2013 in review

The WordPress.com stats helper monkeys prepared a 2013 annual report for this blog.

Here’s an excerpt:

The concert hall at the Sydney Opera House holds 2,700 people. This blog was viewed about 28,000 times in 2013. If it were a concert at Sydney Opera House, it would take about 10 sold-out performances for that many people to see it.

Click here to see the complete report.

Bikeitalia.it

Da qualche mese la mia attività di blogger si divide tra questo sito e il portale bikeitalia.it, dove scrivo cose di bici. All’inizio ho usato questo blog per segnalare l’uscita di articoli, poi la cosa mi è un po’ sfuggita di mano. Siccome in futuro prevedo di postare su Bikeitalia con maggior frequenza, vi aggiornerò periodicamente con post riassuntivi delle uscite, a cominciare da questo.

19 novembreUn modello urbanistico per l’individuazione delle criticità…
Sostanzialmente un riassunto della serie di articoli pubblicata qui col titolo “Ripensare la ciclabilità urbana”, integrata con la presentazione in PowerPoint del modello effettuata in occasione di un incontro coi referenti comunali.

28 novembreCominciare dalla fine
Un intervento sul futuro del movimento #Salvaiciclisti, attualmente in bilico tra attivismo anarchico e necessità di strutturazione.

19 dicembreBambini in bicicletta
Le mie esperienze di “zio ciclista” alle prese con la didattica della bicicletta.

19 dicembreSchizofrenia istituzionale
Una breve riflessione sulla distanza siderale che intercorre tra le roboanti promesse degli amministratori capitolini e la sostanziale pochezza dei fatti prodotti.

Sindrome post traumatica

Dell’incidente che mi ha visto protagonista sabato scorso, in rete sono già girate parecchie informazioni. Tanto spavento ma, per fortuna, danni solo alla bicicletta.

In due parole la dinamica dei fatti: un’auto sporge il muso da una via laterale sulla strada dove sto transitando, si ferma, io penso che mi stia dando la precedenza e mi sposto leggermente a sinistra per scorrergli davanti. Improvvisamente però l’auto riparte e procede nella manovra di immissione nella corsia del senso di marcia opposto al mio, tagliandomi la strada ed impattando col paraurti la mia bici.

L’ultima cosa che ricordo è di aver gridato: “NOOOOOOOO”, poi l’angolo del cofano che mi viene incontro mentre cerco di rallentare… subito dopo atterro in piedi, flettendo leggermente le gambe, sulla strada dal lato opposto del cofano. Mi rialzo e comincio ad inveire urlando frasi sconnesse. L’automobilista che mi guarda e pronuncia la fatidica frase: “Scusa… non ti ho visto!”

Sul cosa sia successo negli istanti dell’impatto posso solo fare ipotesi. Dalla dinamica, per come l’ho raccontata e me la ricordo, devo essere rotolato di schiena sul cofano dell’auto, appoggiando la spalla destra, in modo da ricaderne fuori, in piedi sul lato opposto, distendendo le gambe.

Molto probabilmente non si è trattato del semplice effetto dell’impatto: in qualche maniera d’istinto ho accompagnato l’urto, come fanno gli stuntman. Solo il giorno dopo mi sono ricordato di un movimento simile, nei giochi che facevo da ragazzo, prendendo la rincorsa per saltare di schiena su un letto (a due piazze) e rotolarne poi fuori. Il mio corpo conosceva quel movimento ed istintivamente l’ha utilizzato.

Insomma, ne sono uscito miracolosamente incolume, con solo una contusione alla mano sinistra ed un mezzo graffio sotto il ginocchio destro, quasi come se nulla fosse successo, al punto che invece di andare al pronto soccorso mi sono fatto accompagnare da Manu all’incontro a cui mi stavo recando in bicicletta, dove contavo di fare un intervento sui “corridoi ciclopedonali”.

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? No, decisamente no. Per l’intera serata ed il giorno seguente sono stato ossessionato dal pensiero di quei pochi istanti fatali, e da tutta una serie di domande senza risposta. A chi mi chiedeva “come va?” rispondevo: “mi sento a metà tra un miracolato e Spiderman”… sottacendo il disagio nell’ironia.

In piccolo, molto in piccolo, è una forma di “sindrome post traumatica”: la sensazione perdurante di essere sfuggiti per qualche misteriosa sorte ad un destino ben peggiore. Di essere stati graziati, per non si sa bene quale motivo. Inspiegabilmente incolumi mentre gli altri vengono feriti ed uccisi. Testimoni muti del fatto che l’angelo della morte può arrivare fino al punto di sfiorarti, e senza motivo alcuno lasciarti andare.

Giovedì 26 dicembre torna il G.S.(S.)A.

Come ormai consuetudine pluriennale (siamo alla terza edizione) il 26 dicembre torna il “Grande Santo Stefano Anulare”, da un’idea partorita nel 2011 da Sergio Trillò: smaltire gli eccessi alimentari delle festività percorrendo il G.S.A. La proposta ha ottenuto un’adesione entusiastica, raggiungendo in poco tempo il centinaio di partecipanti. Qui un video dall’edizione 2012: Prima parteSeconda parte.

L’appuntamento per il 26 è alle ore 9.00 a Piazzale Ostiense, nel giardinetto al centro della piazza, facilmente raggiungibile con treni urbani e metropolitane (caricando la bici)

L’itinerario sarà percorso in senso orario, e presenterà delle significative differenze rispetto alle edizioni precedenti, in particolare nella parte nord-ovest del tracciato.

L’iniziativa è, come al solito, informale, senza organizzazione o gestione dei partecipanti: noi si va, chi vuole si aggrega consapevolmente e responsabilmente. Per partecipare sarà sufficiente presentarsi all’appuntamento, ma sarà gradito se segnalerete la vostra adesione su Facebook o sul forum Cicloappuntamenti.

Ho mentito ai miei nipotini

Ebbene sì, lo ammetto, sono un essere abietto. Ho mentito. Ho mentito a due creature innocenti, due bambini di sette e cinque anni, Emanuele e Leonardo. Ho mostrato loro una città immaginaria al posto di quella in cui cresceranno, ed ora mi domando cosa penseranno di me da grandi.

Il fatto è che mi è sempre piaciuto andare in bicicletta, ed essendo bambini, ovviamente, anche a loro. Altro fatto è che l’autonomia di un bimbo pedalante è molto maggiore di quella che immaginiamo. Un terzo fatto ancora è che questa cosa la sapevo benissimo fin dal principio…

Quindi non ho scusanti, ero consapevole di quello che sarebbe successo. Ero consapevole che pian piano, uscendo dal loro portone di casa ed entrando in Caffarella, avrebbero finito con l’esplorare l’intero parco fin nei meandri più riposti.

Entrambi hanno imparato a pedalare senza le rotelle laterali ben prima dei quattro anni, lo spirito competitivo tra fratelli ha fatto il resto. Leonardo, a cinque anni non ancora compiuti, sapeva già usare una bici col cambio a sei velocità.

Quindi nei weekend, come nelle occasionali uscite infrasettimanali, pian piano ci siamo girati l’intero parco, finché non ci è diventato stretto. A quel punto ho iniziato a portarli fuori, sfruttando la mia capillare conoscenza di strade, stradine e sentieri romani, raggiungendo in sicurezza altri parchi, altre aree verdi.

Dalla Caffarella li ho portati sull’Appia Antica, fino a raggiungere il parco degli Acquedotti. Siamo arrivati al Circo Massimo usando le piste ciclabili, e sulla banchina del Tevere. Con la metropolitana abbiamo raggiunto villa Borghese, e pedalato fino a villa Ada e ponte Nomentano.

Poi, pochi giorni fa, la raggelante domanda: “che idea si saranno fatti della città?” Ho febbrilmente ricostruito tutti i giri che li avevo portati a fare, rendendomi conto di quanto parziale fosse quella visione, di quanto li avessi tenuti intenzionalmente lontani dalla realtà, di quanto edulcorato fosse il mondo a cui li avevo esposti.

Perché, inevitabilmente, le strade cittadine non sono luoghi in cui portare in bici i bambini. La città vera è troppo ostile, selvaggia e brutale, con spazi interamente destinati alla marcia ed alla sosta degli autoveicoli, e di conseguenza vietati ai bambini.

Quella di cui hanno fatto esperienza è quindi una realtà mendace, una finzione, un mondo a misura di bambino che non corrisponde al vero, una menzogna. Cresceranno pensando che Roma è fatta di boschi, fiumi, aree giochi nel verde inframmezzati da un po’ di palazzi qua e là, in lontananza, dove la gente vive.

Crederanno di abitare in una realtà piacevole e vivibile, anziché nel mostro di cemento, asfalto e lamiere che ci circonda. E sarà colpa mia se penseranno questo… anche se… la responsabilità vera sarà di quelli che questa mostruosità l’hanno voluta, o passivamente subita. E che nulla fanno per porvi rimedio.

Leo

Meu amigo Charlie Darwin

Darwin

Ho appena finito di leggere “L’origine delle specie”, testo semi-leggendario di cui sento parlare fin dai tempi delle scuole superiori. E’ un fatto notevolmente bizzarro, considerato il tipo di letture in cui indulgo solitamente, ma l’occasione di ritrovarmelo tra le mani in libreria poco più di un mese fa, l’aprirlo a caso ed il rimanere fulminato da un concetto espresso in sola mezza paginetta, hanno fatto sì che non potessi rimandarne ulteriormente la lettura.

Eppure, va da sé, nel secolo e mezzo trascorso dalla pubblicazione di questo testo sono avvenute tante e tali scoperte da far sentire un contemporaneo (me compreso), seppur padrone solo di un’infarinatura dei concetti, come su un piedistallo rispetto al naturalista inglese, che nulla poteva sapere di genetica, acidi desossiribonucleici, datazioni al carbonio radioattivo e via elencando.

Per quanto mi riguarda, poi, sono cresciuto talmente immerso nella teoria dell’evoluzione da ritenermi un “darwiniano” tout-court (come testimoniano molti dei post pubblicati su questo blog). Se non che, ad un certo punto, ho sentito la necessità di confrontarmi col pensiero originale, come per “abbeverarmi alle fonti del sapere”, pur temendo di scontrarmi con concetti datati, ed in qualche caso ormai obsoleti.

Niente di tutto questo. L’esperienza è stata scioccante: la modernità di questo testo è incredibile, e tale la grandezza del pensiero di Darwin da mangiarsi in un boccone un secolo e mezzo di avanzamento tecnologico e culturale. Altrettanto sconvolgente constatare con quanta fatica e difficoltà la cultura contemporanea ancora oggi riesca a maneggiare idee che Darwin seppe delineare con chiarezza e lucidità estreme in un’epoca tanto remota.

Gioverà una breve cronistoria dei fatti. Cresciuto in una famiglia benestante, il giovane Charles viene attratto dalle scienze naturali e finisce con l’imbarcarsi in una spedizione della durata di cinque anni, quella del Beagle, che lo porterà a raccogliere campioni animali e vegetali ai quattro angoli del mondo, dall’Africa al Sudamerica, dalle isole del Pacifico all’Australia. Una mole di materiale tale da tenerlo occupato per molti anni dopo il ritorno a casa e documentata nel volume “Viaggio di un naturalista intorno al mondo”.

Probabilmente nel corso di questo viaggio, e dal confronto di molte specie animali e vegetali, concepisce una teoria destinata a sconvolgere il mondo. Ne è talmente preoccupato, e forse atterrito, da passare i successivi venti anni nel tentativo di metterla in discussione da tutti i punti di vista possibili. È solo quando le stesse idee cominciano ad affacciarsi nel mondo scientifico, elaborate in maniera indipendente da Alfred Russel Wallace, che, su pressione dei suoi amici naturalisti, si decide a mettere le sue conclusioni nero su bianco, pubblicando, appunto “L’origine delle specie”.

A quali conclusioni era dunque giunto Darwin, e perché le riteneva sconvolgenti? Anche qui gioverà ricapitolare il contesto. Agli inizi dell’ottocento, in piena rivoluzione industriale, il commercio marittimo cominciava a collegare insieme i diversi angoli del mondo, mettendo in comunicazione le civiltà e trasformando decisamente il volto del pianeta ed i modi di pensare consolidati delle persone.

Nell’ambiente scientifico le scoperte si susseguivano una dietro l’altra, svelando molti dei segreti della natura, dal moto dei pianeti, alla composizione chimica, alle leggi fisiche, confermando l’idea illuminista che l’Universo potesse divenire, in breve, qualcosa di comprensibile, un grande meccanismo regolato da leggi e non, come ritenuto in passato, dalla volontà di Dio.

Mentre la neonata paleontologia stava mettendo in discussione la datazione biblica della nascita del mondo, uno degli ultimi baluardi residui del pensiero religioso consisteva nell’esistenza di tante meravigliose varietà e forme di vita, strettamente intrecciate tra loro, la cui origine restava inspiegabile. Cos’altro, se non un pensiero superiore, poteva aver ideato e realizzato gli uccelli, gli insetti, i pesci, i mammiferi, e tutta la stretta rete di relazioni che tra essi intercorre?

Darwin partì da pochi, semplici ed incontestabili punti:

1) La riproduzione sessuata di tutte le forme di vita produce una prole sempre in qualche misura dissimile dai genitori, mescolando i caratteri propri di entrambi in maniera imprevedibile

2) Il numero di individui che nasce è sempre superiore al numero degli individui che riesce a sopravvivere e riprodursi, quindi le “diversità” tra individui giocano un ruolo in questo meccanismo, premiandone alcuni e penalizzandone altri.

3) Il lavoro degli allevatori consiste esattamente in questo: una selezione artificiale degli individui in base alle caratteristiche desiderate che, nell’arco di pochi secoli, è riuscita ad elaborare creature molto dissimili in piante ed animali le cui “forme base” sono diffuse in regioni estremamente ampie. Lo stesso può verificarsi in natura, spontaneamente, su tempi più lunghi.

Cosa dovremmo aspettarci proiettando questo meccanismo su un arco temporale inconcepibilmente vasto, centinaia di milioni di anni, miliardi di generazioni ognuna composta di milioni o miliardi di individui, perpetuamente in lotta per la sopravvivenza e la riproduzione coi loro vicini?

Ogni lieve variazione, prodotta in maniera casuale (e oggi sappiamo anche con quale meccanismo fisico si producono le mutazioni casuali) comporterà uno svantaggio o  un vantaggio per l’individuo, che si tradurrà o nella morte dell’individuo, o in un vantaggio per l’intera discendenza, e quindi per l’intera specie. Nel corso dei secoli e dei millenni questo meccanismo può dar conto della differenziazione delle specie e, dato un arco temporale sufficientemente lungo, come quello che Darwin poté intuire dalla sua esperienza giovanile di paleontologo, sviluppare, a partire da creature estremamente semplici e rudimentali, tutte le forme di vita presenti sulla Terra.

Sebbene le sue considerazioni possano risultare evidenti oggi, un secolo e mezzo dopo la pubblicazione dell’Origine delle Specie, con tutti i riscontri prodotti dall’analisi del DNA e dalle ulteriori scoperte di fossili, Darwin era consapevole di quello che una simile “eresia” avrebbe prodotto nella sua epoca. Letteralmente stava togliendo di mano a Dio l’ultimo merito ancora incontestabile: la creazione del mondo. In secoli passati gente era stata bruciata viva per molto, molto meno.

Passò quindi vent’anni della sua vita a cercare crepe, difetti, interpretazioni non spiegabili, a metterla e mettersi in discussione, provando in ogni modo ad evitare la pubblica crocifissione. Ma non ne trovò, o comunque ne incontrò di molto più gravi ed inspiegabili nell’idea della creazione divina.

“L’Origine delle Specie” è esattamente questo: una lunghissima cavalcata intellettuale in cui l’esperienza di una vita passata ad esplorare popolazioni vegetali ed animali ai quattro angoli del mondo, ed a documentarsi sulle ricerche di eminenti botanici e naturalisti dell’epoca, converge in una schiacciante mole di evidenze rispetto ad una tesi per l’epoca ancora indimostrabile in laboratorio.

Darwin si interroga sull’evoluzione dei singoli organi e su come possano essere discesi da organi più semplici e rudimentali, o destinati ad altri scopi. Si domanda come possano popolazioni diverse, appartenenti a specie consimili, essere giunte a popolare luoghi isolati e molto lontani gli uni dagli altri. Immagina le migrazioni prodotte dalle ere glaciali, immagina i semi trasportati dagli iceberg da un continente all’altro, comprende come le isole oceaniche possano essere state popolate da mammiferi volanti (i pipistrelli) pur restando disabitate da quelli di terra.

Comprende il successo riproduttivo delle specie eurasiatiche, importate in piccole isole come la Nuova Zelanda, ai danni delle specie autoctone, e per contro l’insuccesso delle specie neozelandesi a popolare la vecchia Europa. Dà ragione delle somiglianze, a livello embrionale, di specie la cui forma finale è molto dissimile, ed altro ancora. Una mole sconfinata di riflessioni, osservazioni, considerazioni, ragionamenti.

L’Origine delle specie è un viaggio intellettuale attraverso il tempo e lo spazio, uno sterminato documentario su carta che ci porta avanti e indietro dall’Europa, all’Africa, alla Terra del Fuoco, alle isole Galapagos, alle profondità degli oceani, alle vette montane isolate, e indietro nel tempo, all’epoca glaciale, a quella pre-glaciale, al Carbonifero, al Siluriano, avanti e indietro instancabilmente.

Un’idea del mondo, in fondo, estremamente semplice, elegante e facilmente comprensibile a tutti. Ma con un difetto enorme: quello di togliere l’uomo dal vertice della creazione, di renderlo un semplice “accidente” prodotto dall’evoluzione e non già la specie eletta, quella che ha ricevuto da Dio il governo della Terra.

I suoi coevi non accettarono l’idea che l’umanità potesse discendere dalle scimmie (Darwin era troppo lucido per affermare questo, ma così finì interpretato il suo pensiero), similmente l’umanità attuale fatica ad accettare il fatto che tutti i mammiferi attuali discendono da quelli sopravvissuti all’estinzione dei dinosauri: piccoli roditori non dissimili dai nostri topi. L’umanità è troppo orgogliosa (e stupida) per accettare di mescolarsi alla pari con le altre specie con cui condivide l’ecosistema globale.

L’ultima offesa, per Darwin, sono i molti modi in cui le sue idee sono state piegate alle ideologie politiche pseudo-razionalizzanti, all’eugenetica, al razzismo. Leggere l’Origine delle Specie ci porta a contatto con una mente che letteralmente non distingueva, in via formale, tra animali e piante, figuriamoci se avrebbe mai potuto mettere su piani diversi popolazioni della stessa specie discriminabili solo dalla diffusione geografica o dal colore del rivestimento epidermico.

E c’è, sopra tutto, l’esaltazione della “diversità” come ricchezza. L’asserzione incontrovertibile che le specie di maggior successo sono anche quelle con il più alto tasso di differenziazione e variazioni. L’evidenza che più una razza diventa “pura”, prima è destinata ad estinguersi. La certezza, infine, che siamo solo “di passaggio” su questo pianeta, non solo come individui, ma anche come specie.