Gobba? Quale gobba?

frankenstein-junior

Nel film Frankenstein Junior di Mel Brooks, tra le centinaia di gag, ce n’è una che viene ricordata più spesso di tante altre. Nel momento dell’incontro tra il giovane Frankenstein ed il deforme Igor, il primo suggerisce al secondo: “Sono un chirurgo famoso, potrei aiutarti con quella gobba…”, al che il secondo, come se ne avesse sentito parlare per la prima volta, risponde: “Gobba? Quale Gobba???”

Comincio a percepire lo stesso problema quando mi trovo a discutere di mortalità stradale al di fuori delle persone e degli spazi (che ora fa molto chic definire ‘echo chamber’) coi quali mi confronto quotidianamente. Se parlo di incidentalità, di sinistri, di morti e feriti, l’espressione dei miei interlocutori assume ben presto quella fisionomia da pesce lesso che tutti conosciamo. “Morti e feriti? Quali morti e feriti???”

Chiunque abbia un’infarinatura di psicologia potrà a questo punto suggerire che le informazioni di natura generale non sedimentano nel sentire comune, e vengono facilmente dimenticate. Miglior sorte hanno quegli eventi particolarmente drammatici e violenti da riempire le pagine di cronaca per giorni e giorni, come l’uccisione di due ragazze, avvenuta lo scorso dicembre.

Ma è una consapevolezza di breve respiro, che non viene inquadrata in un contesto più ampio ed è rapidamente riassorbita dalla normalità. Normalità che è ben riassunta nell’infografica riportata qui sotto, realizzata a partire dagli Open Data del Comune di Roma, con tecniche analoghe a quelle utilizzate nell’analisi dei dati ECC.

Pedoni2014-2018

La mappa illustra tutti gli investimenti di pedoni registrati dalla Polizia di Roma Capitale dal 2014 al 2018 (compresi), ed è sufficiente un colpo d’occhio per rendersi conto che in questa città non ci sono luoghi sicuri. Alcune strade presentano un’incidentalità inferiore ad altre ma ciò è dovuto o ad una scarsa frequentazione pedonale, o ad una ridotta necessità di attraversare la strada, ad esempio perché non sono presenti ‘attrattori’ su nessuno dei due lati.

Nel solo 2018, nell’area compresa all’interno del GRA, sono stati registrati oltre tremila investimenti di pedoni, ad una media giornaliera di oltre otto ‘incidenti’. In una città dove si investono otto persone al giorno, l’esito mortale è inevitabile. Nel 2018 sono stati 59 i pedoni uccisi sulle strade di Roma, quasi un decimo di quelli uccisi in tutta Italia. Circa il doppio della media nazionale, se rapportati al numero di abitanti.

Ecco, questa è la ‘gobba’, questo è il disastro. Ma la maggior parte delle persone non è in grado di vederlo, così come Igor non vede la propria deformità. Per i più, il quadro descritto è semplicemente la normalità. Sul motivo di questa mancata percezione mi sono fatto un’idea abbastanza precisa: la normalità è quello che viene comunicato come ‘normale’.

Quotidianamente apriamo i giornali, o internet, o accendiamo la televisione, e ci viene raccontato un mondo di fantasia dove tutti circolano in automobile, dove le automobili sono gli oggetti più desiderati da tutti, la chiave per accedere a tutto quello che possiamo desiderare, dai luoghi di vacanza allo status sociale.

Questa ‘normalità’ fittizia, continuamente, incessantemente, insistentemente ribadita, ottiene l’effetto di rimuovere dalla psiche collettiva il dolore, la tragedia, il dramma di vite distrutte e perdute, come pure l’esigenza di porre un argine a questo disastro.

E per chi si domandasse se il problema è di chi cerca di sollevare la questione, se stiamo ‘comunicando male’, la risposta è no, non stiamo comunicando male. Stiamo, al limite, comunicando poco, perché poche sono le risorse che abbiamo a disposizione.

Chi sta ‘comunicando male’ sono, semmai, quelli che le risorse le hanno, e le investono in una narrazione falsa ed opportunista. Quelli che nascondono i drammi causati dal trasporto privato dietro una cortina di fumo fatta di immagini edulcorate, suggestioni seducenti e verità rimosse. E che, così facendo, si riempono le tasche di denaro sporco di sangue innocente.

Dobbiamo riuscire a mettere in discussione la normalità. Perché non è una realtà privilegiata, ma semplicemente quella che ci hanno costretto a subire.
E che paghiamo in prima persona, con le nostre tasche e le nostre vite.

Per una Dichiarazione Universale dei Doveri dell’Uomo

(conclusione di una riflessione in più parti intitolata ‘la questione ambientale’)

Dopo aver lungamente ragionato le problematiche generate dall’apparizione della specie umana sul pianeta, appare evidente la difficoltà di porre un freno a quanto fatto fin qui, ed ancor di più di arrivare ad invertire la rotta. Una rotta che ci sta portando dritti verso la catastrofe.

Difficile perché si rende necessario un radicale ripensamento in quello che è stato dato per buono fin qui, ovvero il cosiddetto ‘Pregiudizio Antropocentrico’, con tutti i suoi portati. Da dove iniziare, dunque?

Un’idea mi è venuta tempo addietro, leggendo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, un documento discusso ed approvato dalle Nazioni Unite (e tuttavia ancora non  completamente ratificato da diversi stati). “È possibile che esistano solo diritti?”, mi sono domandato. Evidentemente no.

Una delle lezioni di vita che impariamo da piccoli recita che “la libertà di un individuo finisce dove comincia quella di un altro”. Che è un po’ la filosofia che ispira anche l’idea dei ‘Diritti dell’Uomo’: esistono libertà che non possono essere negate a nessuno, e che le organizzazioni umane sono obbligate a tutelare. Libertà di parola, libertà di espressione, diritto alla vita ed alla sicurezza, tra gli altri.

Estendere questi diritti alle altre specie viventi appare, almeno al momento, utopico. Quello che si può fare è provare ad estendere il ragionamento all’umanità futura, ai nostri figli e nipoti. Se una generazione distrugge tutto l’esistente, cosa resterà a quelle che verranno dopo?

Non hanno forse diritto, gli uomini e le donne del futuro, ad un pianeta bello e ricco, di vita e biodiversità, come quello che hanno ricevuto in eredità le generazioni precedenti? Che diritto ha, l’attuale generazione, di cancellare la ricchezza di habitat naturali, la diversità di forme di vita, la varietà del mondo, in ossequio ai dettati della propria egoistica fame consumista? Nessuno.

Se cominciamo col riconoscere questi diritti alle future generazioni, ne scaturiscono necessariamente una serie di doveri, sia per l’attuale che per quelle che seguiranno. Mi limiterò ad un elenco breve e non esaustivo.

  • Dovere di preservare gli habitat naturali ancora intatti

  • Dovere di ridurre, fino ad eliminare del tutto, l’inquinamento ambientale

  • Dovere di ridurre, fino a livelli sostenibili, la cattura, l’abbattimento ed il consumo di specie selvatiche (a cominciare dalla pesca industriale)

  • Dovere di ridurre il consumo di risorse non rinnovabili

  • Dovere di stabilizzare, ed in ultima istanza ridurre numericamente (con modalità incruente), la popolazione umana

Un tale documento, che nella sua forma definitiva potrà benissimo intitolarsi ‘Dichiarazione Universale dei Doveri dell’Uomo’, dovrà essere approvato dall’ONU, ed i paesi firmatari dovranno impegnarsi ad attuare le politiche necessarie alla soddisfazione dei punti in esso elencati.

È utopico immaginare che tutto ciò potrà mai accadere? Non lo so. L’attuale momento storico va in direzione totalmente opposta, ma sono esistite, in passato, culture umane che hanno dovuto adottare, metabolizzandole nella propria cultura, forme di rispetto dell’ambiente non dissimili da quelle suindicate (principalmente a causa dei limiti imposti loro dalla situazione contingente, va detto).

I nativi americani, quando uccidevano un animale per nutrirsene, chiedevano perdono al suo spirito. Magari anche noi, che ci riteniamo (a torto) molto più civili ed evoluti di loro, possiamo sviluppare un rapporto rispettoso con la natura, senza necessariamente arrivare al punto di estinguerci per aver consumato tutto il consumabile. Questa volta voglio provare ad essere ottimista.

Edward S. Curtis - At the water's edge