(prosieguo di una riflessione iniziata qui)
Parte sesta: l’ideologia del consumo globale
Consumare [dal lat. consumĕre]. – v. tr. 1. a. [usare qualcosa fino a esaurirla: c. un vestito] ≈ (ant.) consumere, (non com.) lisare, logorare, sciupare, usurare. b. [usare qualcosa fino al suo esaurimento: c. le sigarette; c. il patrimonio] ≈ dare fondo (a), esaurire, finire, terminare. c. [in riferimento a patrimoni e sim., esaurire in modo sconsiderato] ≈ bruciare, dilapidare, dissipare, scialacquare, sciupare, spendere, sperperare, sprecare…
La lettura di dizionari ed enciclopedie risulta talvolta illuminante, perché ci chiarisce il significato vero di parole che l’uso comune ha nel tempo distorto. Una di queste parole è “consumare”. La utilizziamo ormai talmente spesso e in così tante formulazioni differenti da aver finito col perdere la sua reale accezione.
L’idea che il “consumo” sia parte integrante della nostra cultura è ormai universalmente accettata, anche in virtù del fatto che i “consumi” hanno prodotto un livello di benessere e ricchezza quale l’umanità non aveva mai sperimentato (e forse neppure sognato) nei millenni precedenti.
Definiamo la nostra cultura come “società dei consumi”, e la cosa non ci turba. Abbiamo creato associazioni “per la difesa dei consumatori” con l’intento di aiutare i cittadini nello svolgimento della funzione primaria di compravendita di beni e servizi. Arriviamo perfino a formulare un concetto come “consumo critico”, ritenendolo eticamente accettabile.
Ma il termine “consumare” non è neutro, il suo significato vero è erodere (un bene, una risorsa) fino all’esaurimento. La realtà è che stiamo, lentamente ma inesorabilmente, consumando il mondo, l’unico mondo che abbiamo.
Non solo abbiamo dato fondo a ritmi crescenti alle risorse fossili, ma stiamo esaurendo l’acqua potabile, il terreno fertile, la biodiversità. Tutte cose (ad esclusione della prima, divenuta essenziale solo in tempi relativamente recenti) da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza. L’esito finale della “società dei consumi” sarà l’esaurimento delle risorse che producono il nostro benessere, ed a seguire di quelle che ci mantengono in vita.
E, quel che è peggio, le stiamo esaurendo sconsideratamente ed a ritmi crescenti semplicemente perché l’ideologia del consumo pretende che ciò avvenga. Così descriveva tale ideologia, negli anni ’50, l’economista americano Victor Lebow:
«La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, di trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumo. La misura dello status sociale, dell’accettazione sociale, del prestigio, dovrà essere individuata nei nostri modelli di consumo. Il vero senso e significato della vita moderna espresso in termini di consumi. Quanto più forte sarà la pressione sull’individuo per conformarsi a standards sociali sicuri ed accettati, tanto più egli tenderà ad esprimere le proprie aspirazioni e la propria individualità in termini di cosa indossi, guidi, mangi, la sua casa, la sua automobile, le sue abitudini alimentari, i suoi passatempi. Queste merci e servizi dovranno essere offerti al consumatore con particolare insistenza. Abbiamo bisogno non solo di consumi su “schemi obbligati”, ma preferibilmente di consumi “costosi”. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore. Abbiamo bisogno di gente che mangi, beva, vesta, cavalchi, viva, in un consumismo sempre più complicato e, di conseguenza, sempre più costoso. Gli utensili elettrici domestici e l’intera linea del fai-da-te sono ottimi esempi di consumo costoso.»
Cosa faremo quando le risorse da cui dipendiamo saranno esaurite? Nessuno se lo domanda. Molti pensano che la questione non si porrà nell’arco della propria vita, altri evitano di porsi il problema compiendo un atto di fede cieca nel potere illimitato della scienza e della tecnologia, nuove divinità taumaturgiche contemporanee, di inventare sempre nuovi modi per soddisfare le nostra brame inappagabili.
La verità, molto semplice, è che l’unica maniera nota di “durare” nel tempo, non tanto come singoli quanto come civiltà (se così si può definire), sta nel ridurre “l’usura” alla quale stiamo sottoponendo il nostro pianeta. Quell’usura che ci ha a tal punto preso la mano da diventare ideologia e porsi come indiscutibile.
Per far questo occorrerebbe un’enorme e simultanea presa di coscienza collettiva, ma questo non avverrà, per il semplice motivo che siamo umani. Come i topi dell’esperimento di Olds continueremo a pigiare il pulsante dell’appagamento personale, dei “consumi” sfrenati, fino alla morte, nostra e di questa sedicente “civiltà”. Nessuno scenario alternativo appare al momento verosimile.
Quando il sistema enormemente complesso ed enormemente energivoro che abbiamo prodotto collasserà, potremo legittimamente attenderci un disastro globale, cui sopravviveranno (forse) solo quelle culture tradizionali abituate a basare la propria sussistenza sulla gestione equilibrata dell’esistente e delle risorse rinnovabili.
Sempre che, nel frattempo, l’accumulo di alterazioni ai meccanismi vitali del pianeta non riesca a produrre un disastro talmente catastrofico da riportare la biosfera indietro di milioni di anni, al tempo dell’estinzione di massa del Permiano-Triassico. Ne parleremo, forse, più in là.