La solitudine del blogger (#2)

Lo so, è un titolo ridicolo, ma un tema su cui ho ragionato molto negli ultimi tempi è proprio la solitudine, la mia. Tecnicamente non sono solo, ho accanto una moglie adorabile (anche se mi fa spesso arrabbiare), parenti che mi abitano vicini e frequento con continuità, amici che vedo e con cui sono in contatto epistolare quotidiano (o dovrei dire e-pistolare, visto che si svolge  esclusivamente via e-mail), insomma una rete relazionale ampia e diffusa.

E tuttavia qualcosa mi manca. Già, probabilmente mi manca… tutto il resto. Di fatto ho grosse difficoltà nel proiettare di fronte a me una visione ottimista del futuro. L’idea che “domani” starò un po’ meglio di quanto non stia oggi, o che ciò varrà per quelli che verranno dopo di me, o a dirla tutta che il mondo sarà, fra qualche anno, o decennio, un luogo più bello ed interessante di quanto non sia ora.

Questo, sicuramente, dipende dalle cose che trovo interessanti. Mi piace stare all’aperto, ammirare la natura nelle sue infinite forme, correre in bicicletta, vivere la mia componente ‘animale’ nei suoi bisogni basici: il cibo, il movimento, la compagnia, il riposo.

Al contrario, non mi piace particolarmente l’intrattenimento preconfezionato, non amo la televisione, rifuggo le attività che mi riducono al ruolo di spettatore passivo, detesto viaggiare inscatolato in un’automobile, trovo sgraziate e sommamente deturpanti le costruzioni moderne erette in contesti naturali.

Risulta tuttavia evidente, anche all’occhio più distratto, che in barba ai miei desideri il resto del mondo si muove invece proprio in queste ultime direzioni: intrattenimento passivo diffuso, cementificazione, omologazione culturale, distruzione dell’ambiente. C’è davvero poco di che essere ottimisti.

Da questo nasce il mio senso di solitudine: dall’essere circondato da ogni lato da persone che non riesco più a riconoscere come ‘miei simili’. La sensibilità ambientalista mi rende alieno al mondo contemporaneo, circondato da un’umanità ormai incomprensibile.

E non basta avere amici, anche tanti, che condividano questa ‘diversità’. Non bastano poche persone ragionevoli con cui relazionarsi occasionalmente o con continuità. Il senso di estraneità ed emarginazione resta forte, e invade con insistenza ogni minimo gesto.

Anche il puro e semplice tentativo di raccontarsi in un blog, e nel contempo di raccontare il mondo che cambia.

Una vita invasa dal divino

“Divine Invasioni – La vita di Philip K. Dick”, di Lawrence Sutin, è un libro che mi ha tenuto occupato negli ultimi mesi. La mia prima incursione nel settore delle biografie avviene quasi per caso, l’estate scorsa, nel corso di uno scambio di libri (book sharing) avvenuto nell’ambito dei Ciclopicnic al Pincio, e la devo a Fabio (che bizzarramente afferma di aver acquistato questo libro per farlo leggere a me…!). Chi fu, dunque, Philip K. Dick? Sicuramente uno dei più geniali ed immaginifici scrittori del secolo scorso, rimasto relegato per tutta la vita nel ‘sottogenere’ fantascientifico nonostante le, sempre frustrate, ambizioni di scrittore ‘mainstream’. Un sognatore di Universi, uno ‘scrutatore nel buio’, un esploratore di incubi, un naufrago delle meta-realtà.

Il mastodontico lavoro di ricostruzione di Sutin ci regala il ritratto affettuoso e disarmante di un’intelligenza onnivora prigioniera degli eventi, primo fra tutti la perdita della sorella Jane, avvenuta a pochi mesi di vita (evento che, strano a dirsi, segnò dolorosamente l’intera sua esistenza). Una mente lucidissima, una fantasia vulcanica frenata da insicurezze e paranoie, dipendente dagli psicofarmaci e completamente canalizzata nel gesto compulsivo di fissare idee mediante parole su carta. La maggior parte della sua vita consistette in interminabili sedute alla macchina da scrivere, fino a notte fonda, in uno studiolo angusto ingombro di libri.

Dal punto di vista del lavoro biografico, assolutamente capillare, ho trovato bizzarro ed indiscreto entrare così a fondo nella vita, negli affetti, nelle emozioni di un’altra persona (non credo che mi piacerebbe se dovesse accadere a me, ma fortunatamente penso di non correre rischi in tal senso). Tuttavia trattandosi di un personaggio a suo modo così eccezionale questa lettura analitica non manca di offrire numerosi spunti di riflessione.

In particolare colpisce l’ultimo periodo della sua vita, dall’inizio degli anni ’70 fino alla sua morte, segnato da ‘visioni divine’ ed esperienze ‘ultraterrene’ che tuttavia mai accettò fino in fondo. Come un mistico segnato dallo scetticismo scientifico, Dick continuò ripetutamente ed affannosamente a mettere in discussione le sue esperienze soprannaturali, senza però mai riuscire a decidersi per un’interpretazione piuttosto che per l’altra. Di questo riempì le circa ottomila pagine di un lavoro maniacale, tuttora inedito (direi inevitabilmente…) che intitolò a propria ‘Esegesi’.

Sutin si spinge al punto di offrirci una chiave di lettura medica a tali fenomeni inesplicabili, chiamando in causa l’epilessia del lobo temporale: una patologia cerebrale che, a differenza dell’epilessia ‘classica’, produce allucinazioni, perdita del senso di realtà e percezioni alterate. Spiegazione razionale a suo modo affascinante, ma ormai indimostrabile: come già detto lo scrittore morì per le conseguenze di una serie di attacchi cardiaci all’inizio dell’82.

Dick, quindi, come un profeta visionario della Bibbia nato fuori tempo ed ‘in terra ostile’, cercò di scendere a patti con le sue esperienze mistiche, e visse senza risparmio le sue due tensioni contrapposte: da un lato verso il divino, e dall’altro verso il raziocinio. Consumò con curiosità onnivora testi scientifici e trattati di filologia e mistica alla ricerca di una spiegazione definitiva che non arrivò mai.

Ma non è così essenziale definire quali cause, reali od immaginarie, produssero ciò che sperimentò, quanto cosa riuscì a trarne: decine di romanzi e racconti in cui la Realtà stessa viene credibilmente rimessa in discussione, ed i cui protagonisti (come in fondo fu per Dick, per un lungo arco della sua esistenza) vivono esperienze sconvolgenti, tali da incrinare la fiducia nella concretezza stessa dell’Universo.

Leggendo le sue opere ci immedesimiamo nelle spiazzanti situazioni vissute dai protagonisti, e nel loro perdere progressivamente fiducia nelle proprie percezioni, e finalmente nella concretezza ed attendibilità dell’Universo che li circonda, parallelamente rimettiamo in discussione anche le nostre certezze. Non un fabbricante di sogni futuristici, bensì un formidabile e lucido seminatore di dubbi scagliato all’attacco della nostra percezione della Realtà.

Il cielo dimenticato

Da qualche settimana ho preso a frequentare quotidianamente il sito web “Astronomy Picture of the Day” della NASA (l’ente spaziale americano). “APoD” pubblica ogni giorno una foto di interesse astronomico, corredata da una breve descrizione a cura di astronomi professionisti. Le foto possono essere molto tecniche, o di cultura generale, ma ugualmente sempre interessanti.Ne parlo oggi perché la foto che ho trovato pubblicata questa mattina mi ha lasciato di sale, ed il commento sottostante ancora di più. Dal momento che è in inglese mi do pena di tradurvelo per una miglior comprensione.


Cielo notturno protetto sopra Flagstaff

Questo cielo è protetto. Proprio ieri si è commemorato il 50° anniversario della prima “Ordinanza sull’Illuminazione” mai emessa, che vietò alle luci fotoelettriche pubblicitarie di spazzare i cieli notturni sopra Flagstaff, in Arizona. Flagstaff gode ora dello status di “Prima città internazionale dal Cielo Oscuro”, e mantiene una legislazione sull’illuminazione tale da limitare fortemente le luci artificiali dall’inquinare la maestosa visione del cielo notturno. Il cielo sopra Flagstaff non solo consente agli astronomi del locale osservatorio di esplorare i segreti del Cosmo, ma consente agli appassionati di astronomia di godere uno spettacolo contemplato in passato da ogni precedente generazione umana. L’immagina qui sopra, ripresa in direzione nord-est, è stata ripresa due settimane fa alle 3.00 di mattina da Fort Valley, a soli 10 km dal centro di Flagstaff. Nella parte bassa dello spettacolare panorama sono i San Francisco Peaks, incappucciati da una nube lenticolare. Più lontano il piano della Via Lattea si distende dall’angolo in basso a sinistra a quello in alto a destra, illuminato dalle costellazioni di Cassiopea, Cefeo ed il Cigno. In basso a destra la nebulosa Nord America è visibile appena sotto la brillante stella Deneb.


Un cielo simile a questo (le costellazioni erano necessariamente diverse) l’ho visto solo una volta in vita mia, lo scorso autunno da un deserto del Sudafrica. Il motivo è presto detto, i nostri sistemi di illuminazione notturna disperdono verso l’alto una grossa parte della luce prodotta. Basta arrivare in aereo di notte sopra una città come Roma per rendersene conto, sembra di vedere un immenso lampadario ancorato al suolo.

Questa luce dispersa rappresenta non solo uno spreco immane, ma anche un danno culturale, dal momento che le nuove generazioni hanno perso ormai anche la memoria di cosa sia un cielo stellato. Ricordo il racconto di una mia amica che, durante un viaggio in Croazia (all’epoca un paese appena uscito dalla dittatura comunista, e quindi non ancora devastato dai malcostumi capitalisti), mi raccontò dello stupore al rendersi conto del fatto che la Via Lattea fosse visibile ad occhio nudo (sì, ho messo un link, perché ormai dubito che anche voi lettori sappiate di cosa sto parlando…).

“La prima notte pensavo fossero nuvole”, mi disse. “Ma se fossero state nuvole avresti visto una zona scura, non chiara”, obiettai. Lei ribatté: “Ma a Roma le nuvole di notte sono chiare”. Ed io: “Beh, non è una cosa normale. Sono chiare a causa della luce prodotta dalla città. Ed è anche il motivo per cui da Roma le stelle non si vedono più”.

Eppure io ho ricordi di cieli stellati visibili da una terrazza che affacciava sulla Stazione Termini, quando adolescente chiesi in regalo ai miei un telescopio. Non si scorgeva già più la Via Lattea, ma tante stelle sì, e nelle notti più scure ancora si intravedevano al telescopio ammassi globulari e piccole nebulose.

Erano gli anni in cui cominciai ad occuparmi di divulgazione, nacque l’Associazione Romana Astrofili e con essa la manifestazione “Al Pincio sotto le Stelle”. Ricordo le serate estive passate a sistemare gli strumenti, e a dare spiegazioni ai curiosi sugli oggetti che stavano osservando.

Quanto a quella manifestazione, smisi di parteciparvi all’inizio degli anni ’90, suggerendo che si ribattezzasse “Al Pincio senza le Stelle”, considerando che ormai se ne vedevano, si e no, una decina tra le più brillanti. E le cose negli anni sono ulteriormente peggiorate.

Oggi non solo le stelle non si vedono più, ma anche la terrazza del Pincio è sparita, devastata dai lavori di costruzione di un mega-parcheggio sotterraneo, a parere mio e di molti di dubbia utilità. Nel frattempo il mio telescopio ‘serio’, un 8″ a specchio, è chiuso nella sua scatola da almeno un paio d’anni e non so dire quando ne uscirà.

Ci fu un tempo, circa dieci anni fa, in cui si partiva in macchina con gli amici per raggiungere le montagne dell’Abruzzo, a caccia di cieli bui. Cento chilometri in auto da Roma, e l’opzione migliore era Campo Felice, con alle spalle la luce prodotta da L’Aquila, e a sud-est quella degli impianti di Telespazio, nella piana del Fucino.

Oggi, però, l’inquinamento luminoso diffuso è ancora aumentato, ed il sacrificio di arrivare tanto lontano non ripaga più. Gli impianti di illuminazione pubblici e privati sono fatti male, disperdono luce verso l’alto e sprecano energia inutilmente. Tutti si lamentano che le bollette sono care e le tasse elevate, ma a compiere gesti sensati e consapevoli deve sempre pensarci qualcun altro/a.

A Flagstaff, ad esempio. E buon per loro. Ma a fronte di un caso unico al mondo bisogna fare i conti col resto, che ci racconta di quanto la norma sia, dappertutto, la stupidità.

Recita l’epitaffio sulla tomba del filosofo Immanuel Kant: “Due cose in vita mi furono sommamente care: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.

Magari sulla mia farò scrivere “Due cose in vita mi rattristarono: l’assenza di un cielo stellato sopra di me, l’assenza di una legge morale intorno a me”.

Sei miliardi e mezzo di "mulini a vento"

Sarà che mi sento sempre più vecchio e stanco, sarà che questa campagna elettorale mi sembra inutile e che penso il paese andrà a rotoli indipendentemente da chi vincerà e si siederà al banchetto finale per "spolpare le ultime ossa", sarà anche che ho perso la capacità persino di proiettare un’idea di futuro desiderabile davanti a me, ma ormai provo un fastidio fisico persino all’idea di continuare a portare avanti le lotte e le idee in cui ho tanto investito fino a qualche anno fa.

La cosa emerge in maniera prepotente non appena ricomincio a scrivere sulle mailing-lists di associazioni e gruppi, di cui pure, fino a non molto tempo fa, sono stato fautore, e che ho spesso aiutato a crescere. Questo è quello che ho scritto stamattina sulla ML di Critical Mass in risposta ad un ragazzo che commentava i lavori in corso ("in corso" da almeno due anni…) di una pista ciclabile.

Sono stato uno tra i primi a suggerire a Calamante ed Esposito di inserire una pista ciclabile nel "Corridoio della mobilità", ed ora mi ritengo disgustato da quello che ne è venuto fuori.
Prima al centro della carreggiata c’era un prato verde, ora ci sono parcheggi, pseudopiazze, deliranti spazi giochi per bambini (in mezzo a due corsie di traffico, rumore e scarichi pestilenziali), le auto e i camion parcheggiano impunemente sui pochi spazi verdi superstiti, insomma uno schifo.

In tutto questo c’è sì una pista ciclabile, che non è ancora finita né inaugurata, che serpeggia a zig zag e fa evoluzioni assurde, i cui attraversamenti non sono protetti, e l’unico motivo per cui a qualcuno/a sembra "nel complesso buona" è, secondo me, che non ha termini di paragone. Una ciclabile ben fatta qui non si è mai vista, anzi, mi allargo, un’opera pubblica ben fatta qui non si è mai vista. Abbiamo una sorta di "tocco di Mida" a rovescio, tocchiamo l’oro e si trasforma in piombo.

L’apoteosi di tutto questo è che la pista inizia a via Papiria, finisce a Centocelle e ricomincia a Colli Aniene. Doveva essere un collegamento di 9km tra Ponte Mammolo e Cinecittà ed è ridotta a due tronconi "di quartiere" mai inaugurati, già degradati, in buona parte inutilizzabili ed, all’atto pratico, scomodi ed infruibili da molti degli stessi ciclisti.

Se poi questo sia meglio che niente, se il "corridoio" avrebbe comunque prodotto degrado al posto di riqualificazione, se il tratto mancante tra Colli Aniene e via Prenestina mai si farà non lo so, e di fondo non mi interessa. Ho già visto abbastanza da perdere le speranze in qualunque possibile intervento.

Non si può combattere contro sei miliardi e mezzo di "mulini a vento".

Diceva Eduardo: "Ha da passà ‘a nuttata!"… purtroppo non passa.

La notte dei Morlock

A circa un decennio dall’acquisto (eh, sì, ho troppi libri ammucchiati in attesa di lettura, e da ormai troppo tempo) sono finalmente riuscito a leggere questo romanzo "pastiche" di Jeter, pubblicato da Urania nel ’99.

K. W. Jeter è uno degli autori fondamentali dell’ultimo trentennio, lo scopersi con "Telemorte" nel lontano ’86. Romanzo a più livelli, complesso, difficile. Seguii il bizzarro "L’addio orizzontale" e l’altrettanto allucinato "Madlands: terre impossibili", narrazioni in cui la realtà viene frantumata e ridefinita, partorisce incubi temporali, regredisce a precedenti stati di esistenza.

Ma il suo capolavoro, "Dr. Adder", scritto nel 1974, ha dovuto attendere quasi un decennio prima di trovare una casa editrice disposta a pubblicarlo. "Dr. Adder" è narrazione di un mondo in cui mutilazioni e perversioni sessuali sono il capolinea finale del Sogno Americano. Lettura che lascia segni profondi in chi la affronta.

"La notte dei Morlock", se fosse stato scritto oggi, potrebbe essere tranquillamente classificato come un’opera minore. Prende il via come una sorta di seguito della "Macchina del tempo" di H. G. Wells e subito parte per la tangente, introducendo elementi fantasy della saga di Artù ed Excalibur, un racconto improbabile ed affascinante ispirato all’epoca vittoriana.

"Opera minore", ho scritto, se non fosse per la data di pubblicazione: 1979. Vent’anni prima del suo arrivo in Italia. Trent’anni da oggi. Preceduto nelle librerie e nelle mie letture da molte opere sue discendenti e di gran lunga successive.

Anno di nascita che ne fa, al contrario, il capostipite di un intero sotto-genere letterario, frequentato da autori del calibro di William Gibson, Bruce Sterling, James P. Blaylock, Paul di Filippo, solo per citarne alcuni, e che risponde all’appellativo di "Steampunk". Molti avranno anche visto la trasposizione cinematografica del fumetto "League of Extraordinary Gentlemen" di Alan Moore.

Insomma, distrattamente mi sono ritrovato a leggere un piccolo "mattone fondamentale" dell’immaginario contemporaneo, scoprendone solo a posteriori collocazione temporale ed importanza. Bizzarro.

Full emersion

Lo scorso weekend mi trovavo in Molise per un giro in bicicletta. Ero molto curioso di scoprire una regione fin qui solo sfiorata nelle mie innumerevoli peregrinazioni ciclistiche. Quello che ho trovato ha coinciso con le aspettative: montagne appenniniche semideserte, piccoli paesi, cibi genuini, una terra ancora relativamente lontana dalla folle idea di "sviluppo" che impazza altrove.

Ma quello che più ho apprezzato è stata la sensazione di "full emersion" dalla quotidianità, dalle abitudini consolidate, dall’assillante rete di relazioni interpersonali di cui internet ci ha dotato. Perché alla fin fine è così: le e-mail, i blog, i forum, tutta la mole di informazioni disparatissime che gestiamo ogni santo giorno è sì interessante, utile, divertente… ma anche un baratro di ossessioni e comportamenti compulsivi in cui il rischio di perdersi è altissimo. "Staccare tutto" ogni tanto, almeno per me, è già ora un’esigenza vitale.

Ci riuscirò, ci riusciremo ancora, quando la rete sarà diventata, come tutto sembra far presagire, ben più diffusa e pervasiva di quanto non sia attualmente? Domanda inquietante. Il mio timore è che, come per tutte le forme di dipendenza non ben diagnosticate, anche la rete internet richiederà ad ognuno/a di noi costi psicologici che non siamo ancora lontanamente in grado di immaginare.

Ad ogni buon conto, se vi va di vederle (e perlomeno sognare di staccare un po’), con perfetta (in)coerenza rispetto a quanto appena affermato le foto del week end le trovate qui.