Da un paio di giorni impazza sui media la questione "OGM sì, OGM no", in seguito all'approvazione rilasciata dal Parlamento Europeo alla BASF per la coltivazione di una varietà di patate geneticamente modificate per uso industriale (con la possibilità di riusarne gli scarti di produzione per l'alimentazione animale).
La notizia in sé segna un cambio di direzione nell'orientamento delle istituzioni comunitarie rispetto alle biotecnologie, il cui utilizzo e la cui coltivazione in seno all'Unione Europea erano stati sin qui fortemente limitati. Le scelte del passato avevano da un lato accontentato gli ambientalisti, ma anche prodotto nel tempo una perdita di competitività del comparto agroalimentare, e soprattutto non hanno impedito che gli allevatori E.U. scegliessero OGM prodotti all'estero per l'alimentazione animale.
Una curiosità immediata riguarda lo scalpore suscitato dalla notizia che questa nuova varietà di patate, denominata Amflora, conterrebbe un gene "per la resistenza agli antibiotici". Ohibò, mi sono chiesto, e che ci fa una patata con la "resistenza agli antibiotici"? Da quando in qua si danno gli antibiotici alle patate?
La realtà dei fatti è saltata fuori grazie al blog di una ricercatrice in biotecnologie: il gene per la resistenza agli antibiotici viene inserito come parte del processo di ingegnerizzazione, e serve a selezionare i ceppi in cui la modificazione genetica ha avuto successo. Oltretutto, viene affermato, si tratta di antibiotici ormai datati per i quali la maggior parte dei microorganismi ha già sviluppato spontaneamente forme di resistenza, e sono ormai praticamente in disuso nella farmacologia attuale.
La cosa paradossale è che un comunicato stampa iniziale, dal contenuto quantomeno "improprio", rilasciato, pare, da Greenpeace, sia stato rimbalzato pari pari sia in rete che sui giornali senza che nessuno si sia posto la fatidica domanda "che ci azzecca?". E che si sia in seguito sviluppato tutto un fiorire di commenti ed illazioni completamente campate per aria, da parte dei soliti "tuttologi" molto spesso già da tempo schierati.
Il primo ad essere scomodato, in questi casi, è il cosiddetto "principio di precauzione": non usare un prodotto finché non ne siano noti i rischi. Concetto in sé sacrosanto, se non fosse che analisi dei rischi ne sono state effettuate, ma ovviamente la diffidenza rimane dal momento che la comprensione, da parte del grande pubblico, delle metodologie scientifiche utilizzate per l'analisi di tali rischi è estremamente limitata.
Da più parti si arriva a chiedere alla scienza "certezze", che la scienza non può dare. Non è possibile prevedere il futuro con insindacabile certezza, si possono descrivere delle osservazioni, effettuare analisi statistiche, produrre dei "modelli" e delle estrapolazioni più o meno attendibili, descrivere la futura evoluzione degli eventi in termini di probabilità. Qualcosa di incompatibile con l'esigenza di sentirsi dire "sì o no" della maggior parte di noi.
Per scoprire che incidenza statistica di decessi può eventualmente avere l'introduzione di un nuovo alimento (e si noti che stiamo parlando di un prodotto non destinato all'alimentazione umana) l'unica maniera è una sperimentazione su larga scala, comprensiva di un gruppo "di controllo" che, senza saperlo, non venga sottoposto alla sostanza. Sui problemi etici sollevati da questo tipo di sperimentazione, peraltro standard per i nuovi farmaci, ancora si dibatte.
Far morire delle persone per scoprire che delle persone muoiono non pare molto simpatico e riporta alla memoria il dott. Mengele. Allora che si fa, si sperimenta sugli animali… Quanto è attendibile questa sperimentazione? Poco, forse, ma è il meglio che si possa fare. Queste verifiche sono state fatte, e tuttavia rimane difficile convincere l'opinione pubblica.
Anche qui si nasconde un problema di scarsa conoscenza, ed è peraltro improponibile teorizzare che ognuno di noi possegga le competenze per valutare correttamente studi ed analisi di tale complessità. La mole di sapere prodotta dalla ricerca scientifica negli ultimi secoli è ormai tale da travalicare di diversi ordini di grandezza le umane capacità di comprensione.
È evidente negli articoli redatti da non esperti, come pure nelle discussioni in rete, una diffusa confusione, oltre che sugli argomenti specifici del dibattere, proprio sul rapporto tra scienza, politica e tecnologia. La scienza si occupa di descrivere la realtà che conosciamo, la tecnologia di produrre manufatti, la politica di decidere quali tecnologie siano "accettabili" e quali no (in base all'etica? In teoria …facciamo finta di crederci).
La scienza studia il comportamento del DNA e dei geni che lo compongono, la tecnologia studia il modo di sfruttare questa conoscenza per ottenere un ritorno economico attraverso la produzione di nuovi manufatti, la politica decide se i rischi dell'introduzione di questi manufatti siano compatibili coi benefici che ci si aspetta.
Le biotecnologie, quindi, sono l'applicazione sperimentale di una branca della scienza ancora in evoluzione, e mantengono strette affinità con la ricerca stessa. Si maneggiano i mattoni fondamentali della vita per produrre varietà di organismi viventi con caratteristiche desiderabili, ad esempio varietà di vegetali più resistenti ai parassiti (…o ai diserbanti, cosa ahinoi commercialmente più vantaggiosa per ovvi motivi…).
Fin qui niente di nuovo, la nostra specie ha da sempre il vizio di pasticciare col genoma delle altre forme di vita. Lo abbiamo fatto addomesticando animali da compagnia e da macello, trasformando i lupi in una pletora di specie canine eterogenee, producendo biodiversità per mezzo di incroci selettivi. In questo quadro le biotecnologie non fanno altro che offrire nuovi strumenti a questa nostra umana inclinazione al "giocare ad essere Dio".
La principale preoccupazione deriva dal fatto che chi sviluppa le nuove tecnologie biotech (e ne detiene i diritti di proprietà) muove risorse economiche importanti, ed è quindi in grado di influenzare l'eticità delle scelte politiche. Questo è per molti motivo di sospetto, dato che da che mondo è mondo le multinazionali hanno il solo interesse di massimizzare i propri guadagni, anche a spese dei propri clienti.
Per nostra fortuna i massimi profitti non si realizzano sterminando la clientela, ma i danni fatti in passato dall'introduzione frettolosa di tecnologie non sufficientemente collaudate, ed i cui effetti collaterali erano stati sottostimati, hanno reso la pubblica opinione sanamente diffidente. Resta il fatto che anche molte pratiche agricole attuali, pur tollerate, rimangono fortemente deleterie.
La domanda su "quanti morti" potrà causare (eventualmente) la patata OGM potrebbe essere accomunata ad altre: quanti morti produce l'attuale agricoltura a base di pesticidi (soprattutto tra i contadini, soprattutto quelli del terzo mondo)? Che facciamo, aboliamo i pesticidi? Quanti morti produrrebbe la successiva carestia di generi alimentari? Oppure, passando ad un altro tema che mi è caro, quanti morti (perfettamente quantificabili, stavolta) producono le automobili? Perché allora non aboliamo le automobili?
Perciò, prima di sparare ad "alzo zero" su tutto ciò che è OGM, andrebbe considerato che l'agricoltura tradizionale è tutto fuorché "naturale", a partire dall'utilizzo di pesticidi e diserbanti, passando per la perdita di biodiversità dovuta alla riduzione delle colture alle varietà più facilmente commerciabili, per arrivare all'uso massivo di fertilizzanti chimici che, assieme alla deforestazione, ha prodotto il progressivo danneggiamento ed impoverimento dei suoli.
La scelta non è, come strumentalmente suggerito dal fronte "anti-OGM", tra "natura incontaminata" da un lato e "biomostri" della scienza prometeica dall'altro. L'agricoltura attuale è già del suo artificiale. I pesticidi normalmente utilizzati nelle colture lasciano residui nella catena alimentare. Lo sfruttamento intensivo dei terreni ne provoca il progressivo impoverimento, con cui a breve finiremo col fare i conti.
La stessa invenzione dell'agricoltura ha drammaticamente trasformato il volto del pianeta, assoggettandolo alle esigenze di una specie, la nostra, lanciata in una corsa esponenziale verso la crescita demografica. Una specie di predatori che ha progressivamente occupato ogni nicchia ecologica, trasformando e rimodellando il volto del pianeta a propria immagine e somiglianza.
Ad oggi, la stragrande maggioranza di tutta la biomassa presente sulla Terra è riconducibile alle attività dell'uomo. Oltre ai quasi sette miliardi di esseri umani ci sono gli animali di cui ci alimentiamo, i vegetali con cui nutriamo noi stessi ed i nostri animali, quelli che coltiviamo per ottenerne manufatti o calore. Quel che rimane di "natura incontaminata" è già oggi residuale, ed oltretutto in continuo declino.
Il primo ed unico problema dell'umanità è il fatto che, non più intelligentemente dei virus, ci stiamo riproducendo ad un ritmo eccessivo, e finiremo con l'uccidere l'organismo che ci ospita: il pianeta Terra. A poco servirà scegliere se ucciderlo con l'agricoltura tradizionale o con quella biotech, col consumo di carne, coi combustibili fossili o con quelli atomici. Il global warming misura la "febbre" di un organismo sottoposto a stress da troppi parassiti, forse proprio un meccanismo "naturale" per liberarsene.
Una possibile "via migliore" esiste, e lo dimostra il lavoro pluridecennale di Masanobu Fukuoka, ispiratore e fautore di un approccio totalmente innovativo all'agricoltura, consistente nell'eliminazione della maggior parte delle pratiche tipiche dell'agricoltura intensiva a favore di una cura manuale ed il più possibile "naturale" dei terreni e delle colture. Un approccio talmente radicale da suscitare l'incredulità dei più, anche se la sua azienda agricola ed i risultati concreti che è riuscito a produrre nel corso dei decenni stanno lì a dimostrare la validità della sua "eresia".
Invertire il processo di distruzione dei suoli agricoli, quindi, non è impossibile, ma richiederebbe una consapevolezza collettiva che, come specie, potremmo faticare molto a raggiungere. Le biotecnologie, una volta svincolate dalla pura ricerca del profitto, potrebbero rappresentare una risorsa importante in termini di "riduzione del danno", ed aiutarci a traghettare le produzioni agricole verso forme finalmente sostenibili… anche se, a dire la verità, il loro utilizzo attuale appare più in una direzione di continuità con l'agricoltura intensiva e devastante praticata dall'epoca della meccanizzazione ad oggi che con un ritorno a pratiche meno intensive ed invasive. E tuttavia una scelta saggia sarebbe, a mio parere, provare a comprenderle meglio, prima di schierarsi pro o contro.
Il problema delle scelte operate senza una piena comprensione del contendere si proietta dall'uomo della strada alla classe politica da lui eletta, ai grossi potentati economici, e riflette il paradosso di una specie di predatori che pretende di agire in base a scelte etiche senza possedere una adeguata consapevolezza di sé e del mondo in cui vive.