L’uomo disintegrato è un romanzo di fantascienza scritto nel 1952 che ho avuto modo di leggere nel corso degli anni ’80. Della complessa vicenda narrata, un giallo incentrato su un crimine commesso in una società dove la lettura del pensiero è pratica ormai diffusa, non ricordavo quasi più nulla, tuttavia una delle “scene clou” mi è rimasta da subito fortemente impressa: quella in cui il protagonista, un assassino, viene sottoposto ad un processo di cancellazione della memoria.
Questo non avviene, come ci si aspetterebbe, attraverso un complesso e futuribile macchinario come andava di moda in quegli anni, bensì nel corso della vicenda, narrato “in soggettiva” dall’uomo ormai scoperto ed in fuga dalla polizia. Le cose che scompaiono per prime sono quelle più lontane: le stelle. Il protagonista prima ne registra la sparizione, divenendone consapevole, poi questa consapevolezza si perde, e la normalità diventa un mondo progressivamente sempre più minuscolo, fino al punto da contenere solo il protagonista, poi nemmeno più quello.
Tutto questo avviene attraverso un racconto in prima persona in cui la perdita progressiva dell’identità viene percepita, ma non razionalizzata. L’uomo pensa di scappare sulle lune di Giove, e si sta dirigendo allo spazioporto, poi guarda il cielo in cerca della sua destinazione e si accorge che non ci sono più le stelle.
Domanda alle persone che ha intorno e nessuno ha idea di cosa siano le stelle. “A che mi servono le stelle, io devo fuggire sui pianeti…”, riflette, quindi si reca a fare i biglietti e l’uomo del desk gli spiega che non esiste nulla al di fuori del sole e della Luna. “Andrò sulla Luna”, pensa, e all’improvviso non c’è più nemmeno la Luna.
La vicenda si sviluppa quindi in una orribile sarabanda onirica nel corso della quale il mondo si riduce prima alla sola Inghilterra, poi solo a Londra, poi ad un quartiere… Il protagonista è a tal punto ossessionato dall’idea della fuga che continua a cercare un luogo in cui scappare, mentre il suo universo personale collassa progressivamente fino alla singolarità, al nulla.
Perché questa vicenda immaginaria mi ha colpito a tal punto da rimanere impressa nella memoria anche a distanza di anni? Direi in primis perché ci parla della difficoltà dell’affrontare una trasformazione talmente radicale della realtà tale da farci dubitare della nostra stessa sanità mentale. Quella che il protagonista attraversa è, di fatto, un’odissea nella follia. Un dover scendere a patti con l’evidenza, inaccettabile, che il proprio stesso cervello non funziona più. Una prospettiva oggettivamente terrificante.
Eppure c’è ancora qualcosa di più, dal momento che il valore e la ricchezza della narrativa metaforica sta nel fatto di trasfigurare l’esistente per offrirci chiavi di lettura che altrimenti rimarrebbero nascoste. E proprio oggi una di quelle “chiavi di lettura della realtà” è emersa prepotentemente dall’oblio.
A far “scattare la molla” è stata questa immagine, pubblicata da Daniele Gasparri sul forum Astroimaging con questo commento: “…Si tratta del gegenschein, un rinforzo circolare della luce zodiacale che si verifica nel punto anti solare a causa della riflessione totale (senza fase) delle particelle di polvere presenti lungo il piano dell’eclittica del Sistema Solare. L’immagine è stata scattata da Maitland Downs, Queensland, Australia, il 13 novembre 2012″ (*)

Il gegenschein è un fenomeno naturale permanente, e tuttavia, nei miei ormai 48 anni di vita (gli ultimi 30 dei quali vissuti da appassionato di astronomia), non ho ancora mai avuto la possibilità di osservarlo. Eccolo il cielo sparito… non mio, stavolta, ma di tutti. Ecco l’inizio del processo di “disintegrazione mentale” immaginato da Alfred Bester nel lontano 1952.
Alzate gli occhi al cielo notturno, appena ne avrete l’occasione, e scoprirete che le stelle sono già scomparse dalla volta celeste sopra la vostra città, sostituite da un grigiore aranciato prodotto dall’inquinamento luminoso. I pianeti sono ancora al loro posto, ma la maggior parte non saprà riconoscerli, e se chiedessi in quale fase lunare ci troviamo adesso, ben pochi saprebbero rispondere.
Il parallelo col romanzo, da un certo punto di vista, si ferma qui. Per inciso: non penso sia un processo avviato in maniera intenzionale ma solo il prodotto di pulsioni collettive istintive in un contesto di abbondanza di energia, materie prime e tecnologia (per quanto anche tali pulsioni possano in qualche misura venir contrastate o al contrario assecondate, e mi sembra più probabile la seconda opzione…).
Si aprono invece, per altri versi, prospettive inquietanti, in particolare per quanto riguarda la sostituzione del mondo reale, e dell’esperienza dello stesso, con una quantità e varietà di “mondi virtuali” che si vanno diffondendo e moltiplicando di anno in anno.
Una delle patologie emerse recentemente è proprio la dipendenza da videogiochi, proiezione estrema (finora) di quel processo di alienazione progressiva dalla realtà che ci ha portato nel corso dei secoli (con un’accelerazione esponenziale in quest’ultimo) a confinarci in luoghi chiusi, in ambienti urbani sempre più artificiali, a spostarci per mezzo di scatolette sigillate, a nutrirci con alimenti preconfezionati e ad appassionarci di vite immaginarie veicolate dalla TV.
Infine, saltando di parallelo in parallelo, mi sono sovvenuti i Borg, popolo di creature in parte organiche ed in parte meccaniche introdotti nell’immaginario collettivo dalla serie televisiva “Star Trek”, caratterizzati dalla totale rinuncia all’individualità in favore di un’intelligenza centralizzata in grado di controllare molti corpi (ennesima riproposizione dei fantasmi del collettivismo socialista per il pubblico nordamericano).
Frullando tutto insieme sono giunto alla conclusione che quello che ci sta accadendo è analogo alla trasformazione Borg, solo che al posto delle parti meccaniche a sostituire componenti organici (un processo fisico) abbiamo porzioni di esperienze virtuali che nel nostro cervello vanno a sostituire analoghe porzioni di esperienze reali (un processo psichico).
Paradossalmente il risultato di questo processo appare molto simile a quello che fa dei Borg una collettività priva di individui: il nostro immaginario è uniformato, i nostri desideri vengono massificati ed appiattiti, perfino le nostre reazioni collettive diventano prevedibili ed, in ultima istanza, pianificabili e manipolabili.
Quindi la conclusione di quel processo di “disintegrazione della realtà” di cui fanno parte sia la progressiva scomparsa del cielo stellato che la sostituzione di esperienze reali con altre virtuali è esattamente la stessa immaginata nel romanzo: la cancellazione delle diversità culturali (nel libro, letta in chiave negativa, la tendenza omicida…) e l’omologazione dell’individuo a convenzioni e dettami sociali potenzialmente decisi a tavolino. Una prospettiva decisamente poco allegra…
(*) …e aggiunge poco più avanti: “Purtroppo si vedono anche i raggi laser puntati involontariamente da me nel cielo (…) Al centro le Pleiadi, in basso, come un faro, Giove (e faceva ombra in terra).”