tende a far prevalere un tipo di organizzazione fisiologica (quella destrorsa) lasciando comunque un margine di vantaggio per quella opposta (mancinismo), ma solo per piccoli numeri.
L’esempio classico è quello dei lottatori. In un mondo di lottatori destrorsi il lottatore mancino è leggermente avvantaggiato da questa sua unicità, perché può portare colpi che gli altri lottatori non sono abituati ad affrontare e gestire. Questo rappresenta un vantaggio che consente ad individui leggermente meno prestanti sul piano fisico di confrontarsi, e sconfiggere, avversari più forti. Al diminuire dell’unicità, quindi in presenza di un numero elevato di lottatori mancini, questo vantaggio viene ad annullarsi.
La tesi, che non sono in grado di dimostrare, consiste nel trasferire questo modello interpretativo ai comportamenti auto-competitivi. Mi appare verosimile che l’equilibrio tra i comportamenti auto-competitivi e quelli cooperativi si instauri attraverso un processo analogo: la violenza e l’inganno risultano vantaggiosi finché si mantengono minoritari in seno al gruppo. Se si manifestano troppo diffusamente il gruppo perde di coesione ed efficacia, declinando a favore di altri gruppi più equilibrati.
Avremmo quindi un meccanismo evolutivo di causa-effetto in grado di generare l’equilibrio dei comportamenti auto-competitivi nei gruppi umani. Analogamente al mancinismo, anche la propensione alla menzogna e all’inganno, o a forme anomale di aggressività, trovano una collocazione funzionale solo se presenti in proporzione minoritaria all’interno di una società.
Minoritaria ma non nulla. Questo significa che il pool genetico umano tenderà ad esprimere, occasionalmente ed in una proporzione ben definita, sia individui con tratti particolarmente aggressivi e violenti, sia individui istintivamente portati all’inganno ed al raggiro. E questo è il secondo punto che credo di aver messo a fuoco.