Due domeniche fa si è tenuta a Roma l’ennesima manifestazione per la sicurezza dei ciclisti sulle strade. A differenza di tutte le altre che l’hanno preceduta, questa volta il grosso della rappresentanza era formato da ciclisti sportivi, colpiti dalla morte di Domenico Calabrò, falciato da un automobilista mentre con la sua bici da corsa effettuava una sessione mattutina di allenamento sul “circuito” di Tor Vergata.
Per quanto ritenga importante il coinvolgimento del mondo ciclosportivo, le priorità che animano quell’ambiente sono di fatto diverse da quelle rappresentate dal movimento #salvaiciclisti. Lungi da me mettere in discussione il diritto di chiunque a percorrere le strade in sicurezza, ritengo tuttavia che la priorità negli interventi vada data a quelle sistemazioni che consentano ai cittadini di spostarsi “per necessità” in bicicletta, ben prima di quelle legate allo svago o alle esigenze atletiche.
L’esigenza manifestata dai ciclisti sportivi è infatti quella di poter disporre di circuiti “di allenamento”, dove effettuare in sicurezza sessioni di preparazione alle gare. Circuiti caratterizzati da una sede stradale asfaltata di larghezza non inferiore a tre metri e mezzo (come da specifiche della federazione internazionale)… in pratica dei velodromi a cielo aperto, possibilmente dotati di parcheggi per poter lasciare l’auto a bordo della quale si è giunti trasportando, al sicuro, l’amata e costosa “ultraleggera”.
Al di là della mia insofferenza per l’agonismo e le competizioni, l’idea di una città ancora oggi priva delle infrastrutture minime atte a garantire gli spostamenti quotidiani in bicicletta che finisca ad investire soldi ed energie per strutture dedicate allo svago ed al “fitness” non sta né in cielo né in terra. La mia idea è quella di una città fruibile in sicurezza da tutti, indipendentemente dal veicolo che scelgano di utilizzare. Se mi va di correre con la bici da strada (ogni tanto vien voglia anche a me) salgo su un treno e raggiungo l’Abruzzo, dove oltre alle strade deserte trovo ben altri paesaggi.
L’esigenza di rappresentare istanze non coincidenti con lo spirito della giornata ha preso la forma di un mascheramento. Ho tirato fuori dall’armadio una tunica bianca con pantaloni larghi, regalatami da un amico al ritorno dall’india, un cappello ricamato riportato dal Marocco, ho inforcato un paio di occhialoni da sole ed in sella alla mia pieghevole mi sono unito al corteo a piazza San Giovanni.
L’intenzione era dar corpo e voce a tutti quegli immigrati che non trovano spazio nell’immaginario collettivo. Lavoratori dell’India o del Bangladesh che ritornano a casa nottetempo in sella a biciclette malandate, percorrendo senza luci strade ad alto traffico, e finendo troppo spesso uccisi. Persone che si spezzano la schiena per un tozzo di pane, sfruttati da mafie di ogni tipo, che terminano la loro esistenza con un breve trafiletto anonimo nelle pagine di cronaca dei giornali locali.
Onestamente non so quanto questo mio tentativo di incarnare la “cattiva coscienza” della nostra società sia riuscito. Di certo un “arabo” sulla bici pieghevole in mezzo ad un migliaio di ciclisti sportivi in lycra su bici da tremila euro qualche perplessità deve averla suscitata, ma da lì ad innescare un ragionamento sul perché di questa “presenza” indubbiamente ce ne corre.
Forse un piccolo “goal” è stato il fatto di finire sulle gallery dei principali quotidiani romani, Repubblica e Il Messaggero, diventando una presenza incongrua sulla quale i lettori potessero interrogarsi. Qualcosa di simile, in fondo, agli esperimenti di “interferenza culturale” descritti da Naomi Klein nel saggio “No Logo”, attraverso i quali in Nord America i movimenti dal basso tentano di opporsi al controllo culturale esercitato dalle grandi corporations attraverso la pubblicità.
Alla fine, tuttavia, ancor più dell’aspetto pubblico, vestire i panni “dell’altro” mi ha aperto sprazzi di lucida comprensione nella sfera privata, quando mi sono ritrovato a pedalare da solo per una città che ho sentito improvvisamente indifferente, se non ostile. Non è la prima volta che vesto i panni di minoranze povere, ed è sconcertante verificare, ogni volta, come le persone cambino l’approccio verso di te in base a quello che ritengono tu sia, in base agli abiti che indossi.
È una sorta di piccolo esperimento sociologico, misurare la reazione degli sconosciuti, e i risultati non sono quelli che ti aspetti, perché puoi toccare con mano pregiudizi e preclusioni mentali direttamente sulla tua pelle. Anche senza un’interazione diretta bastano gli sguardi, o il linguaggio del corpo, a trasmetterti l’ostilità degli altri.
Penso di averci messo un po’ a realizzare di non aver mai visto un ciclista arabo, o vestito da arabo, in questa città, e di rappresentare un unicum. Ho raccolto molti sguardi sospetti da parte dei romani, e per contro qualche sorriso e gesti di saluto da parte di venditori ambulanti, probabilmente originari del Nord Africa. Persone che vivono ai margini di questa nostra società che ho scoperto, mio malgrado, essere molto meno aperta alla diversità di quanto pensassi.