Aggressività dislocata

Sto seguendo ormai da un po’, compatibilmente con le disponibilità di tempo ed attenzione, le lezioni del corso di di biologia del comportamento umano tenute dal prof. Robert Sapolsky alla Stanford University nel 2011 [1]. Un ciclo dalla mole significativa (25 lezioni, in media di un’ora e mezza l’una), che affronta un ampio ventaglio di aspetti controversi del comportamento umano, tracciandone la verosimile derivazione da soggiacenti dinamiche di natura genetica, neurologica, biochimica, evolutiva ed ambientale.

Nonostante la difficoltà nel seguire una trattazione in lingua inglese, non di rado estremamente tecnica (fondamentale la disponibilità di traduzione automatica dei sottotitoli in italiano), ho iniziato a trovare risposte quantomeno plausibili a diverse domande che mi assillavano da tempo.

Immagine da Wikimedia Commons

Nella 19^ lezione, la terza sull’aggressività (minuto 50:40 [2]), viene descritto il meccanismo di ‘aggressività dislocata’. In sostanza, quando siamo infuriati o frustrati per situazioni che non siamo in grado di gestire o contrastare, sfoghiamo la nostra rabbia su quello che abbiamo a tiro in prossimità. Tipicamente sulle persone che ci vivono accanto.

…abbiamo poi (…) una visione molto, molto diversa (…) costruita attorno all’idea che l’aggressività sia in definitiva tutta una questione di frustrazione (…), dolore, stress, paura, ansia. Un punto di vista fortemente spinto dai ricercatori russi nel periodo dell’Unione Sovietica. Una visione molto marxista perché, essenzialmente, ciò che si conclude alla fine è questo tema, che continuo a sollevare ogni volta, che l’amigdala ha qualcosa a che fare sia con l’aggressività che con la paura. Che in un mondo in cui nessun neurone amigdaloide ha bisogno di avere un potenziale d’azione per paura, non ci sarà aggressività. Questa è la versione estrema del modello di dislocamento della frustrazione (…) Quando i livelli di disoccupazione salgono, anche i livelli di abuso coniugale aumentano, e ugualmente aumentano i livelli di abuso sui minori. Quando l’economia va male avviene la stessa identica cosa. Negli animali da laboratorio: procura uno shock ad un topo e otterrai che morderà l’animale che ha accanto. Tutte queste sono forme di aggressività dislocata. In una tribù di babbuini, ad esempio, quasi il 50% delle aggressioni sono dovute ad aggressività dislocata, ed avvengono dopo che un individuo ha perso un combattimento o l’accesso a una risorsa. Questo meccanismo è in grado di spiegare due aspetti davvero deprimenti sulle società diseguali. Il primo è che più sei povero, più è probabile che tu sia violento, più è probabile che tu commetta atti criminali. E quando l’economia va male il problema si aggrava. Tutto diventa più distorto. L’altro aspetto tragicamente ironico di questo processo è che quando la criminalità sale negli strati socioeconomici più bassi, gli atti criminali sono rivolti in modo schiacciante verso gli altri poveri. Quando il crimine aumenta durante i periodi di frustrazione e maltrattamento delle classi socioeconomiche inferiori, non assume la forma in cui, improvvisamente, tutti decidano di scalare il muro fino al palazzo lì accanto e distruggere alcuni dei vasi Ming. Invece si tende ad aggredire le persone che sono vittime proprio accanto a noi. Durante i periodi di recessione economica, i tassi di criminalità nei quartieri più poveri salgono, ed è quasi sempre violenza rivolta agli abitanti del vicinato.

Mi è stato relativamente immediato collegare questa modalità comportamentale con quanto già esposto in una precedente lezione [3], sempre in relazione all’aggressività, dove veniva illustrato un esperimento effettuato su cinque macachi.

Prendi cinque macachi maschi (questo è stato uno studio classico). Mettili insieme e formeranno una gerarchia di dominanza. Il numero uno picchia da due a cinque, il numero due da tre a cinque, e così via. Prendi il numero tre e pompalo con il testosterone. Pompalo con quantità folli di testosterone. Quello che vedrai è che sarà coinvolto in un maggior numero di combattimenti. Significa che il numero tre ora sta minacciando il numero due e il numero uno? Assolutamente no, quello che sta succedendo è che il numero tre diventa un incubo per i numeri quattro e cinque. Il testosterone sta cambiando la struttura dell’aggressività in questo gruppo? No, sta esagerando la struttura sociale preesistente.

Lo studio evidenzia quindi una propensione a scaricare l’aggressività sui soggetti più deboli. Un simile comportamento ha, molto verosimilmente, radici nei processi evolutivi. La selezione naturale premia gli individui propensi a scaricare l’aggressività sui più deboli, mentre danneggia quelli che tenderebbero ad attaccare avversari più forti di loro, che avranno elevate probabilità di fare precocemente una brutta fine.

Emergerebbe perciò una propensione biologica a prendersela coi più deboli, in comune con tutto il resto del regno animale. Benissimo, anzi, malissimo. L’esistenza stessa di automatismi psichici di questa natura contrasta con buona parte delle architetture morali ed etiche sviluppate nei millenni dal pensiero umano. Nondimeno, in quanto evidenze scientifiche, occorre tenerne conto.

Prima di proseguire oltre devo chiarire un punto: prendere atto di una fenomenologia comportamentale non presuppone alcun tipo di approvazione morale, di accettazione o di giustificazione della stessa. Attiene alla nostra condizione di individui consapevoli, ed al nostro senso di giustizia, cercare e trovare soluzioni ed equilibri migliori.

E tuttavia occorre prendere atto di meccanismi psicologici che in natura esistono, che interessano la gran parte delle specie viventi capaci di comportamenti relazionali e sociali complessi, e che non possono essere semplicemente ignorati, né pretendere che bastino educazione e modellazione sociale delle abitudini a farli sparire.

L’aggressività dislocata, nello specifico, può dar conto dei maltrattamenti che avvengono all’interno della sfera familiare. In una cultura dominata dalla competizione economica è facile che l’ambito lavorativo produca un accumulo di frustrazioni che finiscono con lo scaricarsi al di fuori di esso. E nella società moderna gli individui trascorrono la maggior parte del proprio tempo in due ambiti relazionali ben distinti: l’ambito lavorativo e quello domestico.

Lo stress e le frustrazioni accumulate nell’ambito lavorativo, dal quale dipendono la retribuzione e il sostentamento, possono scaricarsi in parte sui colleghi, in particolare i sottoposti, ma finiscono più facilmente a proiettarsi nell’ambito familiare, dov’è azzerato il rischio di perdita dell’impiego e della retribuzione relativa.

Aggressività che assume forme e modalità diverse, fisiche e/o psicologiche, a seconda delle modalità individuali di gestione delle dinamiche relazionali. Individui anatomicamente più forti tenderanno ad esercitare di preferenza modalità aggressive di tipo fisico, mentre individui fragili, se intellettivamente dotati, tenderanno più facilmente ad esercitare forme di aggressività di natura psicologica.

È facile, già da queste semplici considerazioni, individuare uno schema di massima delle dinamiche distruttive che possono emergere nell’ambito familiare a causa dell’accumulo di insoddisfazioni e frustrazioni. Potremo altresì aspettarci che l’incremento di stress ed incertezze indotti nel corpo sociale dall’attuale pandemia finisca col tradursi in un aumento delle aggressioni e del bullismo, e verificare come sia esattamente quello che avviene [4].

In tutto ciò, il portato di alienazione individuale e collettiva prodotto dall’urbanistica moderna, che ha tradotto una disponibilità globale di risorse in forme di edilizia residenziale classicamente monofamiliari, ha ottenuto di esacerbare i meccanismi di ‘aggressività dislocata’, sequestrandoli in larga misura all’interno dei nuclei familiari.

Un quadro che appare ancor più catastrofico se consideriamo gli effetti a lungo termine prodotti da maltrattamenti e violenze domestiche. Diversi studi mostrano infatti come l’esposizione a forme di violenza, fisica e psicologica, tendano a fissarsi nei circuiti cerebrali, dando luogo ad alterazioni permanenti della personalità. Questo processo di alterazione delle risposte cerebrali [5] è, purtroppo, molto più evidente nelle fasi dello sviluppo, generando scompensi difficili da recuperare negli adulti fatti oggetto di maltrattamenti in età infantile.

Peggio ancora, esistono molteplici evidenze del fatto che queste alterazioni siano in grado di fissarsi nel DNA, attraverso processi epigenetici [6], e di propagarsi alle generazioni successive. Questo è il portato più tragico, perché il male che viene fatto ad un individuo, quando si traduce in esplosioni di violenza all’interno della famiglia, finisce col fissarsi sui suoi stessi figli, moltiplicandone gli effetti distruttivi. Non solo si vive una condizione di sofferenza, calpestati dal contesto sociale, ma nello sfogare la rabbia accumulata sui propri familiari si danneggia la propria stessa discendenza e le generazioni a venire.

Altro ambito in cui possiamo leggere processi di ‘aggressività dislocata’ è quello legato alla sicurezza stradale. È un tema che mi tocca nel vivo come ciclista urbano. Dal mio personale osservatorio registro un diffuso disprezzo, da parte degli automobilisti, per le prescrizioni di sicurezza: limiti di velocità, distanze, spazi di frenata, e una generale assenza di rispetto per gli altri utenti della strada, pedoni e ciclisti in testa.

Numerosi conducenti di autoveicoli appaiono frustrati ed aggressivi, per problemi personali, sociali o per le dinamiche conflittuali proprie della mobilità veicolare. Il loro essere ‘inscatolati’ li rende incapaci di scaricare tale aggressività su qualcuno/a in prossimità, di conseguenza finiscono con l’individuare come ‘valvola di sfogo’ gli altri utenti della strada (ciclisti, pedoni, anziani), percepiti come ‘fisicamente e gerarchicamente inferiori’ (quindi non pericolosi) e con lo scaricare su di essi la propria rabbia repressa.

La recente pandemia ha ulteriormente contribuito ad esasperare gli animi, ed il portato di questa frustrazione diffusa si è tradotto, fra le altre cose, in un aumento (largamente percepito) dell’aggressività sulle strade. Un metodo alternativo è stato il ricorso all’uso di alcol e droghe, il cui utilizzo è pure in crescita [7]. Va da sé che le sostanze psicotrope determinano un abbassamento della soglia di autocontrollo, col risultato che le esplosioni di violenza, quando accadono, ne risultano amplificate.

Dalla lezione di Sapolsky emerge poi un rimando inquietante ai rapporti tra le diverse classi economiche in cui tende a suddividersi qualunque società umana. Se andiamo a proiettare le dinamiche relazionali proprie dei piccoli aggregati su una scala più vasta, osserviamo come i meccanismi della ‘aggressività dislocata’ possono essere sfruttati in chiave di controllo sociale.

Stabilito che la violenza cieca si scarica in prevalenza sugli individui in prossimità, per evitare che raggiunga i soggetti effettivamente responsabili delle condizioni di frustrazione diffusa (quelle che chiameremo le élite economiche) un buon punto di partenza sarà realizzare una separazione fisica tra i luoghi di vita e lavoro di ricchi e poveri, ed è un processo che vediamo già in atto in diverse parti del mondo [8].

In termini di controllo sociale questo significa poter incrementare i fattori di stress su quelle che Sapolsky definisce ‘classi socioeconomiche inferiori’ senza rischiare reazioni indesiderate come forme aggregate di ribellione sociale. La polverizzazione, disgregazione ed il progressivo imborghesimento delle classi economiche meno agiate, la dispersione territoriale e l’isolamento indotto nei nuclei familiari dalla sostituzione dell’ambito relazionale con l’intrattenimento audiovisivo, hanno ottenuto di sequestrare le dinamiche violente in prevalenza all’interno di ambiti privati.

Altro classico esempio di utilizzo sociale dell’aggressività dislocata è il tifo da stadio, caratterizzato da forme di aggressività ritualizzata che esplodono, occasionalmente, in violenza brutale. Attacchi che si consumano in spazi e tempi circoscritti e svolgono una funzione di scaricamento della violenza accumulata in forme atte a non turbare l’ordine costituito, in quanto esercitati di norma tra opposte tifoserie, quindi tra individui degli stessi gruppi sociali (all’interno di un sistema culturale capace di alimentare un meccanismo economico dai bilanci milionari).

Le conclusioni di questa riflessione sono molto amare. Da un lato si evidenzia un meccanismo psicologico innato di scaricamento dell’aggressività e della violenza sui più deboli, che cozza con tutte le elaborazioni etiche e morali sviluppate dalla nostra specie, al punto da far ritenere che lo sviluppo dei costrutti culturali etico/morali sia un adattamento necessario a preservare gli individui più fragili dalla generale innata propensione alla violenza.

Dall’altro emerge la potenzialità per un utilizzo delle nozioni di psicologia comportamentale finalizzato alla stabilizzazione di un modello sociale, basato sullo sfruttamento delle classi economicamente e culturalmente più fragili, che pare tragicamente calzante con quanto ci è dato osservare nelle culture umane antiche e moderne.

Passando ad un ambito strettamente personale, l’approfondimento delle dinamiche legate a violenza ed aggressività confido mi rendano più consapevole riguardo ai processi che coinvolgono le mie stesse reazioni emotive, consentendomi in futuro un miglior autocontrollo nella gestione degli scatti d’ira. Non sarà molto, ma è già qualcosa.


[1] – Lecture Collection | Human Behavioral Biology

[2] – 19. Aggression III (minuto 50:40)

[3] – 18. Aggression II (minuto 1:33:57)

[4]Obesità, anoressia e aggressività in crescita con la pandemia (RAI News)

[5] – Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD)

[6] – Epigenetica

[7] – Consumo di droghe

[8] – Gated communities

Il lungo inverno caldo della mobilità romana

Almeno in apparenza, situazioni rimaste immobili per decenni hanno finalmente preso a muoversi ed a risucchiare la mia disponibilità di tempo. Cercherò quindi di fare il punto di quanto successo nelle scorse settimane. Non molto dopo lai presentazione dell’analisi di rete ciclabile effettuata in collaborazione col V municipio ho partecipato con altri all’incontro “Bicinomia”, promosso dalla rete delle ciclofficine romane. L’approccio al disegno “dal basso” della rete ciclabile è stato, anche in quella sede, molto apprezzato.

Sono stato quindi coinvolto dl gruppo “Residenti del Quadraro Vecchio” (un quartiere confinante col mio) in un evento su “Zone 30 e moderazione del traffico”, al quale si sono prestati a partecipare anche Paolo “Rota Fixa” Bellino e Aberto Fiorillo, oltre all’assessore alla mobilità del V municipio Giovanni Assogna.

Di questo incontro, svoltosi nella mattinata di sabato 1 marzo, rimane (grazie a Carletto) il video della presentazione che ho messo assieme rimaneggiando ed alleggerendo un po’ di materiale fornitomi dall’impagabile Matteo Dondé (che spero di trascinare a Roma di nuovo a breve).

Tempo di riprender fiato e già il 4 marzo (domani, per chi scrive) si terrà il primo incontro con i ciclisti del V municipio, in cui definiremo l’organizzazione delle pedalate per esplorare e documentare l’ipotesi di rete ciclabile, percorso collettivo da fare “in sella” che inizierà già dal prossimo weekend.

E non è finita qui, perché fra una decina di giorni dovremo illustrare il lavoro svolto nel municipio e le sue modalità direttamente all’assessorato alla mobilità del Comune di Roma, per vedere se tale modello sia esportabile negli altri municipi. Insomma, “quando troppo e quando niente”, come recita un vecchio adagio… Capirete quindi la mia relativa latitanza da queste pagine: “ubi maior, minor cessat”, come dicevano i latini.

Giovedì 26 dicembre torna il G.S.(S.)A.

Come ormai consuetudine pluriennale (siamo alla terza edizione) il 26 dicembre torna il “Grande Santo Stefano Anulare”, da un’idea partorita nel 2011 da Sergio Trillò: smaltire gli eccessi alimentari delle festività percorrendo il G.S.A. La proposta ha ottenuto un’adesione entusiastica, raggiungendo in poco tempo il centinaio di partecipanti. Qui un video dall’edizione 2012: Prima parteSeconda parte.

L’appuntamento per il 26 è alle ore 9.00 a Piazzale Ostiense, nel giardinetto al centro della piazza, facilmente raggiungibile con treni urbani e metropolitane (caricando la bici)

L’itinerario sarà percorso in senso orario, e presenterà delle significative differenze rispetto alle edizioni precedenti, in particolare nella parte nord-ovest del tracciato.

L’iniziativa è, come al solito, informale, senza organizzazione o gestione dei partecipanti: noi si va, chi vuole si aggrega consapevolmente e responsabilmente. Per partecipare sarà sufficiente presentarsi all’appuntamento, ma sarà gradito se segnalerete la vostra adesione su Facebook o sul forum Cicloappuntamenti.

Jevons, la città e le auto

“If you plan cities for cars and traffic, you get cars and traffic. If you plan for people and places, you get people and places.” (Fred Kent)

Qualche mese fa mi era capitato di menzionare il paradosso di Jevons in riferimento al consumo di risorse, ieri l’ho collegato alla diffusione delle automobili negli spazi urbani. Riducendo la questione all’osso, se gli spazi urbani sono già saturi non si riuscirà a renderli meno affollati col trasferimento modale su altre forme di trasporto, semplicemente perché gli spazi “liberati” saranno nuovamente saturati da altri utenti che prima non trovavano la convenienza di utilizzarli.

In estrema sintesi: le strade si liberano facendo politiche per ridurre il numero di automobili, non pensando di trasferire utenza ad altre modalità di trasporto. Né più né meno quello che hanno fatto in Olanda negli anni ’70. Dopo avere allargato le strade per fare più spazio alle automobili, anche abbattendo edifici, quello che hanno potuto verificare è che più spazi si concedono alle automobili, più automobili finiranno con l’occuparli. Il tutto è descritto in questo bel video, sottotitolato e messo a disposizione dal blog Nuova Mobilità.

Gli olandesi, tuttavia, hanno reagito col pragmatismo che li contraddistingue: una volta verificato che il risultato non era quello desiderato, hanno nuovamente ridotto la sezione delle vie, ricostruendo gli edifici abbattuti e riportando le strade alla loro larghezza originaria. A seguire hanno perseguito l’obiettivo di limitare l’accesso delle auto ai centri città, ed in generale attivato politiche che ne marginalizzassero l’utilizzo.

A questo si ricollega l’intervento di Fabrizio Bottini: “Città: coraggio, fatti ammazzare”, dove la costruzione di autostrade urbane viene paragonata ad un fucile puntato contro i cittadini, pronto ad esplodere e fare vittime innocenti (non ultima la ragazza egiziana, incinta, morta assieme al figlio di quattro anni ed a quello che aveva in grembo).

La città, qualunque città, non funziona come il circuito elettrico con cui ci riassumono le fermate della sotterranea, strisce colorate separate da cui si entra ed esce solo in corrispondenza dei pallini scuri. Un noto urbanista internazionale l’ha pure inconsapevolmente usato poco tempo fa, lo slogan Ville Poreuse, a definire questa organicità metropolitana, del resto già stigmatizzata un secolo fa da Patrick Geddes, e per nulla riconducibile alle scatole incomunicanti del modello modernista.

Ed è notizia di poco fa quella di un convegno all’università Roma Tre sul tema della sicurezza, dal quale già emergono numeri agghiaccianti.

E tanto per capire la gravità della situazione il 10 per cento di tutti gli incidenti stradali italiani avviene a Roma, il 7 per cento a Milano. «E questo dà una misura della sicurezza- conclude Benedetto- anche riguardo quelli mortali: a Roma muoiono per questo motivo mediamente 200 persone l’anno, mentre, ad esempio, a Parigi sono in tutto 35 persone l’anno.

Penso che il quadro che emerge dalla somma di tutte queste informazioni sia abbastanza chiaro. Non possiamo ancora credere nell’efficacia di interventi palliativi senza che il sangue di decine, centinaia di innocenti ricada sulle nostre spalle.

Dobbiamo ripensare la forma città con interventi urbanistici drastici, restituire gli spazi pubblici alle persone togliendoli alle scatole metalliche con cui li abbiamo improvvidamente riempiti, ricucire forme di spostamento leggero tra i quartieri, promuovere il trasporto pubblico a scapito di quello privato a motore, e se necessario ridislocare persone ed attività produttive.

Per fare questo occorre un primo enorme sforzo: guardare negli occhi la mostruosità di asfalto, lamiere e cemento che abbiamo edificato nel corso degli anni e comprendere che va semplicemente abbattuta. Per poi, subito dopo, edificarne una nuova in base a criteri completamente diversi.

Tutti a/r mare

“Insegna ad una persona a viaggiare in bicicletta, ed avrai cambiato
per sempre il modo in cui penserà a sé stesso/a ed al mondo” (M.B.)

La Ciemmona è diventata, per me, nel corso degli anni, uno di quei momenti affatto speciali in cui i nodi di una vita intera appaiono finalmente appartenere ad un’unica rete. Passato, presente e futuro, per una rara coincidenza, si rivelano cuciti insieme.

Come per Paolo sulla via di Damasco, la prima Ciemmona, nel 2004 (quando ancora si chiamava semplicemente “Roma Pedala”), arrivò a sconvolgere tutto quello che credevo di sapere sulla promozione e diffusione dell’uso della bicicletta, e ben presto mi costrinse a rivedere molte radicate convinzioni sui processi umani e sociali correlati.

La storia di come andò è già stata raccontata, e sempre sulla Ciemmona sono tornato a ragionare, a pochi anni di distanza (in un post dal titolo molto simile). Rileggendo quanto scritto tempo addietro posso solo prendere atto della sostanziale attualità di quelle riflessioni. Non molto è cambiato, nemmeno nella città ostile che ci circonda.

L’anno scorso fui costretto a saltare l’appuntamento a causa di un matrimonio, quest’anno ho potuto partecipare a tutti e tre gli appuntamenti, anche se solo parzialmente ai primi due (venerdì e sabato), rientrando per l’ora di cena. La sensazione che ho avuto è quella di una forza gioiosa, ed in quanto tale inarrestabile.

La massa critica si compone di innumerevoli singole identità che, unite insieme, danno vita ad un sovra-organismo. Nessuno sa a priori dove si troverà nel corso della giornata, ed a fare cosa. Man mano che il serpentone di ciclisti procede, spontaneamente si formano le barriere per arginare gli autoveicoli, ci si ferma a dare una mano a chi ha problemi, si collabora e contribuisce alla riuscita dell’evento. Nessuno decide, nessuno ordina, ma tutti si attivano in base alle necessità.

Già da un po’ speravo di poter coinvolgere in quest’esperienza i miei nipoti, ma per tutta una serie di coincidenze solo quest’anno sono riuscito a coronare il mio sogno. Purtroppo la pioggia ha impedito che partecipassero al giro di sabato, ma la domenica siamo riusciti a portarli al mare. O meglio, ad accompagnarli, visto che al mare ci sono arrivati da soli, pedalando per più di 30km.

Tra le moltissime persone incontrate in quest’occasione diverse appartengono al lontano passato (con Guido A., Pino F. e Romano P. ho condiviso pedalate sul finire degli anni ’80), altri al passato meno remoto, in cui ero guida e poi presidente dell’associazione “Ruotalibera” (Marco G. su tutti), altri ancora al passato prossimo, il periodo in cui sono stato attivo nei “Ciclopicnic”, sul blog “Romapedala”, davvero troppi per citarli tutti.

Altri ancora, moltissimi, appartengono al presente, al forum “Cicloappuntamenti”, alle esperienze di “Di Traffico Si Muore” prima e “Salvaiciclisti” e “LACU” poi. E sopra tutto questo il futuro, incarnato dai miei tre nipotini, che spero riusciranno a godere i frutti di tanto lavoro, intelligenza, volontà e passione spesi nel corso degli anni.

Questo ha fatto sì che la giornata di domenica assumesse per me la dimensione di un “album dei ricordi” proiettato in tempo reale, un reminder delle tante cose fatte e delle tantissime ancora da fare, una sorta di “Cappella Sistina” momentanea, affresco situazionista del cicloattivismo degli ultimi vent’anni a Roma.

Un movimento dalle molte anime, e forse dalle troppe diverse priorità, che si proietta in avanti sullo slancio di una crescita numerica a lungo attesa e finalmente realizzata, tale da portare con sé il consenso necessario a produrre trasformazioni politico sociali, per anni esistite solo nelle fantasie di pochi sognatori.

Ad un certo punto Emanuele mi ha detto: “Zio, però se fossimo andati in macchina saremmo già arrivati…”. “Certo”, gli ho risposto, “ma ci saremmo persi tutto questo (indicando l’incredibile serpentone di ciclisti che occupava via Cristoforo Colombo fin dove era possibile guardare), che in fondo è la parte migliore!”. Per questo ho voluto concludere il video con una frase che ho messo a fuoco solo sulla via di casa:

“Non ha importanza da dove vieni, o dove vai. Importante è il viaggio”.

Poi ho capito che questo è stato, negli ultimi vent’anni, il mio “viaggio”. Tutte queste persone con cui ho condiviso pedalate, incontri, riunioni, sorrisi, arrabbiature. Questo è stato fin qui il viaggio della mia vita. Magari non mi ha portato da nessuna parte, ma è stato lo stesso un gran bel viaggio, e se pure potessi, non lo cambierei.

Pasolini, la città e il presente

Uno dei miei sogni, fin da ragazzo, è sempre stato quello di conoscere il futuro. Oggi, da adulto, sogno di viaggiare nel futuro per poter finalmente comprendere il presente, quello che mi accade intorno. Il mondo si sta trasformando troppo in fretta, e quello che avviene oggi potrà essere compreso solo sulla distanza. Forse. Intanto continuiamo a non comprendere neppure quello che è accaduto “ieri” (m.p.).


Non più tardi di un paio di giorni fa, girando su Facebook, mi sono imbattuto in questo video di Per Paolo Pasolini, girato nel 1974, sulle dune di Sabaudia. Guardatelo, prima di proseguire nella lettura.

Eccolo lì, un fragile intellettuale con le mani in tasca sferzato dal vento, che riflette sui propri errori interpretativi, e sulla cecità che lo circonda. Quello stesso vento che porta via le sue parole e le cancella. Pasolini esprime in questo filmato un’intuizione potentissima, che non riesce tuttavia a scalfire il pensiero mainstream, non getta radici.
La conclusione del suo ragionamento è terrificante:

“Posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questo è avvenuto talmente rapidamente che in fondo non ce ne siamo resi conto. E’ avvenuto tutto in questi cinque, sei, sette, dieci anni. E’ stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. E adesso, risvegliandoci, forse, da quest’incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”

Dell’Italia che Pasolini ha visto sparire, la mia generazione, nata negli anni ’60, non ha potuto cogliere che tracce, frammenti. Il lavoro di cancellazione portato avanti nella logica del consumo e della distruzione a ritmi serrati non ci ha lasciato che briciole a cui aggrapparci, insufficienti a comprendere il quadro complessivo.

Pasolini è stato fatto sparire, nascondendo la sua grandezza dietro uno scandalo dai contorni sessuali, il suo pensiero eretico abbandonato nel dimenticatoio, mentre l’ideologia dei consumi ha continuato a marciare incontrastata completando l’opera di annientamento della memoria collettiva, di appiattimento.

Noi “baby boomers” siamo i figli del “mondo nuovo”, del consumismo, dell’errata convinzione che un passato di povertà dovesse essere cancellato e dimenticato, che il pianeta tutto dovesse avviarsi su una strada diversa, delle “magnifiche sorti e progressive”. Un pezzo alla volta siamo stati espropriati delle nostre radici e tradizioni, del nostro passato, della civiltà rurale e contadina dei nostri genitori e nonni.

Ed ora che il “nuovo” perde il suo slancio, che le promesse “inesauribili” risorse energetiche iniziano a declinare, che il territorio è stato ricoperto di cemento, ferito, massacrato. Ora che le risorse idriche sono messe in ginocchio da sprechi, prelievi forzati, cambiamenti climatici, che le città si sono rivelate giungle urbane circondate da quartieri dormitorio dove ogni socialità è negata, ora che va in crisi l’idea di futuro, in base al quale le nostre vite sono state modellate dalla società, cosa ci rimane?

Non so se faremo in tempo a morire, prima che questo ennesimo grande inganno sia disvelato in tutto il suo orrore. Non so se vivremo una serena vecchiaia o precipiteremo nell’olocausto che stiamo pazientemente, e stolidamente, costruendo con le nostre stesse mani. Non so se faremo in tempo a sparire prima che i nostri figli, e i nostri nipoti, possano chiederci ragione di tanta ottusa cecità.

Critical Marriage

Sabato scorso a Roma c’era la Cemmona, evento ciclocritico dell’anno di risonanza internazionale (viene menzionata sulle guide “Lonely Planet”), giunta ormai alla sua nona edizione. Quest’anno io e Manu ce la siamo persa, ma per un buon motivo: eravamo a Parma al matrimonio di una copia di amici “di bicicletta”.

La mattina di buon’ora ce ne siamo andati in stazione con le nostre pieghevoline (Brompton), le abbiamo caricate sul Frecciarossa ed in compagnia di Cecilia (Bromptomunita anch’essa) siamo partiti alla volta dell’Emilia Romagna. Guidati dal fido GPS abbiamo quindi raggiunto pedalando la sala destinata dal municipio ai riti civili e partecipato alla cerimonia.

Terminato lo sposalizio abbiamo seguito gli sposi in una sorta di Critical Mass che ha attraversato la città, con brevi soste per le foto di rito nelle piazze più spettacolari e meritato finale al ristorante accanto al parco cittadino. In tutto questo ho trovato il tempo di girare un breve filmino, videocamera alla mano, che è stato rimontato e sistemato una volta tornato a casa. Eccolo qui (la pedalata è nella seconda metà).

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Riciclaggio video

La campagna #salvaiciclisti, con la manifestazione prevista per fine mese, ci sta costringendo a fare i salti mortali in corsa per arrivare al maggior numero possibile di persone. Quando ad un certo punto mi è venuta l’idea di girare un video promozionale mi sono anche reso conto che i tempi erano troppo stretti per realizzare qualcosa di decente, così ho rimesso mano allo spot “morettiano” girato per la Ciemmona 2008 (starring Giuseppe il “Losco Individuo”) e, facendo tesoro dell’esperienza di montaggio maturata coi documentari sulla Togliatti e sul G.S.A., in una mattinata di “taglia e cuci” ne ho fatto una versione aggiornata.

Grande Sentiero Anulare – The Movie

L’idea mi frullava in testa da parecchio tempo: realizzare un video-documentario sul G.S.A. – Grande Sentiero Anulare. Fin qui, però, l’impresa mi era parsa sempre troppo ardua per le mie modeste forze, ed anche le richieste di aiuto ad amici del settore non avevano sortito l’effetto desiderato.

Poi, una settimana fa, l’esperimento col reportage sulla pista ciclabile di viale Palmiro Togliatti mi ha reso consapevole di essere ormai in grado di portare a termine l’impresa anche da solo, pur pagando il prezzo di una realizzazione stra-amatoriale.

Volendo lavorare su un formato a maggior qualità, in settimana ho provveduto all’acquisto di una scheda di memoria più capiente, ho atteso il primo giorno festivo utile (8 dicembre), mi sono alzato di buon’ora ed ho percorso l’intero anello di una cinquantina di chilometri guidando la bici con una mano sola, filmando con l’altra e blaterando qua e là commenti in gran parte eliminati in fase di editing.

La parte più impegnativa è stata però il giorno dopo, rimettere insieme i passa 250 spezzoni: tutto il pomeriggio del giovedì si è involato nella conversione di 20Gb di filmato formato .MOV in Full-HD 1080 in qualcosa di gestibile dal programma di video editing… quindi applicare gli effetti di transizione, tagliare le parti inutili, trovare le musiche adatte (open source su Jamendo.com, ché non ho soldi per pagare pure i diritti di riproduzione) montarle e confezionare il tutto.

Quindi, dulcis in fundo, esportare il tutto a bassa risoluzione per avere un file di dimensioni compatibili con l’upload su youtube (DivX) ed operarne il caricamento. E questo è il risultato.

Diciamo che mi sono dovuto praticamente inventare un nuovo mestiere in due giorni, e che metà di questo ponte festivo l’ho passato a lavorare, ma sono contento del risultato. Credo che restituisca bene quello che vede un ciclista in giro per la città, e la bellezza di andare in bicicletta perfino a Roma. Mi piacerebbe che potessero vederlo in tanti, non tanto per narcisismo (mi vedo orribile ed odio il timbro della mia voce registrata) ma proprio per diffondere l’idea dell’andare in bici.

Il video è pubblico, segnalatelo, consigliatelo, “embeddatelo” nei vostri blog e nei social network… e se qualcuno vi chiede cosa si prova ad andare in bicicletta fateglielo vedere, non sia mai che si convinca.

Misfatti e Togliatti – il Film

Ieri mattina mi sono alzato con un’idea bislacca in testa: realizzare un mini documentario sul disastro della pista ciclabile di Viale Palmiro Togliatti. Detto fatto, armato di bici, fotocamera ed un mini treppiedi mi sono recato sul “luogo del delitto” ed ho cominciato a riprendere diversi spezzoni commentando a braccio man mano che andavo.

Diciamo che sono stato fortunato perché arrivato alla fine della pista avevo del tutto riempito la scheda di memoria della macchina e sono riuscito a girare lo spezzone finale per il rotto della cuffia. Per contro il prodotto è stra-amatoriale e soprattutto la parte di ripresa audio nei punti in cui la bici prende velocità è pessima (la fotocamera ha i microfoni rivolti in avanti a prendere il vento, mentre io parlavo ovviamente da dietro).

Arrivato a casa mi sono dovuto scaricare dalla rete un programma di editing video ed imparare ad usarlo per il minimo necessario a tagliare i pezzi inutilizzabili dei filmati e riappiccicare tutto insieme, lavoro culminato con la compressione del file e l’uploading su Youtube. All’atto pratico ho tagliato pochissimo, ed anche per questo ne è venuta fuori una “mappazza” di tre quarti d’ora. In compenso il ritmo mi pare buono ed il “documentario“, sottoposto ai familiari, non li ha fatti addormentare (ridere sì, ma quello è un altro discorso…).

Insomma, ecco il risultato della “fatica” di ieri, senza titoli e con gli stacchi tagliati con l’accetta, e una piccola sorpresa (anche per me) nel finale.

P.s.: il guaio è che adesso ci ho preso gusto e già ragiono di farne un altro con l’intero G.S.A. (meno chiacchiere e più immagini, ovviamente)