Commentando Zoro

[Diego Bianchi, in arte "Zoro", è un blogger recentemente cooptato nel progetto "i Mille" del PD. Sarcastico ed irriverente ha da poco accettato di dar vita ad un altro blog sul portale della tv LA7. Qui è comparso recentemente il post "Talenti sul Titanic", in cui vengono esposte alcune sconfortanti considerazioni sull’invecchiamento della classe politica (italiana in generale, e quella del PD in particolare) e le difficoltà del provare a portare avanti un rinnovamento. Nei circa 30 commenti che compaiono attualmente in coda al suddetto post ce n’è anche uno del sottoscritto. Siccome non amo scrivere di politica (soprattutto di politica italiana) riciclo il commento qui come un post a sé stante, dal momento che tratteggia, con una certa sintesi ed efficacia, il mio pensiero al riguardo]

Diego, andiamo…
Ma come si può "vincere democraticamente" contro avversari in grado di controllare e condizionare l’immaginario collettivo in maniera così pesante? Berlusconi ha tre canali televisivi personali che ormai da un quarto di secolo creano mode e definiscono i gusti della gente, e quello che la gente pensa. Le restanti tre reti statali sono asservite alle esigenze del mercato pubblicitario, e quel che resta di controllo sul pensiero collettivo è appannaggio della chiesa. Pensi che un paio di giornali "di sinistra", che tirano si e no qualche centinaio di migliaia di copie, possano reggere il confronto?

Come minimo ti costringeranno ad una perenne rincorsa (mica erano stupidi, Gelli e la P2). E infatti il "progetto" PD, per come la vedo io, non è in nulla davvero alternativo al centrodestra. Culturalmente parlando è appiattito sugli stessi valori (il mercato e la mercificazione in testa) e fa riferimento in buona misura allo stesso elettorato: un presunto "centro" che in qualunque altro paese verrebbe bollato come una "destra moderata".

A sinistra c’è il vuoto pneumatico. I Verdi sono in mano ad una borghesia "vippara" senza progettualità e senza appeal. I "post comunisti" cercano di traghettare un’idea pensata in altri tempi (e soprattutto "per" altri tempi) attraverso un’epoca di irragionevole abbondanza che ne annulla le valenze pratiche.

Gli elettori hanno punito il PD ed i suoi alleati perché si sono limitati a riproporre la stessa "minestra riscaldata" che ci hanno propinato in due anni di governo Prodi. Ed anche dopo le elezioni la musica non cambia.
Questi signori hanno passato tanto di quel tempo a far la muffa nei palazzi che ormai non hanno neppure più idea di cosa sia "far politica" nel concreto, la cosa che più assimilano al concetto di "ritrovare il contatto con la gente" sono i dibattiti e le salsicce. I "giovani", ammesso che ancora si possa dire per dei quarantenni (come me), si stanno lasciando inscatolare nello stesso meccanismo, scadente e perdente, che ci ha portato a questa situazione.

E d’altro canto, un paese che si è lasciato rimbambire da strass e ballerine, auto da corsa e calciatori di palloni, consumismo e "fashion", non merita poi molto di più.

(beh, almeno adesso avete ben chiaro perché non ami scrivere di politica…)

La grande corsa delle macchine a vapore

Ho da poco concluso la lettura di "La macchina della realtà", steampunk d’annata (1991) scritto a quattro mani dai due inventori del più noto genere "cyberpunk": William Gibson e Bruce Sterling.

Gibson e Sterling tentano qui una sorta di "doppio salto mortale", ambientando le familiari tematiche legate ai computer ed al mondo degli hackers, proprie del cyberpunk, in un passato ucronico in cui Charles Babbage è riuscito nel suo intento di costruire un calcolatore meccanico (a vapore!) in piena età vittoriana.

Il risultato finale rimane affascinante, anche se abbastanza confuso. La struttura ad episodi parzialmente slegati non aiuta il lettore, sopraffatto dalle molte vicende parallele che si intersecano in un affresco volutamente parziale ed incompleto. Su tutto prevale la cupa ombra di un futuro nato forse con troppo anticipo.

Ma anche con tutti i difetti ed i limiti dell’opera nel suo complesso, alcune parti brillano di luce propria. E forse per affinità tematica al mio personale sentire ho trovato irresistibile l’episodio della "corsa delle macchine a vapore".

Uno dei protagonisti (Mallory) si ritrova ad assistere ad una gara annuale in cui veicoli a vapore (detti "gurney") provenienti da diverse nazioni si sfidano in una gara di velocità. Tra questi ce n’è uno rivoluzionario ed improbabile, molto piccolo ed a forma di goccia, la "Zephyr".

Mallory conosce uno dei tecnici che  hanno lavorato al prototipo, il quale gli confida la propria assoluta certezza di vincere, perché quel veicolo sfrutta tutta una serie di "nuove idee", tra le quali l’aerodinamica, appena sviluppate e sconosciute al grande pubblico.

In questo "passato parallelo" si svolge quindi una specie di sfida tra ‘800 e ‘900, tra macchine concettualmente enormi e possenti (le locomotive) e vetture individuali piccole, leggere e veloci (le automobili). E in questa "sfida immaginaria" non c’è storia.

La piccola Zephyr da principio rimane indietro (a causa di una falsa partenza che ne fa raffreddare la caldaia), poi, però, inizia ad accelerare in una progressione irresistibile che la porta dapprima a superare tutti gli altri concorrenti a metà percorso, e quindi ad arrivare quasi volando al traguardo, tra lo stupore attonito ed ammutolito dell’intero pubblico.

Questo è il magistrale finale della corsa:
"Henry Chesterton smontò dalla Zephyr. Gettò indietro la sciarpa e si appoggiò alla carrozzeria lucida del suo veicolo, osservando con insolente distacco gli altri gurney che arrancavano oltre il traguardo. Prima che arrivassero, sembrò che fossero invecchiati di secoli. Erano, si rese conto Mallory, dei relitti."

C’è, in questo finale ucronico, tutto il senso di stupore e meraviglia che da sempre gli appassionati cercano nelle storie di fantascienza. Il "nuovo" che irrompe nel "quotidiano" e lo stravolge. Il futuro che arriva inatteso, proprio dietro l’angolo. L’irresistibile fiducia nelle conquiste scientifiche che ci ha accompagnato dall’illuminismo almeno fino agli anni ’60.

Oggi tuttavia, al volgere del terzo millennio, sono paradossalmente proprio le automobili ad apparire come dei dinosauri prossimi all’estinzione. La promessa di velocità e libertà che ha sostenuto per decenni il mito dell’automobile ha finito col produrre il proprio opposto: code, ingorghi, saturazione dei centri urbani, inquinamento, invivibilità degli spazi cittadini, oltre ad un interminabile stillicidio di morti e feriti.

La crisi energetica che si profila all’orizzonte farà presto o tardi piazza pulita di veicoli tanto pesanti, rumorosi, invadenti ed egoisticamente energivori, restituendo spazio a macchine più leggere, efficienti e sostenibili.

Le "Zephyr" del futuro, inaspettatamente, sono proprio le nostre biciclette.

Della povertà (seconda parte)

Come anticipavo nel post precedente, la scorsa settimana mi ha molto colpito un lungo articolo pubblicato dalla rivista USA "The Atlantic Montly" (segnalato nel blog Wittgenstein di Luca Sofri) sul picco di crimini verificatosi negli ultimi anni in diverse medie e piccole città americane, ma ancor più sul relativo "principale indiziato": un programma pubblico nato per combattere la povertà.

Riassumo brevemente il succo della storia: negli anni ’90 parte un’iniziativa per combattere la povertà in diverse piccole e medie città americane. L’idea è quella di "disperdere" gli abitanti dei quartieri più poveri (in prevalenza neri, che sono la fascia di popolazione più povera negli USA) fornendo loro finanziamenti e contributi per andare ad abitare in zone residenziali, in modo da fargli avere migliori servizi, migliori scuole, e maggiori opportunità di uscire dalla propria condizione di povertà.

A distanza di anni si verifica un’impennata dei crimini proprio nelle zone dove sono state ricollocate queste persone, e si cerca di capire cosa sia successo. Viene fuori che il semplice trasferimento fisico da un’abitazione malandata e fatiscente ad una bella e nuova nella maggior parte dei casi non è servita a modificare l’indigenza delle famiglie, che oltre ad essere rimaste povere si sono ritrovate anche emarginate, in un contesto sociale escludente.

Poteva funzionare l’idea di combattere la povertà spostando le persone? Forse al livello dei singoli individui, non certo di intere collettività. Ed in qualche caso isolato può anche aver funzionato, ma nel complesso appare come una tipica scelta di ispirazione liberista, di quelle che cercano di curare i sintomi ignorando ostentatamente la malattia.

La povertà, in un’economia capitalista, funziona come la differenza di potenziale nelle batterie elettriche: è il principio che produce energia. È la molla che muove le persone a darsi da fare per uscirne, ed anche un serbatoio di lavoro sottopagato, che qui da noi resta "in nero", ma nella sfolgorante America, "terra delle opportunità", è ufficializzato. Le statistiche USA ci raccontano di lavoratori stipendiati che, nonostante tutto, vivono al di sotto della soglia di povertà perché percepiscono retribuzioni del tutto insufficienti.

La povertà si combatte ridefinendo il significato di ricchezza, e da parte di ognuno rifiutando l’equazione denaro=benessere che fin qui ci è stata inculcata. Ed inoltre c’è l’ironica e saggia affermazione di Woody Allen: "Se i soldi non danno la felicità, figuriamoci la miseria!", ad evitarci di cadere nell’estremo opposto. Tra questi due estremi, in realtà, c’è il margine per star bene davvero.

Non l’avere più di quello che ci serve, né l’avere meno. Essere consapevoli di cosa ci occorre e non impiegare più sforzi ed energie del necessario per avere cose di cui non abbiamo bisogno. Sapersi accontentare, godere di quello che si ha ed allo stesso tempo avere cose di cui poi si sappia godere.

Da questo punto di vista il problema non è fare in modo che anche i poveri abbiano quello che hanno i ricchi, in una rincorsa ai consumi insensata ed insostenibile, ma costruire una società di persone capaci di apprezzare ciò che hanno, poco o tanto che sia, di cedere ad altri ciò che non gli occorre. Così magari eviteremo non-soluzioni miopi come quella sopra descritta.

Della povertà (prima parte)

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Verso la fine del viaggio in Sudafrica, l’autunno scorso, decidemmo di dedicare un giorno alle visite meno "turistiche", andando a cercare le memorie dell’apartheid. Visitammo prima il "District Six museum", eretto a ricordo di un quartiere multietnico raso al suolo dagli amministratori di Cape Town, i cui abitanti furono trasferiti in township diverse, a seconda della loro "appartenenza razziale".

Poi visitammo due "township", le città originariamente costruite per ospitare, in un regime di segregazione razziale, le comunità "black" e "coloured". Per noi europei tale distinzione è incomprensibile, ma in Sudafrica per decenni tutti hanno avuto un’etichetta razziale/razzista appiccicata addosso. Questi insediamenti sono poi cresciuti malamente, nel tempo, diventando sterminate baraccopoli con milioni di abitanti grazie anche all’immigrazione dagli altri paesi dell’Africa, da cui letteralmente milioni di persone sono scappate a causa di guerre, fame e povertà.

Un’immigrazione di massa che ha dato vita, pochi mesi fa, a tumulti in molte zone del paese, con decine di morti. Poveri che si rivoltano contro altri ancora più poveri, in un crescendo di violenza e disperazione che i media occidentali non hanno saputo, o voluto, raccontare (ne dà conto invece, con uno splendido e terribile reportage fotografico, il "PhotoBlog" del Boston Globe: The Big Picture).

Ora, dopo anni di lotte, il governo nazionale è a maggioranza nera, ma i disastri prodotti da decenni di apartheid mostrano la loro "coda lunga". Quella che era in origine una separazione etnica sancita da leggi si è trasformata, col tempo, in una separazione economica. I bianchi ricchi vivono nei loro villini con piscina ed i neri poveri nelle baraccopoli.

Questa situazione appare, a noi europei, ingiusta ed insostenibile. Eppure, discutendo con il nostro albergatore (un italiano emigrato da ragazzo in Sudafrica, col quale abbiamo in breve stretto amicizia), ci siamo resi conto di quanto poco dialogo, e pressoché nulla comprensione reciproca, ci sia ancora oggi tra bianchi e neri.

"Quello che non riesco a capire", ci diceva, "è che loro (i "neri") vogliono vivere lì, nelle township. Magari lavorano in centro città, guadagnano anche bene, ma non gli interessa farsi una casa come si deve (sic!), continuano a stare in quelle baracche, in mezzo alla sporcizia".

Io ribattei che per me era invece perfettamente comprensibile, dal momento che quel contesto gli forniva una rete sociale, di rapporti interpersonali ed amicizie, che le ville dei sobborghi non potevano sostenere. "In una township basta uscire da casa per incontrare gente: vicini, amici, conoscenti. I bianchi, qui, sono isolati gli uni dagli altri, hanno una scarsissima vita relazionale, si vedono ogni tanto per andare a cena insieme, ma per il resto si sono autosegregati nel proprio lusso inutile."

Questa considerazione lo spiazzò. "In effetti", mi confessò, "non avevo mai affrontato la questione da questa prospettiva. C’è del vero in quello che dici: passiamo troppo tempo da soli."

Che l’Apartheid non fosse (ma nemmeno voleva esserlo) una soluzione al problema della povertà appare evidente a tutti, ciò nonostante venir fuori oggi da una situazione ormai incancrenita appare ben più che arduo. Non ci sono "scorciatoie" per affrontare problemi di tale portata, e soprattutto non si può prescindere dal comprendere i meccanismi sociali e relazionali delle comunità.

Lo stanno imparando a proprie spese negli Stati Uniti, dove un ambizioso (ed effettivamente superficiale) programma di lotta alla povertà ha prodotto effetti disastrosi. Ma di questo ragionerò nel prossimo post.

Come se il tempo avesse ripreso a scorrere

Non so voi, ma io, negli ultimi anni, avevo accumulato una sorta di "stanchezza dell’anima", dovuta alla sensazione di vivere in un immutabile tempo presente, incapace di cambiamento. In realtà, di trasformazioni, negli ultimi anni se ne son viste parecchie, a partire dalla "rivoluzione informatica" per arrivare ad internet ed ai nuovi strumenti informativi/comunicativi che in parte già padroneggiamo, ed in maggior misura si vanno delineando all’orizzonte.

Ma quella che mi è più apparsa stagnante, negli ultimi decenni, è l’evoluzione sociale e culturale. Forte è la sensazione che i mass media, televisione in testa, siano stati scientemente utilizzati per addormentare le coscienze ed avallare l’immutabilità dello "status quo".

L’impossibilità di evolvere verso forme "altre" si è proiettata, di riflesso, nelle espressioni artistiche, che mai come nei decenni a cavallo tra i ’90 e l’inizio del terzo millennio hanno segnato il passo. La musica pop degli ultimi anni non ha fatto altro che riproporre, malamente, vecchi cliché, come imprigionata in un gioco di specchi capace unicamente di svuotarla di ogni emozione.

Ora qualcosa sembra in grado di inceppare gli stanchi ingranaggi del vecchio mondo. Una crisi energetica senza precedenti incombe sull’assetto finanziario mondiale, chiedendo con urgenza un cambiamento negli stili di vita, nei consumi, nelle abitudini quotidiane. Un ripensamento globale della nostra organizzazione sociale.

E tutt’a un tratto è come se il tempo stesse riprendendo a scorrere. Invece di passare gli anni a vivere nella gabbia dorata che la ricchezza prodotta dal petrolio ha fatto sì che ci costruissimo intorno saremo chiamati a decidere delle nostre vite, a fare scelte, a diventare artefici del nostro destino.

Per molti sarà un trauma, uno shock al quale ribellarsi, per altri un’occasione unica lungamente attesa. Veder cambiare il mondo, poter agire questo cambiamento, sarà la parte più memorabile delle nostre esistenze. Pur con tutti i problemi che questo comporterà.

Lavorare meno (lavorare tutti?)

C’è un’idea che periodicamente rispunta fuori, nel corso della storia dell’umanità, e concerne il rapporto tra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato al cosiddetto "svago", o tout-court al riposo. Gli slogan operai degli anni ’60/’70 ("Lavorare meno, lavorare tutti") sono oggi ripresi dai teorici della Decrescita che stanno rimettendo in discussione, con argomentazioni fondate, la credibilità delle teorie economiche dominanti.

Sono passati più di trent’anni dallo storico studio del Club di Roma sui "Limiti dello sviluppo", e quei limiti appaiono oggi molto prossimi, al punto che in qualche caso ci si rende conto di averli già raggiunti. Non solo il petrolio sta raggiungendo prezzi elevatissimi, spiazzando gli ottimisti che si comportavano come se non dovesse mai finire, ma anche molte altre materie prime essenziali per il nostro modello economico/sociale stanno diventando di difficile e costosa reperibilità.

L’era del superfluo sembrerebbe volgere al termine, ed occorrerà ripensare dalle radici l’organizzazione delle nostre società. L’approvvigionamento energetico declinante porterà ad un’impennata dei prezzi dei beni primari, in testa i generi alimentari, subito seguiti da quello dei beni "superflui", cui la scarsa domanda impedirà anche economie di scala.

Sarà molto difficile far comprendere alle popolazioni l’insostenibilità del precedente stile di vita. La nuova situazione metterà in luce gli errori madornali operati negli anni passati nell’organizzazione urbanistica del territorio, che scopriremo del tutto inadeguata alle mutate condizioni sociali.

Le scarseggianti e sempre più costose risorse energetiche verranno progressivamente dirottate sulla produzione di cibo, per alimentare una popolazione ormai in sovrannumero per il territorio sul quale risiede, e sarà necessario inventare per questi ultimi nuove occupazioni, non più basate sull’attuale massiva trasformazione meccanica di materie prime in oggetti derivati.

Sarà un fiorire di arti ed artigianato, ma non tutti hanno l’animo dell’artista. Ci saranno senz’altro molti, senza arte né parte, che si troveranno più a proprio agio con l’esercizio della violenza. La frustrazione derivante dalla sopravvenuta povertà di beni materiali (l’unità di misura che la società dei consumi ha eletto ad unico metro del successo individuale) potrà innescare, come già in passato, follia e distruzione.

"Lavorare meno" diventerà una necessità, ma anche se si riuscirà ad organizzare una società a "bassa densità di lavoro" cosa farà le gente nel "tempo libero"? Saremo capaci di trovare interesse in occupazioni non redditizie ed a basso consumo energetico? Le conoscenze acquisite negli ultimi secoli saranno in grado di evitarci di ripiombare in un nuovo Medio Evo?

Dopo un periodo travagliato, in cui pure non dovrà stupire il ripresentarsi di guerre, carestie e pestilenze su larga scala, il Mondo finirà inevitabilmente col riassestarsi su un livello di consumi energetici molto più basso dell’attuale. Ma in condizioni che ad oggi risulta difficile persino immaginare.