La linea di analisi presentata ormai più di un anno fa col titolo Ripensare la ciclabilità urbana, poi confluita nel cosiddetto Modello della città “a grappolo” mi ha portato ad esplorare territori prima sconosciuti. Il punto di approdo più recente è una ricerca del CRESME effettuata a metà degli anni ’90 per conto dell’ufficio del Piano Regolatore del Comune di Roma ed intitolata Centralità, nuove municipalità, identità, che esplorava il tema del frazionamento del territorio romano descrivendolo in termini di “microcittà”.
Laddove la mia analisi (perlomeno nella parte che ho messo per iscritto) sviluppava il tema della disomogeneità del tessuto urbano unicamente dal punto di vista della maggiore o minore permeabilità al traffico ciclistico, rinunciando a dar corpo ad un ragionamento compiuto sulle dinamiche e le conseguenze di questo frazionamento, lo studio del CRESME effettuava una vera e propria analisi quantitativa, integrata da metodi statistici ed interviste con domande sulla percezione di identità, per dare conto della enorme complessità della realtà romana.
Due approcci completamente diversi: il mio sviluppato a partire dalle microrealtà, dai nodi, per giungere in via induttiva alla visione complessiva, quello del CRESME nato per comprendere il moloch urbano nella sua totalità, partendo dalla visione d’insieme ed ingrandendo via via i dettagli fino a coglierne le microrealtà. Lavori nati con intenti dissimili ma concordanti nelle conclusioni.
La domanda rispetto alla quale la lettura di questa ricerca mi ha portato a riflettere verte su cosa sia una città. Il linguaggio è uno strumento fantastico, ma spesso l’uso prolungato di un termine (città) ce lo rende familiare e finisce col nascondere la complessità dell’oggetto cui si riferisce, nella fattispecie i molti e diversi gradi di complessità delle realtà urbane.
Alla radice, il termine greco “polis” non significa altro che moltitudine, quindi città come “luogo dei molti” (allo stesso modo per cui politica è il tentativo di ragionare, e dare risposta, alle esigenze di molti anziché a quelle spicciole, immediate del singolo individuo). Bisognerà dunque fare uno sforzo ulteriore per capire di cosa stiamo ragionando.
La città è caratterizzata in primo luogo dal coesistere di stanziamenti abitativi, quindi di spazi pubblici (piazze), di strade e trasporti per spostarsi da una zona all’altra, di funzioni produttive e commerciali. Al crescere delle dimensioni si osserva una strutturazione che classicamente colloca il grosso delle attività sociali e pubbliche al suo centro, circondato da una periferia che va via via degradando verso la campagna man mano che le attività agricole finiscono col prevalere.
A questa forma urbis tradizionale si sono andate ad affiancare, in tempi recenti, organizzazioni urbane completamente diverse grazie alla possibilità offerta dai veicoli a motore di abbattere la barriera temporale prodotta dalla distanza tra i luoghi. Assistiamo quindi ad urbanizzazioni totalmente a-centriche, diffuse, prive di luoghi di aggregazione e socialità, come pure a zone industriali pressoché prive di abitazioni ed a tutta una varietà di situazioni intermedie.
Le grandi conurbazioni, come appunto Roma, finiscono con l’essere il riflesso di una crescita irregolare e caotica, guidata in tempi successivi da esigenze eterogenee. La città si stratifica, si espande dove può, in momenti storici diversi. Il risultato è abbastanza dissimile da quanto potremmo aspettarci semplicemente proiettando su larga scala il modello classico di città poco sopra descritto.
In particolare il digradare dal centro verso le periferie è irregolare. La città produce, su scale diverse, grumi analoghi ad intere città anch’esse dotate di centro e periferie. Un modello di replicazione tipico delle entità matematiche note come frattali.
La definizione “microcittà” descrive quindi repliche su scala ridotta, spesso parziali ed incomplete, dell’organizzazione urbana di base, che possono presentare solo alcune delle caratteristiche di una città e, se incomplete, essere obbligate a far riferimento alle microcittà più prossime che ne siano dotate.
Lo studio del CRESME prova a mettere ordine in questa confusione di forme, funzioni ed identità definendo uno stadio intermedio di macroaree (dette “polarità”) che al di fuori del centro cittadino riproducono una forma urbis di sufficiente completezza.
In sostanza l’immagine che ne emerge non è quella di una singola entità, bensì di un grappolo (sic!) di città accatastate, le cui periferie fluiscono senza soluzione di continuità le une nelle altre, ed in cui urbanizzazioni non lontane dal centro assumono caratteri tipici di periferie, mentre altre più distanti possono assumere le caratteristiche proprie di città a sé stanti.
In maniera non dissimile il mio ragionamento si basava sull’analisi degli spazi percorribili a piedi in una passeggiata come “città percepita”. Tutto quello che si trovi oltre quello spazio finisce, per il cittadino, con l’appartenere ad un “altro” non necessariamente utile od interessante.
E il dato forse più clamoroso evidenziato dall’intero lavoro di CRESME riguarda la percezione che gli abitanti stessi hanno del proprio territorio. Emerge dalle interviste come i cittadini romani abbiano familiarità e frequentino abitualmente solo tre microcittà: quella dove abitano, quella dove lavorano e quella dove vanno a far spesa. Solo raramente si spostano al di fuori degli spazi noti.
Tutto ciò produce una madornale deformazione nella percezione che i romani hanno della propria “macrocittà”, dove le stesse funzioni, gli oggetti stessi, assumono connotati diversi di realtà in realtà, di luogo in luogo, generando un effetto Babele. Usiamo le stesse parole, la stessa lingua, per esprimere realtà diverse reciprocamente incomprensibili.
Quello che è “strada” in una microcittà può essere qualcosa di completamente diverso in un’altra, e lo stesso può valere per “piazza”, “marciapiede”, “parco”, “mercato”… così come le possibili fruizioni assumono connotati completamente diversi nella fruizione soggettiva, al punto da risultare di difficile od impossibile comprensione da parte di chi sperimenti un contesto microurbano affatto diverso.
Emerge quindi uno tra i principali problemi ad intervenire su una realtà così complessa: il frazionamento e la parzialità delle esperienze produce incomprensione perfino sulle situazioni che appaiono ovvie. Andare a disegnare una rete di percorsi per la mobilità ciclabile significa dover prima comprendere le singole microrealtà in cui si andrà ad intervenire, le loro specificità ed esigenze, quindi organizzarle ed integrarle con quelle delle realtà adiacenti.
Un lavoro di gran lunga meno banale di quanto potrebbe apparire ad una lettura più grossolana.