­Conversazione tra un politico e un burocrate

[quella che segue è la trascrizione di una conversazione totalmente inventata tra un politico di fresca elezione ed un burocrate, entrambi mai realmente esistiti. Altri elementi di fantasia sono i vincoli che vengono piazzati. Tutto il resto, purtroppo, è vero…]


Politico – Buongiorno, lei mi è stato indicato come il funzionario di riferimento…

Burocrate Esattamente, onorevole. È un piacere fare la sua conoscenza!

P – Per favore, niente ‘onorevole’. Evitiamo queste formalità che sanno tanto di vecchio.

B – Come preferisce.

P – Ci tenevo ad incontrarla per illustrarle i diversi cambiamenti che sono intenzionato ad apportare nel nostro ambito operativo. Abbiamo grandi idee per rivoluzionare un sistema che fin qui, ne converrà, ha funzionato ben poco.

B – Sono a conoscenza delle molte delle critiche che il suo partito ha fatto alle precedenti amministrazioni. Può cortesemente porgermi il polso sinistro?

P – Il polso? Ma perché, scusi?

B – È la prassi!

P – Ah, allora va bene (porge il polso). Il nostro Movimento per la Giustizia e la Felicità (che non è un partito!) ha intenzione di metter fine alle inefficienze ed agli sprechi, allo sperpero di denaro pubblico per opere inutili, se non dannose per la popolazione, per raggiungere…

B – Ora il polso destro, cortesemente…

P – Il polso? Sì, (porge il polso destro), come le dicevo abbiamo intenzione di azzerare le forme di malgestione che hanno caratterizzato le precedenti amministrazioni… Ma, aspetti! Che sta facendo? Non riesco più a muovere le mani.

B – Ora le caviglie. Mi scusi, sa, non è un fatto personale. Si fa così con tutti.

P – Ma… non posso più camminare! Che senso ha tutto questo?

B – Non glielo hanno spiegato? Oh, già, lei appartiene al tipo ‘ingenuo’, il suo Movimento non ha una scuola quadri… Ora la poserò a terra. Cercherò di farlo delicatamente. Se non si agita è meglio.

P – Ma perché mi sta legando? Che significa?

B – Un attimo solo che le passo il cappio intorno al collo… Ecco fatto. Adesso è pronto!

P – Ma pronto a cosa? Non posso più muovermi! Se provo a liberarmi rischio di strangolarmi. Perché mi ha incaprettato così?

B – È pronto per i suoi cinque anni di mandato. Non si preoccupi, all’inizio è scomodo per tutti, poi ci si abitua. Alla lunga se ne apprezzano i vantaggi.

P – Ma quali vantaggi? Se non posso far più niente!

B – Beh, niente non direi proprio: può ancora parlare.

P – Parlare? Certo, parlerò e dirò a tutti cosa mi avete fatto!

B – Sa che a quel punto farà la figura dell’idiota, vero? Ha chiaro che sarà la fine della sua carriera politica?

P – Cosa???

B – Consideri poi che gli altri eletti si troveranno nelle sue stesse condizioni, e la maggior parte di loro non vorrà esporsi ad una figuraccia. Rischia che la buttino fuori dal Movimento per incapacità. Si fidi di me. Come le ho detto è la prassi. I legacci non si vedono, può ancora parlare… faccia quello che ha fatto fin qui. Faccia il politico. Parli!

P – Io…

B – Cosa crede, di essere il primo? Se lo lasci dire, siete quasi tutti così. Arrivate con grandi idee di cambiamento in testa, volete rivoluzionare tutto, ma sono fantasie campate per aria. Lei di si occupa di mobilità, giusto?

P – Io? Sì, certo…

B – Ed era venuto a parlarmi del ‘problema del traffico’, immagino…

P – Tra le altre cose, ovvio! È uno dei punti cardine della nostra piattaforma programmatica: la riduzione del traffico. Non siamo disposti a fare nessun passo indietro su questo, la avviso!

B – Ma lei ha capito cosa significa ‘ridurre il traffico’? Cosa significa in concreto, dico. Il traffico è il prodotto del numero di automobili circolanti. Ha capito che ridurre il traffico significa ridurre i veicoli in circolazione? Ha capito che dovrà andare a dire ai suoi elettori che saranno obbligati ad usare di meno l’automobile? Che non potranno più andare dove vogliono, quando vogliono, e lasciarla parcheggiata dove gli pare e piace, come fanno adesso? È pronto a questo?

P – Ma… Noi non intendiamo costringere nessuno! Piuttosto creeremo delle alternative! Potenzieremo il trasporto pubblico. Faremo più piste ciclabili…

B – Il trasporto pubblico! Meraviglioso! Dove passerà questo trasporto pubblico potenziato’ se le strade sono, come ora, intasate dalle automobili? Avremo gli autobus volanti? E la vecchia leggenda che le piste ciclabili riducono il traffico? Dove sta scritto che ad un aumento dell’offerta di trasporto i tragitti si ridistribuiscono e il traffico si riduce? Nel libro delle fiabe?

P – Beh… non è quello che succede in Olanda e Danimarca? Lì hanno le piste ciclabili e di conseguenza circolano meno automobili…

B – No. Lì hanno fatto scelte molto pesanti ed impopolari per disincentivare l’utilizzo dell’automobile, oltre a realizzare le piste ciclabili. Voi siete pronti ad andare a dire, ai vostri stessi elettori, che saranno contingentati gli accessi al centro città? Che ci saranno meno parcheggi, e più cari? Che dalle periferie potranno spostarsi, ed in tempi e modalità indecenti, solo usando i treni o gli autobus? Siete in grado di portare avanti una campagna comunicativa per far accettare, ad una popolazione mediamente ignorante come la nostra, un simile stravolgimento delle abitudini di vita?

P – Io… Noi…

B – Non ci aveva pensato? Beh, senza che perda tempo a ragionarci troppo: la risposta è no. Glielo dico per esperienza, la risposta è sempre no. Specifico: esperienza non solo mia, anche di quelli che mi hanno preceduto su questa poltrona. Si fidi, prima si abitua all’idea e meglio sarà, per lei e per tutti.

P – Ma i morti per smog? Gli incidenti stradali? Lasciamo tutto così? È inaccettabile!

B – Lasci che le spieghi come funziona il ‘sistema’ , quel sistema di cui blaterate tanto ma che nessuno si è dato pena di comprendere. Questa città, questa società, vivono di un’economia, in larga parte fittizia, fatta di cemento ed automobili. Ed è un sistema talmente interconnesso che, se si tolgono le automobili, anche il cemento smette di funzionare, e viceversa. Le automobili sono il sangue che consente ai quartieri di periferia di crescere e proliferare…

P – …come cellule tumorali!

B – Esatto! Ma il tumore non è mica stupido: approfitta di tutto quello che trova!

P – Ma che dice? Se alla fine uccide l’organismo in cui cresce!

B – E che importa, al tumore? Il tumore nemmeno dovrebbe esistere. Per lui ogni minuto di vita, ogni goccia di sangue, è tutto di guadagnato. Il tumore sa solo che ha bisogno di sangue per crescere. Il cemento, in questo, è ancora più furbo.

P – In che senso? Non la seguo…

B – Il cemento, inteso come settore dell’economia legato all’edilizia, non si limita a crescere a casaccio. Si muove, si organizza, fa in modo che il sangue non smetta di circolare, che aumenti fin dove possibile. Il cemento costruisce le strade, e le fa in modo da favorire la circolazione delle automobili, che portano clienti, acquirenti di nuovo cemento. Il cemento, inteso come denaro legato ad un comparto, si intreccia con la politica e con gli uffici, agevola carriere, minaccia, ricatta, regala, muove le sue pedine. Il cemento, in sinergia col mondo legato alla produzione di automobili, spende in pubblicità televisive, acquista giornali, parla all’opinione pubblica, la orienta, la modella. Le faccio un esempio: cosa ha visto ieri sera in televisione?

P – Un film: “Fast and furious”.

B – Perfetto! Con abbonamento o sulle reti pubbliche?

P – Reti pubbliche, ma che c’entra?

B – Chi crede che abbia pagato per il film che ha visto ieri sera in televisione? Molto semplice: la pubblicità! E gli spot che interrompono i programmi in prima serata sono in larghissima parte pubblicità di automobili. In questo caso, non solo il settore automobilistico ha pagato perché lei vedesse il film, ma molto probabilmente ha anche prodotto la pellicola ed orientato la scelta di quale film il dirigente pubblico ha scelto di farle vedere. Perché i due mercati, cemento ed automobili, sono in sinergia: costruire case conviene finché il costo di vendita è elevato. Per mantenere prezzi elevati in quartieri lontanissimi da tutto devi far credere, a chi comprerà quelle case, che la distanza non è un problema. E l’unica maniera per realizzare questo è per mezzo della circolazione di automobili. Tante automobili. Tantissime. Automobili ovunque.

P – Ma questa è follia criminale! Si rende conto di quanta gente si ammala e muore per l’inquinamento? Di quanti morti e feriti producano gli incidenti stradali? Di quali e quanti costi ciò produca per la società e per la macchina statale?

B – E lei si rende conto di quanto questo sistema folle contribuisca all’economia del paese? Di quanti posti di lavoro dipendano da esso? La sua visione di un mondo ‘che funziona’ è bellissima, in teoria. In pratica, però, ci sarebbe molto meno da fare per tutti. Meno case da costruire, meno macchine, meno strade, meno lavoro per medici ed infermieri, meno pubblicità, meno farmaci, meno servizi, meno tasse…

P – …e più soldi che resteranno nelle tasche dei cittadini!

B – No. Perché quei soldi non ci arriverebbero proprio, nelle tasche dei cittadini. Nel vostro mondo ideale si innescherebbe solo una tremenda recessione, col suo corollario di disoccupazione, degrado sociale, disperazione, suicidi, fuga dalle città. Perché il sistema, caro mio, si estende ben oltre i confini di questa città o di questa nazione. L’economia ha ormai dimensioni transcontinentali, e detta le regole a tutti, anche al nostro piccolo fazzoletto di mondo. Se non stai nelle regole dell’economia, se non macini denaro, combustibili, materie prime, vite umane, produzione industriale, i soldi vanno semplicemente da un’altra parte, evaporano, si smaterializzano, e da un momento all’altro qui diventiamo tutti poveri.

P – Ma questo è allucinante! Come si fa a vivere con una simile consapevolezza? Come si fa a guardare in faccia i propri simili? A raccontargli favolette per continuare a mandare avanti questo baraccone trita-persone?

B – Questo, caro il mio politico, è quello che dovrà imparare a fare. È il suo mestiere, non il mio. Oppure potrà dimettersi e cercare un altro lavoro.

P – Va contro tutto quello che ho sognato ed immaginato… dovrò pensarci su…

B – Avrà tempo per farlo. D’altronde lei è facilmente sostituibile, questo lo sa, vero?

P – Lo so, certo… Nel frattempo può sciogliermi?

B – Solo alla scadenza del mandato. Ed ora le auguro buon lavoro.

P – Sì, ovviamente. Grazie, eh!

B – Arrivederla! È stato un piacere!

Intervista

(oggi abbiamo deciso di intervistare Marco Pierfranceschi, cicloattivista di lunga data ed animatore della scena ciclistica romana)

D: Pierfranceschi, che somme possiamo tirare rispetto agli ultimi, diciamo, trent’anni di sviluppo della ciclabilità in Italia.

Diciamo che sicuramente si poteva fare di più e meglio, ma lo stesso non possiamo lamentarci.

D: Non è un parere condiviso da tutti.

Gli scontenti ci sono sempre, ma bisogna guardare le cose con obiettività. La bicicletta si è ricavata uno spazio importante fra le modalità di spostamento. Il 73% di tutti gli spostamenti avvengono oggi in bicicletta. Certo, il clima ottimale della penisola ha la sua importanza, ma io penso che ciò sia dipeso anche da una serie di scelte operate nel corso degli anni.

D: può farci qualche esempio?

Ce ne sarebbero parecchi, ma per me è stato essenziale il completamento, a metà degli anni ‘90, della Ciclovia del Sole, che ha portato un enorme indotto turistico dai paesi germanofoni fino a Roma, e creato le condizioni per lo sviluppo della rete Bicitalia, che oggi raccorda praticamente tutti i capoluoghi di provincia. Se oggi abbiamo una fetta tanto importante del mercato turistico che si muove su due ruote a pedali e sceglie il nostro paese per le vacanze è dovuto anche a questo.

D: chi dobbiamo ringraziare, quindi?

Noi cicloattivisti ci siamo attivati per quanto nelle nostre possibilità, ma è stato determinante il supporto della politica, che ha saputo comprendere il valore di questa opportunità, ha investito le risorse necessarie… e ne è stata giustamente ripagata.

D: e dopo la rete turistica?

È stato il momento delle città, che si sono dovute attrezzare, prima molto timidamente, poi con sempre più convinzione, per ospitare questi flussi turistici e per far muovere in bicicletta i cittadini. Questo è avvenuto in concomitanza con lo sbarco, nel nostro paese, del movimento Critical Mass, che ha stravolto il modo in cui eravamo abituati a ragionare gli spazi urbani. Si è sviluppata una importante sinergia tra le istanze turistiche, che muovevano verso le città, e quelle interne di mobilità individuale, divertente, salutare e sostenibile.

D: che può raccontarci di questo periodo?

Troppe cose, non possiamo star qui tutto il giorno. All’inizio, fra cicloturisti e pedalatori urbani ci si è guardati un po’ in cagnesco, poi ci si è annusati e alla fine abbiamo convenuto di appartenere alla stessa specie. Ed abbiamo iniziato una collaborazione molto proficua. Sono stati gli anni che hanno visto un’esplosione di sperimentazioni, in diverse città, di cui si è fatto tesoro e che hanno portato alle successive modifiche del Codice della Strada.

D: una legge che non ha avuto pace!

Beh, sì. Se ricordo bene è stata integrata almeno tre volte negli ultimi quindici anni. Ed ogni volta si è lavorato a restituire spazi e diritti alla mobilità leggera, togliendoli a quella motorizzata. A mio parere è anche grazie a questi interventi che oggi abbiamo una rete di trasporto pubblico che il mondo ci invidia, e che in molti paesi si cerca di imitare. Siamo stati i capofila di una rivoluzione nelle modalità di trasporto, di questo dovremmo essere orgogliosi.

D: e del Raccordo delle Bici, ne vogliamo parlare?

È stata un’idea geniale, quasi mi rammarico di non averla avuta io. Ma sa, in quegli anni avevo troppo da fare, riunioni, tavoli tecnici, iniziative in bicicletta, esplorazione e valorizzazione di pezzi di penisola che il turismo di massa aveva dimenticato. Il Raccordo delle Biciclette di Roma ha unito le esigenze di tutti, ed è stato immediatamente copiato in moltissime altre realtà. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo di nuovo.

D: la ringraziamo tantissimo della chiacchierata, c’è altro che vorrebbe aggiungere?

Ci sarebbe da parlare per ore, ma in questo momento mi gira un po’ la testa.

D: c’è qualcosa che non va?

Non capisco, vedo sfocato, vedo lei sfocato…

D: forse è perché io non esisto davvero, lo sa questo?

Che? Come? Cosa?

D: Non esisto, sono solo nella sua testa. Non ha preso le sue medicine, Pierfranceschi. Si è dimenticato di nuovo.

Le medicine? Ah, già, le mie medicine. Dove sono?

D: nel cassetto. Non le dimentichi più!

Ora le prendo, ma lei non se ne vada… resti, la prego… la prego… Dov’è? Che fine ha fatto? Ah, già, le mie medicine. Dove sono? Dove le ho messe?

La chiusura del cerchio

Nei mesi scorsi il regista Michael Moore ha curato la produzione di un documentario girato da Jeff Gibbs, intitolato “Planet of the Humans” (il titolo rifà il verso al famoso film di fantascienza “Planet of the Apes”, in italiano “Il Pianeta delle Scimmie”). Il film, a causa del lockdown imposto dalla pandemia attualmente in corso, è stato temporaneamente messo a disposizione in forma integrale sulla piattaforma Youtube. Di seguito il trailer.

Il lavoro di Gibbs punta il dito sull’azione delle organizzazioni ambientaliste americane, sulle loro commistioni con la politica, sui loro finanziatori ed in ultima istanza le addita come uno strumento creato e gestito dal comparto industriale per orientare le opinioni di quella fetta di popolazione più critica nei confronti del modello capitalista/consumista.

Questa tesi ha suscitato grandi polemiche, ma non si discosta molto dalle conclusioni cui sono giunto anch’io, ragionando autonomamente sulle tecnologie verdi e sulla funzione economico/politica delle associazioni sedicenti ambientaliste. Anzi, il documentario manca di approfondire diversi concetti, in primis quello di EROEI, che avrebbero portato ulteriori argomenti a supporto delle tesi illustrate.

Gibbs, tuttavia, coglie una connessione che mi era fin qui sfuggita. Dopo aver descritto, all’inizio della pellicola, il proprio passato di attivista delle lotte ambientali, circa a metà del film, e solo dopo aver ampiamente illustrato l’impossibilità di alimentare l’attuale livello di consumi unicamente con l’ausilio di tecnologie verdi, l’autore si interroga sul perché del proprio autoinganno.

(voce narrante) E questo è la più terrificante rivelazione che abbia mai avuto. Noi umani siamo in procinto di precipitare da un’altezza inimmaginabile. Non per una cosa. Non solo per i cambiamenti climatici. Ma per tutti i cambiamenti causati dall’uomo di cui il pianeta soffre. Quindi, perché banchieri, industriali e leader ambientali si sono concentrati solo sul difficile percorso legato alle tecnologie ‘verdi’? È per via del profitto? E per quale motivo, per la maggior parte della mia vita, mi sono cullato nell’illusione che l’energia ‘verde’ ci avrebbe salvato?

Il documentarista va quindi ad intervistare il dr. Sheldon Solomon, psicologo sociale presso lo Skidmore College, cui pone la seguente questione:

[Jeff Gibbs] – È come se la destra avesse una religione: credono nella disponibilità di quantità infinite di combustibili fossili. Mentre la nostra parte dice “Oh, andrà tutto bene, avremo i pannelli solari, avremo le pale eoliche.” Appena ho sentito le tue argomentazioni sulla ‘negazione della morte’ ho pensato: “Può essere? Può essere che non siamo in grado di affrontare la nostra stessa mortalità? Potremmo, per questo motivo, aderire ad un credo di cui non siamo consapevoli?”

Ed ecco il trait-d’union tra ambiti diversi che mi era sin qui sfuggito.

Ho già lungamente discusso della distruttività umana, di come siamo collettivamente incapaci di progettare un futuro sostenibile, abbandonandoci con estrema facilità al consumo sfrenato di quanto disponibile, letteralmente ‘come se non ci fosse un domani’. Fin qui l’ho interpretata come una reazione puramente animale, in cui la razionalità non rivestiva alcun ruolo.

In parallelo ho proceduto a sviluppare un’analisi della fallacia delle ideologie, delle fedi, delle credenze irrazionali, rintracciando la loro origine in una forma di autodifesa mentale, funzionale alla sopravvivenza di singoli e gruppi. Le considerazioni espresse in “Planet of the Humans”, finalmente, chiudono il cerchio del ragionamento e svelano la rovinosa china sulla quale è avviata la nostra civiltà.

Nel progredire dell’evoluzione della specie Homo, una delle caratteristiche distintive è stata lo sviluppo dell’intelligenza. Come per molte altre trasformazioni (la postura bipede, l’aumento volumetrico della scatola cranica) quello che si è guadagnato in termini di funzionalità è stato compensato dall’emergere di nuovi problemi. Nel caso dell’intelligenza il portato negativo è rappresentato dall’emergere della consapevolezza dell’inevitabilità della morte.

La paura della morte è un tratto comune a tutti gli esseri viventi capaci di autodeterminare i propri comportamenti. Si tratta di una reazione istintiva che spinge da un lato a sfuggire i predatori, dall’altro a continuare a nutrirsi, indicata spesso come ‘istinto di sopravvivenza’. La paura di una morte immediata produce una reazione di panico e stress, che aiuta gli animali a salvarsi e sopravvivere fino a riprodursi.

Tuttavia, con lo sviluppo dell’intelligenza, i nostri antenati si sono dovuti confrontare con la cognizione dell’inevitabilità della propria morte, dell’invecchiamento, con la paura delle malattie. Questa consapevolezza ha prodotto un perdurante senso di angoscia, tale da ridurre significativamente il vantaggio derivante dal possedere un maggior volume cerebrale.

Gli antichi umani hanno perciò sviluppato un adattamento mentale che li ha resi in grado di bypassare questa consapevolezza, attivando la capacità di aderire convintamente a credenze irrazionali. Questo ha segnato la nascita delle religioni, come forma di sollievo dall’angoscia della morte e collante sociale delle prime comunità umane, favorendo la sopravvivenza dei nostri progenitori.

Per contro, come portato negativo, la capacità di ignorare la logica ed il buonsenso ha creato le condizioni per lo sviluppo di un florilegio di ideologie, che hanno accompagnato lo sviluppo delle civiltà. È questo meccanismo inconscio che ci consente, contro tutte le evidenze, di credere agli UFO, o ai Rettiliani, o alla teoria della Terra Piatta.

Come nel principio filosofico di Yin e Yang (“ogni cosa contiene, nella sua massima espressione, il germe del proprio contrario”), il progredire di intelligenza e razionalità hanno prodotto, in parallelo, lo sviluppo della capacità di ignorare le conclusioni che intelligenza e razionalità ci forniscono. Quando il sapere diventa troppo doloroso, o fastidioso, attiviamo la capacità di rimuovere le informazioni indesiderate.

Come i nostri antenati, siamo in grado di ignorare la consapevolezza della morte individuale, e l’angoscia che essa comporta, e di elaborare una fede irrazionale nella salvezza. Allo stesso modo siamo in grado di ignorare la consapevolezza dell’inevitabile declino della civiltà industriale, che abbiamo finito con l’identificare con la nostra stessa esistenza, elaborando ed aderendo in massa a credenze totalmente irrazionali, come l’ideologia del progresso, quella di un universo che muove dal caos all’ordine, o quella della crescita economica illimitata.

Il quadro ora è completo, e non lascia spazio a speranze. Per quanti fatti la scienza potrà inanellare, per quante previsioni attendibili potrà fornire, la capacità umana di ignorare la realtà avrà sempre il sopravvento. La nostra grandezza, la nostra incredibile intelligenza, contiene in sé il germe della propria stessa distruzione.

Raccontino #2


Universo 4D

(un racconto di Marco Pierfranceschi)


(porge/dispone/colloca) Si è bloccato!
– Vedo.
– È “Universo 4D”.
– L’ho riconosciuto. È un gioco molto diffuso.
– Piace moltissimo alla mia (appendice/prolasso/falange) (superiore/anteriore/ulteriore) (sinistra/torsione). Per questo vorrei cercare di ripararlo.
– Non è un po’ grandicella per questi trastulli?
(con aria sconfortata) Lasciamo stare. Puoi ripararlo?
– Certo, ne ho aggiustati diversi.
– Ma il problema qual è? Ci capisci qualcosa?
(sospiro/disappunto) Vedi qui? Ha spostato troppo in avanti la coordinata temporale. È un’operazione che non fa quasi nessuno.
– Deve averci giocato troppo a lungo…
– Anche perché la parte iniziale è quella più interessante, dopo diventa abbastanza noioso.
– Va a capire che ci trova!
– Le (appendice/prolasso/falange) non ragionano come noi.
– Dice che la affascinano le civiltà.
– Le civiltà, in questo gioco, non sono davvero un granché. Dovrebbe provare quelle di Metaverso 27D!
– Ne sto cercando uno usato, ma al momento niente. Nel frattempo puoi aggiustarmi questo?
– Prima verifichiamo se il problema è quello che penso io (armeggia un po’ coi comandi). Infatti, come immaginavo.
– Cioè?
– È un problema documentato che affligge alcune versioni della prima release. Vedi questa galassia?
– La spirale?
– Sì. Ora ingrandiamo ed andiamo a cercare un pianeta. Eccolo!
– Quello azzurro?
– Esatto! Su questo singolo pianeta si sviluppa una civiltà atipica che prende ad interagire con la struttura fondamentale della (realtà/matrice/simulata/cognizione) portando al blocco del gioco.
– Cosa???
– Eh, trovano il modo di sfruttare un (bug/errore/metafunzione/entanglement) necessario al funzionamento del sistema. E mandano tutto in ‘crash’.
– Non ci posso credere! Vabbé, ma si può sistemare?
– Certo, ci vuole un attimo. Fammi (ottenere/sintetizzare/materializzare) la ‘patch’… Ecco qui. Ora resettiamo… applichiamo… Fatto!
– Tutto qui? E cosa fa, esattamente?
– Questo è interessante. I (produttori/creatori/taumaturghi) hanno provato a modificare il (bug/errore/metafunzione/entanglement), ma è stata una perdita di tempo. Nessuna alternativa rendeva il gioco altrettanto interessante. Quindi sono intervenuti con una soluzione rimediata ma a suo modo brillante. La ‘patch’ modifica una (fluttuazione/interazione/accoppiamento/virtuale) all’inizio del gioco, e guarda cosa succede (armeggia di nuovo coi comandi)
– È il pianeta di prima.
– Sì, solo che adesso…
– BUM! Bel botto! Cos’era?
– Un asteroide.
– E cosa cambia?
– Estinzione di massa. La civiltà atipica non si sviluppa più.
– Non elegantissimo, ma a suo modo brillante. Ma aspetta (scorre l’asse temporale)… Vedo che la vita riprende. Non si sviluppa una nuova civiltà?
– Ovviamente. Ma questa è una civiltà standard! Sai come funzionano… crescita incontrollata, sfruttamento delle risorse, collasso, estinzione.
– Sì, funzionano tutte più o meno allo stesso modo.
– Per l’appunto! Le civiltà non sono davvero un granché in questo gioco.
– Vabbé, l’importante è che ora funzioni. Quanto ti devo?
– Per così poco? Niente! Alla prima occasione mi offri una (alimento/bevanda/psicotropo/fermentazione) e siamo pari.
– Perfetto, ti ringrazio. A presto, allora!
– Ciao, e divertiti!
– Eh! Ma non è mica per me…!
– Si, certo! Come no? (contrazione/occlusione/strizzamento/assenso)

Fine

Wow

Sui dialoghi

scimmia fumetto

Quando si scrive spinti dall’ispirazione, non si perde tempo a ragionare il processo. Per questo, mentre il mio racconto “La Principessa Scimmia” prendeva corpo, non mi sono messo a sviscerare cosa stessi facendo, né perché. La vicenda si sviluppava e modellava una pagina alla volta, e a me andava bene così. Solo a posteriori ho avuto il tempo di ragionare, a mente fredda e ad opera compiuta, su quello che avevo fatto.

L’esigenza di avere una misura del valore del mio lavoro mi ha portato a confrontarmi con quello degli altri. Nel corso di una passeggiata sono entrato in libreria ed ho iniziato a sfogliare, un po’ a casaccio, volumi di narrativa di autori italiani contemporanei.

Con sommo stupore mi sono ritrovato a pensare, di un autore anche famoso (ma mai letto prima): “ma come scrive questo??”. E, immediatamente dopo: “a che titolo posso permettermi di giudicare gente più affermata di me?”. Da cosa nasceva questa supponenza? Sempre più sconcertato ho quindi messo mano ad un tomo di J. K. Rowling (un volume a caso del ciclo di Harry Potter) che, aperto in un punto qualsiasi, mi ha restituito una prosa ben redatta, efficace, leggibile.

A questo punto mi è tornata in mente una questione emersa più volte nelle discussioni con la mia consorte. Commentando un testo dello scrittore David Foster Wallace (nostra comune passione), Emanuela ha avuto a dire: “Leggendo D.F.W. capisco perché ho lasciato a metà la maggior parte dei libri che ho iniziato a leggere negli ultimi tempi”. “Perché sono scritti male”, ho concluso io al suo posto. “Esatto: perché sono scritti male”, ha confermato lei.

Ragionando su come fosse scritto “La Principessa Scimmia”, la mia prima riflessione ha analizzato la tecnica di scrittura. Come Rowling, sentivo la necessità di realizzare un testo leggibile ad alta voce e facilmente comprensibile anche dai ragazzi, e questo mi/ci ha obbligato a rifinire la prosa in un determinato modo. Ma la risposta, per quanto plausibile, non mi soddisfaceva appieno, mi sembrava incompleta.

Rileggendo il testo per l’ennesima volta (sempre dietro richiesta di mia figlia, che ama sentirselo leggere e partecipa emotivamente delle vicende) mi ha colpito l’efficacia dei dialoghi. Anche i più semplici, come ad esempio quelli che si sviluppano fra e con gli animali (personaggi che nella storia hanno tutti, intenzionalmente, un livello di complessità molto inferiore agli umani), restituiscono una sensazione di verosimiglianza.

Sensazione che, ragionandoci su, discende direttamente dal modo che ho usato per immaginarli, calandomi di volta in volta nel personaggio, pensandomi nei suoi panni all’interno della situazione, dandogli voce. Questa maniera di scrivere le battute mi è parsa, fin da subito l’unica possibile, per cui non sono stato a ragionarci troppo su. Ma poi mi sono dovuto confrontare con l’artificiosità dei dialoghi di altri autori.

Un dialogo appare evidentemente artificioso quando il lettore percepisce che ha l’unica funzione di mandare avanti la vicenda. Come molti ‘spiegoni’, che appaiono nei film per raccontare fatti avvenuti prima di quelli rappresentati, tanti dialoghi scritti finiscono col rappresentare non tanto le necessità dei personaggi, le loro urgenze, ma solo quella dello scrittore di condurre la storia verso la conclusione che ha immaginato.

Non mi è stato semplice ricostruire da chi, e dove, ho appreso il mestiere di scrivere i dialoghi. Sicuramente un grosso imprinting l’ho avuto dal laboratorio di scrittura teatrale cui ho partecipato una decina d’anni fa, condotto da Giampiero Rappa presso il Teatro Piccolo Re di Roma. Lì ci siamo confrontati con l’esigenza di dar voce ad un personaggio, di viverlo, di rappresentarlo in scena.

Il lavoro dell’attore richiede di essere, all’interno della rappresentazione, altro da sé; di provare le emozioni di un altro individuo, di dar loro un corpo, una fisicità, una credibilità. L’attore, il bravo attore, deve ‘indossare’ la vita del proprio personaggio, le sue fatiche, i suoi sogni, le sue ambizioni, e restituirle al pubblico.

Chi scrive per il teatro deve fare un lavoro analogo, ma partendo da zero. Deve immaginare un intero personaggio, con la sua vita, il suo passato, i suoi ricordi, il suo carattere, le sue emozioni, e tradurli in poche battute che siano vere, credibili, efficaci.

La stessa cosa deve fare un bravo scrittore. Con conseguenze analoghe a quelle che coinvolgono l’attore… ovvero che i personaggi, dopo essere stati ‘indossati’, finiscono col rimanerti dentro.