Liberare la musica

La rete Internet non cessa di stupirmi. Nata come un semplice sistema per far comunicare macchine di calcolo, nel corso dei decenni si è trasformata, oltre che nel ricettacolo del sapere dell’umanità, anche in uno spazio virtuale ed ubiquo per esperimenti sociali di varia natura, rielaborazioni delle dinamiche interpersonali ed esplorazione delle opportunità offerte da un medium istantaneo, sommamente democratico e alla portata di tutti.

Una delle questioni più strettamente collegate alla crescita esponenziale nella circolazione della conoscenza riguarda l’idea di "proprietà" della conoscenza stessa. Ovvero quanto e come chi produce conoscenza, o i suoi eventuali rappresentanti, ne possa condizionare l’utilizzo futuro, e quanto invece tale conoscenza non appartenga piuttosto alla collettività in seno alla quale si è prodotta e diffusa. Ne ho già discusso in un precedente post, ma segnalo anche questa lunga ed appassionata riflessione di Luca.

Esiste attualmente un grosso problema per quanto riguarda il mercato della musica, o meglio per come si è sviluppato negli scorsi decenni. Le case discografiche hanno sfruttato come meglio potevano l’incremento dell’ascolto musicale prodotto dalla diffusione dei riproduttori portatili (dall’autoradio, passando per i vecchi "walkman" a cassette fino agli attuali lettori MP3), finendo con l’acquisire un potere economico tale da consentirgli di condizionare pesantemente il mercato, promuovendo artisti e generi musicali di loro gradimento ed ignorandone altri.

Non è difficile comprendere le ragioni che orientano questo tipo di business: è molto più conveniente puntare su pochi artisti che vendono milioni di copie che su tanti piccoli musicisti che ne vendono ciascuno poche migliaia.

Ora siamo al paradosso che le leggi nate per difendere i diritti degli autori, dei musicisti in particolare, finiscono col tutelare una ristretta cerchia di "stars" dai fatturati miliardari e costringere nell’ombra dell’anonimato migliaia e migliaia di singoli artisti e piccole band che non hanno a disposizione i canali per farsi conoscere ed apprezzare.

Ora anche questa situazione sta lentamente cambiando. Come teorizzato già anni fa diversi musicisti e piccole band hanno compreso il vantaggio di diffondere in rete la propria musica gratuitamente, rilasciandola sotto una licenza "open" che consente agli ascoltatori di farne un uso libero da qualsiasi vincolo. La scommessa è quella di arrivare a contattare un pubblico di appassionati disperso ed altrimenti irraggiungibile, e di ottenere un ricavo economico dalla vendita di materiali musicali di maggior qualità, o maggiori possibilità di ingaggi per concerti, o una minima chance di accedere ad una cerchia di fans meno ristretta.

Il primo evidente e tangibile segno di questa possibile svolta lo evidenziava qualche giorno fa "Zeus News" segnalando un sito web di "Open Music" chiamato Jamendo, dal quale scaricare, ascoltare, apprezzare, contattare ed eventualmente finanziare artisti di mezzo mondo che si misurano coi generi musicali più disparati. Al momento in cui scrivo ci sono disponibili per l’ascolto ed il download più di 3000 album. Non saranno tutti delle meraviglie imperdibili, e probabilmente nella maggior parte dei casi apparterranno a generi musicali che ognuno di noi riterrà "poco entusiasmanti", ma in tutto questo bailamme di sicuro qualcosa di interessante ognuno/a di noi potrà trovarlo. Senza farsi imbottire le orecchie da quello che i responsabili marketing di qualche casa discografica avranno deciso che ci dovrebbe piacere.

Per dire, secondo me questi Bézèd’h non sono niente male!

 

La rinascita del Ciclopicnic

L’anno scorso, verso la metà di luglio, un tal Federico (che all’epoca neppure conoscevo) lanciò sulla mailing-list della Massa Critica Romana la proposta di un "Ciclopicnic". L’idea era di vedersi alle nove di sera, in bici, sulla terrazza del Pincio, e che ognuno/a portasse qualcosa da mangiare o da bere per dividerla con gli altri partecipanti. Spinto da curiosità ci andai anch’io. La dozzina di persone che si ritrovò lì poté verificare la genialità della sua intuizione. L’iniziativa venne perciò riproposta tutti i mercoledì sera fino all’autunno, quando i rigori del clima (soprattutto l’umidità serale) resero impraticabili i prati di Villa Borghese.

Dal gruppo di affezionati frequentatori è quindi nata una mailing-list, che è servita a darsi appuntamenti estemporanei per tutto l’inverno, sperimentare Ciclopicnic diurni in alcune domeniche, e dar vita ad iniziative consimili. Da domani si riprende con l’appuntamento serale.

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Cos’è che rende tanto affascinante il Ciclopicnic? È sempre difficile spiegare le cose troppo semplici. Penso che per comprenderlo occorra andare molto, molto indietro nel tempo, ripensare alle antiche tribù preistoriche quando la sera, dopo i lavori del giorno, la caccia o la raccolta di cibo, ci si ritrovava intorno ad un fuoco a passare insieme un momento piacevole nella condivisione di cibi e bevande. Riti antichissimi e quasi dimenticati, o trasformati fino ad essere ormai irriconoscibili.

C’è molto di questo nei Ciclopicnic. C’è la condivisione del cibo. C’è l’affinità elettiva determinata dall’usare la bicicletta, che ci fa condividere idee, sensibilità, esperienze e rischi che solo altri ciclisti possono comprendere. E questo, in qualche modo, fa di noi una tribù.

Una tribù urbana dispersa che periodicamente si ritrova intorno ad un immaginario fuoco, a raccontarsi storie, vicende, eventi, racconti di viaggi. Ad elaborare il presente ed immaginare il futuro, organizzarsi, progettare. Perché il mondo là fuori è stupido e ostile, ed è importante sapere di non essere soli ad affrontarlo.

Dell'ignorare di ignorare

Vi segnalo questo post di Stefano Gerosa sul libro di Marco Travaglio "La scomparsa delle notizie". Non sfugge il nesso con la recentissima legge prodotta dall’infaticabile ministro Mastella, già ideatore dell’indulto che l’anno scorso segnò un ulteriore passo indietro nell’efficacia della già zoppicante giustizia italiana.

E nel leggere il post mi sovviene il ricordo di un rientro in treno da Monaco di Baviera, nel 2002. Discutevo dei problemi del nostro paese con una ragazza tedesca (di Dresda, ex DDR…) decisa a stabilirsi in Italia. Volevo farmi un’idea di come fosse la nostra società vista "da fuori", il governo Belusconi, il conflitto d’interessi e tutto il resto…

"Voi non vi rendete conto", mi disse tra le altre cose, "di quanto siano scadenti i vostri programmi televisivi: l’informazione è ridicola, la cultura inesistente. Solo spettacolo e tv-spazzatura". Parole durissime, pronunciate però senza astio, quasi con commiserazione. Questo mi spaventò, e mi spaventa tutt’ora: il "non rendersi conto". Perché da tutto ci si può difendere, tranne che dall’ignoranza.

Il nostro è un paese che, anziché uscire nel dopoguerra da una condizione di semi-analfabetismo e sudditanza al potere, ha seguito un percorso assolutamente indolore che l’ha portato ad elaborare  forme diverse di ignoranza e sudditanza, ancora più pericolose in quanto inconsapevoli.

Il contadino degli anni ’50, conscio dei propri limiti, poteva nutrire speranze di riscatto, quantomeno per i propri figli. L’attuale "middle class" è invece convinta di avere tutti gli strumenti necessari per tenersi al corrente di ciò che accade e farsi un’opinione, mentre vive semplicemente avvolta in una "nebbia mediatica" costruita ad arte.

Nel frattempo l’Italia del terzo millennio viene ad assomigliare sempre più alla Napoli dei Borboni. Un paese in declino morale, culturale, etico, che gli attuali governanti si preoccupano solo di spolpare in fretta, ben sapendo che prima o poi la resa dei conti verrà e sarà salatissima.

I bambini veri in TV

Mi ha incuriosito, ieri sera, seguire su LA7 un "format casereccio" come "S.O.S. TATA", una sorta di documentario/reality in cui famiglie che hanno problemi con l’educazione dei bambini vengono affiancate da esperte psicologhe "camuffate" da governanti. Come in altri casi (l’anno scorso era "Cambio moglie") il "format" è abbastanza fisso, le vicende narrate procedono in una sequenza predeterminata ed un po’ rigida: per due giorni la "tata" osserva la famiglia e prende appunti, poi entra in gioco mettendo i genitori di fronte ai propri errori, quindi ridefinisce nuove "regole" e cerca di "raddrizzare" la situazione.

Al di là dei limiti del format, che sono comunque tanti, va dato atto l’essere uno dei pochi casi in cui la televisione assolve ad una reale funzione "di servizio", riuscendo a coniugare l’intrattenimento con l’educazione, e finendo con l’insegnare qualcosa a tutti, anche a chi figli (ancora) non ne ha.

A me, per esempio, ha fatto riflettere sulla fragilità di quella che da più parti si pretende sia "il fondamento della società", ovvero la famiglia. Si vedono bambini viziati, segregati in casa, male educati, e dall’altra parte genitori impreparati, iperprotettivi, pasticcioni, incapaci di imporsi come pure di stabilire canali comunicativi "sani" coi propri figli. Se la famiglia davvero fosse "il fondamento della società" penserei che la società tutta dovrebbe prendersene maggiore cura, istruire i futuri genitori, educarli, prepararli, seguirli, aiutarli ad allevare una "seconda generazione" più sana, matura, equilibrata.

Invece sembriamo fare l’esatto opposto: il "fondamento della società" è pressoché abbandonato a sé stesso, sfruttato, privato di servizi decenti (asili, scuole) e ricattato economicamente al punto che il nostro è un paese in cui aver figli è diventato un lusso (contemporaneamente "sfiorava" quest’altro problema anche Ballarò, su Rai3).

Sarà che sono in un’età in cui una famiglia dovrei già averla (e se non ci sono arrivato è anche in parte colpa mia…), sarà che vedo quelle dei miei amici e coetanei alle prese coi problemi più disparati, fatto sta che se governassi questo paese metterei in cima alla lista delle "cose da fare urgentemente" il riassetto del sistema educativo e dei sostegni "concreti" alle famiglie. Se continueremo ad assecondare i nostri egoismi e le nostre pigrizie, e non investiremo prima di tutto nei bambini ci aspetta, temo, un futuro molto triste.

L'Orchestra del Mondo

L’arte, tutta l’arte, è testimonianza di una tensione umana verso "l’ideale", inteso come qualcosa che trascende l’umano. Alcune forme d’arte, quelle figurative, lavorano sulla sua rappresentazione, altre, che definiremo "performative", sulla sua incarnazione.

Su quanto sia difficile dar carne e corpo ad un’idea astratta penso tutti possiamo concordare, sia che ciò avvenga per mezzo della musica o del canto, della danza o del teatro. Ne è riprova quanto sia raro sperimentare, nella vita quotidiana o nella frequentazione di "ambienti artistici", eventi capaci di produrre un reale trasporto emotivo. Eppure, quando si è fortunati, accade di trovarsi al cospetto di momenti di "vera magia", e di avere consapevolezza della loro importanza tanto quanto dell’altrettanto estrema fugacità.

Venerdì scorso, spinto dalla curiosità ma senza molta convinzione, mi sono ritrovato al Parco degli Acquedotti per un concerto dell’Orchestra di Piazza Vittorio, formazione di cui non sapevo pressoché nulla, tranne appunto l’essere stata protagonista di un film pochi mesi addietro ed essere composta in larga parte da musicisti provenienti da paesi poveri.

Con queste premesse le mie aspettative non erano di certo altissime, ero pronto ad accontentarmi di un onesto concerto di musiche tradizionali come se ne sentono tanti, con una discreta magnanima tolleranza nei confronti di possibili errori di esecuzione. Sbagliavo. Oh, quanto sbagliavo!

La prima cosa che mi ha colpito, prima ancora che iniziassero a suonare, è stato vedere come i musicisti iniziavano a disporsi sul palco e a provare gli strumenti: ridendo. Ridevano di gusto, del piacere di essere lì per suonare in quella che sapevano (loro, non io, non ancora) sarebbe stata una serata di Grande Musica.

Facce e strumenti provenienti dai quattro angoli del mondo: Africa, Europa, Sud America, Paesi Arabi, e percussioni, fiati, archi, strumenti tradizionali, acustici, elettrici… come faranno, mi chiedevo, a suonare questa roba tutta insieme, tutti insieme? E cosa suoneranno?

Poi hanno iniziato, lentamente, entrando uno alla volta, uscendo, suonando insieme, da soli all’unisono, in controtempo, voci, corde, percussioni, fiati, arpe africane, chitarre arabe. Un ensemble di musicisti e musiciste tutti bravissimi, rigorosi ed emozionali, unici nelle rispettive diversità ed insuperabili negli incastri, nelle alternanze di ritmi, di stili, di tecniche.

E la musica che ne è uscita fuori è stata davvero inclassificabile, era come ascoltare tutti i suoni del mondo, tutte le tradizioni mai veramente scomparse, tutte le danze mai ballate, tutti i ritmi mai ascoltati, in una fusione perfetta. Grandi. Grandi davvero.

Infine è questo l’ideale che l’Orchestra di Piazza Vittorio oggi incarna, quello di un mondo di persone diversissime in grado di vivere in pace, collaborare, creare qualcosa che sia la summa di tutto quello che di bello l’umanità sia stata fin qui in grado di elaborare. E di questo non li ringrazieremo mai abbastanza.

Consentitemi un piccolo moto di orgoglio al pensiero che un’esperienza del genere, credo unica a livello mondiale, sia nata proprio qui a Roma, una città, la mia città, che oggi vuole essere la città di tutti.

Per concludere un piccolo estratto della loro bravura, almeno un’idea, dato che la resa sonora della registrazione è solo una pallida ombra di quello che sono stati in grado di fare dal vivo. Se suoneranno dalle vostre parti… siateci!

Un Cechov ottimista

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Dovendo allestire nei prossimi mesi un estratto dal "Giardino dei Ciliegi", ed avendolo in scena a Roma in questi giorni, ci siamo organizzati per andarlo a vedere. Lungo la strada si ragionava sul fatto che, avendo letto il testo, non sarebbe stata una "prima assoluta", ma piuttosto avremmo rischiato di passare tutto il tempo confrontando quello che vedevamo con l’idea che ce ne eravamo fatti. E così è stato.

Il "Giardino" messo in scena al Teatro Vascello è in fondo un buon spettacolo, su Manuela Kustermann sospendo il giudizio (il suo personaggio è a tal punto diverso da quello descritto da Cechov da non poter stabilire se è lei, come attrice, ad essersi calata nel personaggio o il personaggio ad essere stato cucito addosso a lei), tuttavia non sono riuscito ad apprezzare la chiave registica adottata: tutto la rappresentazione mi è parsa troppo veloce, accelerata, a tratti affrettata. Certo, di base è un lavoro lungo, quattro atti da più di mezz’ora l’uno che qui sono diventati due da cinquanta minuti. Sicuramente si è cercato di non "appesantire" troppo il pubblico, scivolando a volte nell’eccesso opposto.

Al di là della lunghezza c’è infatti il pessimismo. Il "Giardino" ci mostra una galleria di personaggi inadatti e disperati, il declino della proprietà terriera e l’avvento di una nuova borghesia ricca ed ignorante, la disperazione insita nel non riuscire, nonostante tutti gli sforzi, a far combaciare i propri desideri, anche legittimi ed onesti, con la realtà, fino al disastroso epilogo. Nessuno dei personaggi è in sé cattivo, ma tutti hanno vizi, pigrizie, tare caratteriali ed emotive tali da pregiudicare l’esito di ogni possibile slancio positivo. Un’umanità prigioniera delle proprie debolezze e dei propri limiti, condannata a mandare in rovina ogni cosa nonostante le buone intenzioni.

Nell’allestimento attualmente in scena al Vascello buona parte di questo manca o non arriva. Così un personaggio come Trofimov trova nei suoi slanci ideali un’energia tale da travalicare il proprio fallimento come studente. Finisce con l’apparire plausibile che Leonid avrà il suo lavoro in banca e che gli altri si sistemeranno a Mosca dalla zia. Perfino nell’estremo finale viene omessa la morte del vecchio maggiordomo Firs. Una lettura quasi "ottimista" di Cechov abbastanza tirata per i capelli ed a mio parere poco fedele all’intenzione originaria.

Si può scegliere di usare un testo per proiettarvi le proprie speranze, i propri sogni e desideri, fino a caricarlo di valenze diverse, ma continuo a pensare che sia una forzatura, e che sarebbe preferibile lavorare piuttosto ad un’idea originale anziché "decostruire" un classico.

Discutendone all’uscita mi sono ritrovato d’accordo con Gianluca, che affermava: "se vado a sentire un concerto di Beethoven il direttore d’orchestra mi deve far ascoltare Beethoven, non può suonarmelo al doppio della velocità trasformandolo in una marcetta, può essere interessante ma non è più Beethoven, è un’altra cosa". Lo stesso vale per Cechov.

Sterile monologo o soverchiante logorrea?

Mentre su Mantellini.it si sviluppa il dibattito sull’anonimato nei commenti, sull’averli abilitati o meno (p.e.: Luca Sofri non li ha), aperti o censurati, io mi domando amaramente che differenza possa fare per me, dal momento che qui i commenti dei lettori sono più rari delle mosche albine.

Nei giorni scorsi riconsideravo lo slancio ottimista, o dovrei dire la sconsideratezza, che mi spinse a sottotitolare questo Blog: "Schegge di Pensiero Liberate ad un Dialogo col Mondo". Ho anche pensato di cambiarla. Ad esempio potrei mettere, al posto di "…Liberate…", "…Abbandonate ad uno Sterile Monologo col Mondo", oppure "…Pubblicate nell’Illusione che Potessero Interessare a Qualcuno/a". Robe di questo tipo.

Intendiamoci, non ho iniziato questo blog per far contento qualcuno/a, non inserisco post "a richiesta", non è un "servizio sociale". Dovrei ringraziare quelli/e che mi leggono per il semplice fatto che spendono il loro tempo a farlo, e di questo sono perfettamente consapevole. Ma poi chi sono quelli/e che mi leggono? Perché lo fanno (se lo fanno)? Cosa ne ricavano?

Il contatore che ho inserito nella pagina mi segnala in media una quarantina di "visitatori" al giorno. Dato sicuramente lusinghiero se potessi credere che è tutta gente che viene per leggere quello che ho scritto.

Basta scavare un po’ nelle statistiche per scoprire, ad esempio, che parecchi arrivano da motori di ricerca. C’è perfino stato uno/a che ci è arrivato via Google inserendo come stringa di ricerca "Lee Van Cliff"(!). Chi sarà l’ignoto/a viandante della rete che cercando Lee Van Cliff è approdato/a su MammiferoBipede? Cos’avrà pensato degli sproloqui quotidiani che ci ha trovato sopra? Avrà letto qualcosa oppure, resosi conto che Van Cliff veniva solo evocato all’interno di una cronaca del Càmino de Santiago, sarà scappato/a a gambe levate?

Ma soprattutto quanti/e di quei (circa) quaranta contatti al giorno sono veramente interessati a quello che vado scrivendo? Posso immaginare senza fatica una corposa parte di quei "mitici quaranta" atterrare sul Mammifero, intonare un bel "Macheccefrèga, macheccé’mporta!" e detto fatto "cliccarsi via", in qualche altrove "on the net" più interessante

Al punto da domandarmi se davvero ho dei lettori affezionati, che quotidianamente si sorbiscono i miei discorsi sconclusionati su mille e mille argomenti reciprocamente incongruenti, o piuttosto questo blog non ospiti un viavai di visitatori casuali prevalentemente scontenti di quello che ci trovano.

Ed ora, ammesso che tu, lettore o lettrice faticosamente arrivato/a in fondo a questo noiosissimo ed autoreferenziale post, non stia già pensando al prossimo "click" che da qui ti porti via di corsa verso altri siti più allettanti, ti andrebbe di spendere due minuti per inserire un commento per rispondere ad una semplice domanda?

Quanta parte del tempo passato a leggere i miei post consideri completamente sprecata, e quanta no?

Il Mammifero, riconoscente, ringrazia.

L'imperatore del paradosso

Image Hosted by ImageShack.usPaul Di Filippo rappresenta un’anomalia nel panorama fantascientifico mondiale. È innanzitutto autore geniale, di quelli che ti restano impressi alla prima lettura, ma soprattutto un narratore controcorrente che, per dirne una, scrive racconti e non romanzi. In un mercato dominato da tomi enormi e saghe interminabili, molto spesso destinati a sprofondare il lettore in una noia mortale, un’antologia di racconti brevi e brillanti sui temi più svariati rappresenta una boccata d’aria fresca.

Detto questo, però, bisogna aggiungere che di questo enorme talento Di Filippo fa un uso non sempre condivisibile. Alterna temi, stili, citazioni, dimostrando una versatilità caleidoscopica, ma quasi mai si spinge oltre una rutilante fantasmagoria per scavare veramente nelle profondità dell’animo umano. Questo è il suo limite, l’accontentarsi, in un compiaciuto divertimento, di irridere e mettere alla berlina l’assurdità del mondo moderno e di quello antico, di scimmiottare fino alla parodia i luoghi comuni, letterari e non, di demolire con una irriverente ed irresistibile prosa iconoclasta ogni tematica sfiorata.

Eppure, sotto la superficie, la profondità si intravede in frasi che sembrano buttate là quasi a caso: qui un accenno all’imperialismo culturale americano, là una riflessione amara sul micromondo degli appassionati di fantascienza, più oltre una sottolineatura sull’ossessione dei governi per il controllo, maniacale quanto inutile, sui cittadini. Ma oltre non si va, ed è un peccato.

Spunti originali, chiavi di lettura che si presterebbero ad un’analisi veramente critica dell’esistente, vengono sparsi ovunque senza fare lo sforzo di portarli a compimento, quasi in un tirarsi indietro dall’osare troppo. Forse nel timore di scontentare, ancor più che i lettori, gli editori, veri "guardiani" di cosa viene pubblicato e cosa no.

(n.b.: qui un’altra recensione)

Le radici morenti

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(photo by Emanuela Finelli)

Rivedere Pianello mi fa sempre uno strano effetto. Da quando, bambini, nostra madre portava su me e mia sorella per trascorrerci le vacanze, ospiti nella casa dei nonni, via via passando per l’adolescenza, e adesso con l’età adulta, non è mancato anno che non vi tornassi. Ogni volta misuravo cambiamenti piccoli e grandi, su su per gli anni ’70, gli ’80, i ’90, ed ora questi che nemmeno hanno un nome… Si dice che l’amore renda ciechi, e probabilmente è così perché fino a ieri non mi ero mai pienamente reso conto del costante ed inarrestabile declino di questo piccolo borgo, in gran parte ormai fantasma.

I miei ricordi più lontani parlano di un mondo contadino, arcaico, in cui ancora si allevavano bovini, galline, maiali, conigli, piccioni… Mio nonno coltivava i campi, aveva due vacche, Biò e Boné, che attaccava ad un carro, un "biroccio", per trasportare il fieno, il grano, ed infine i sacchi di farina. Mia nonna badava alle galline, ai conigli, ai maiali, coltivava l’orto e raccoglieva la frutta, cucinava.

Tutto questo operoso mondo contadino ad un certo punto ha cominciato ad andare in crisi, possiamo dire intorno agli anni ’60, con l’avvento dell’agricoltura meccanizzata. Per un po’ si è continuato a coltivare quei campi piccoli, in posizioni svantaggiate, poi ci si è resi conto che il gioco non valeva più la candela, che i magri raccolti non rendevano a sufficienza. Nel frattempo molti giovani, come i miei genitori, già dal dopoguerra erano andati via in cerca di lavori più redditizi. Da principio il "baby boom" dei primi anni ’60 compensò l’esodo con un maggior numero di nascite, e i ragazzi che non lavoravano troppo lontano tornavano dai genitori nei fine settimana, gli altri riapparivano d’estate, portando i figli con sé.

Ma la generazione dei "baby boomers" non tornò mai a stabilirsi lì, e col tempo anche i figli di quelli che erano rimasti, crescendo, non trovarono lavoro e se ne andarono. Solo i vecchi rimasero, e piano piano anche loro cominciarono ad andarsene, nell’unico luogo dove potevano ancora andare.

Oggi Pianello mostra al visitatore un volto rifatto. Le case antiche sono state restaurate e ristrutturate, rispettandone l’antico aspetto e vocazione. Portoncini antichi, tarlati e sconnessi sono stati sostituiti da altri nuovi, finestre di legno dai vetri sottili e piene di spifferi hanno lasciato il passo ad infissi rivestiti ed a vetri doppi, si sono ricavati bagni, termosifoni, mansarde, in spazi per anni abbandonati e malandati. Dall’esterno tutto sembra più ricco ed agiato di quanto non sia mai stato prima.

Ma è solo una maschera esteriore. Quelle mura antiche sono, per la maggior parte del tempo, vuote e disabitate. Le montagne circostanti sono costellate di vecchie case coloniche in rovina, e durante il freddo inverno i pochi superstiti sono lasciati da soli, a seppellire i propri morti.

E io mi domando se davvero sia un destino ineluttabile di questa maledetta modernità, che da un lato ci seduce con ozi ed agi, e dall’altro ruba dalle nostre anime ogni cosa che ha un valore.