La prima grossa divisione è tra "visualisti" ed "astroimagers" (una volta si diceva fotografi, ma era ai tempi della fotografia chimica, su pellicola). I visualisti sono appassionati della visione diretta, in quanto rapporto meno mediato col Cosmo, vogliono ricevere direttamente sulla propria retina i fotoni che provengono da corpi lontani, un po’ alla S. Tommaso: "toccare con mano".
Gli astroimagers riprendono foto, le elaborano e le condividono. La loro "visione" degli oggetti è molto più approfondita ma meno "immediata", un po’ come la "gallina domani" del famoso detto. Mentre i visualisti si arrabattano a puntare un oggetto dopo l’altro, cambiano gli oculari, si affannano con mappe cartacee o digitali, i fotografi montano l’attrezzatura, mettono a punto dettagli, poi lasciano la strumentazione a lavorare autonomamente anche per ore, un po’ come dei pescatori che aspettano che il pesce abbocchi.
Ma anche tra le due principali categorie non mancano le sottoclassi. Infatti è molto diverso osservare galassie deboli al limite della visibilità rispetto al cercare dettagli sui pianeti o sulla Luna. Si usano in genere strumenti diversi (a specchio oppure a lenti) e differenti tecniche osservative. Per gli astroimagers questo significa attrezzature diverse sia dal lato ottico che da quello elettronico, e via scremando fino a scoprire delle "micro-nicchie" come ad esempio gli appassionati di stelle doppie.
Il problema principale per un visualista appassionato di "deep sky" (Cielo profondo, ovvero oggetti ai limiti della visibilità) come me è trovare un sito sufficientemente lontano da fonti di inquinamento luminoso, e nottate perfettamente serene. La prima condizione si realizza in genere sulle montagne, dove è però abbastanza facile che non si realizzi la seconda, dato che le nuvole si condensano quando l’aria umida viene spinta in quota.
Quindi non solo occorrere mettere in conto smacchinate chilometriche, ma anche il rischio di trovare "in situ", condizioni meteo sostanzialmente diverse da quelle di partenza. Venerdì è successo qualcosa di simile, quando nel tentativo di sfruttare l’ultima notte utile prima della lunazione (sì, c’è anche questo problema, quando la Luna è sopra l’orizzonte di fare "deep sky" non se ne parla proprio) mi sono mosso dopo una giornata di lavoro.
Immaginate la sveglia alle 6.40, una mezz’ora di traffico fino all’ufficio, la normale giornata lavorativa dalle 8.00 alle 17.00, un’altra mezz’ora di traffico fino a casa, e qui la mia giornata "solita" prende la piega di un comodo stravacco di fronte al pc per assorbire le ultime notizie, partecipare a social network, scambiare la posta, ecc. ecc. in attesa dell’ora di cena.
Venerdì, al contrario, una volta tornato a casa ho cominciato a metter mano all’attrezzatura per la nottata osservativa. Quindi fare il conto di tutti i "pezzi" del telescopio, la borsa degli accessori, verificare se c’è tutto (il binocolo, gli oculari, il puntatore, le mappe, il cacciavite per la collimazione delle ottiche, la torcia col filtro rosso, la matita per prendere appunti…). Altro discorso per l’abbigliamento pesante, scarponi da montagna, pile, piumino, cappuccio, guanti. Poi una doccia frettolosa, una tazza di té per aiutarsi a rimanere svegli e si parte.
Trasferisci tutto in macchina (più di 40kg, compresa la base del Dobson che non entra nell’ascensore e devo portarla giù per due piani di scale…) altra mezz’ora di traffico per raggiungere il luogo dell’appuntamento con un amico astrofilo, Nicola, che mi accompagnerà nell’impresa, trasferiamo tutto nell’auto di lui che è più comoda e capiente della mia scatoletta, ed imbocchiamo l’autostrada per i consueti 100km fino alle montagne dell’Abruzzo.
Vivere in una grande città significa doversi allontanare molto per sfuggire all’inquinamento luminoso. Campo Felice ha il vantaggio di trovarsi in prossimità di una direttrice "veloce", e lo svantaggio di trovarsi vicino ad un’altra città abbastanza grossa come L’Aquila. Finora un sito drammaticamente migliore non lo si è trovato, per cui dopo i 100km di autostrada si sale per un’altra decina e si raggiunge un parcheggio a quota 1400 mslm.
Arriviamo verso le nove di sera e troviamo altri astrofili già indaffarati con le riprese fotografiche, li salutiamo e cominciamo a montare la strumentazione. Il Dobson ha di bello che si mette in opera in una manciata di minuti, per contro altre operazioni, pur necessarie, richiedono più tempo e la collaborazione di due persone, come l’allineamento del cercatore e quello dello specchio primario, che a causa del tubo smontabile va ricentrato ogni volta (l’alternativa è avere un tubo "sano" di un metro e mezzo di lunghezza e quaranta centimetri di diametro da trovare il modo di infilare in macchina).
Cominciamo ad osservare e ci rendiamo conto che le condizioni non sono delle migliori, c’è un vento freddo ed abbastanza fastidioso, con raffiche occasionali che muovono il telescopio, inoltre il "seeing" (ovvero la stabilità dell’aria, che consente di raggiungere alti ingrandimenti) è pessimo, l’immagine di Giove è impastata e traballante. Per il primo problema c’è poco da fare oltre a stringere un po’ le frizioni ed indurire la scorrevolezza dei movimenti, in compenso il telo nero di protezione dalla luce circostante si piega tra le aste del "truss" ostruendo parte della luce in entrata nel tubo.
Cominciamo col cercare i pianeti esterni, Urano e Nettuno (che nemmeno si vedono ad occhio nudo…). Le mappe poggiate sul cofano dell’auto svolazzano spinte dal vento, che tende a far cadere anche un po’ di oggettistica leggera come i contenitori degli oculari. Un po’ a fatica riesco a puntare prima il secondo poi il primo, ma "senza alcuna soddisfazione", per parafrasare Cechov, il "seeing" pessimo impasta le immagini al punto da renderli quasi indistinguibili dalle stelle. Non è che su questi pianeti lontanissimi si veda poi granché, ma perfino la soddisfazione di distinguere il disco, al posto di un punto com’è per le immagini stellari, ci viene negata.
Nel frattempo aspettiamo le 23.00 quando il tramonto della Luna dovrebbe consentirci di osservare un po’ di deep sky. Ne approfitto per migliorare l’allineamento degli specchi, ma è un’operazione scomoda e laboriosa, peggiorata dalla non ottimale forma e sistemazione delle viti di registro (che dovrò sostituire), ed anche la scarsa esperienza di Nicola non è in grado di aiutarmi più di tanto. Proviamo a puntare un po’ di stelle doppie, ma ancora il seeing scadente ci fa desistere dopo pochi tentativi.
Poi la Luna tramonta, il cielo sembra buono ma non lo è più di tanto, o almeno non lo è abbastanza. Ci sono nubi che vanno e vengono, oltretutto luminescenti, segno che l’inquinamento luminoso prodotto da L’Aquila è ancora evidente, e probabilmente ci sono velature in quota non direttamente visibili ma che, illuminate anch’esse, producono un abbassamento del contrasto tra gli oggetti deep sky ed il fondo cielo. In buona sostanza una nottata di scarsa soddisfazione.
Per un’oretta ci arrabattiamo tra le mappe che svolazzano ed il telescopio che si sposta, riuscendo ad osservare una breve galleria di ammassi, nebulose e galassie. Per Nicola, abituato ad un telescopio molto più piccolo, è comunque una festa. Per me, che so come dovrebbero vedersi in condizioni ottimali, una mezza sofferenza. Realizzo anche un limite nel nuovo atlante che ho con me: le carte sono dettagliatissime ma troppo piccole, puntare oggetti non visibili ad occhio nudo senza un cercatore adeguato è molto scomodo.
A mezzanotte un astrofotografo camperista ci offre un té caldo, entriamo nel camper per scambiare quattro chiacchiere. Anche gli imagers soffrono la nottata scadente, vedendosi costretti a sospendere le pose e riprenderle al passaggio delle nubi in quota. Il nostro ospite contava di fare una ripresa a lunghissima posa con filtro H-Alfa di sei ore divise in due notti, ma pare abbastanza sconfortato.
Torniamo fuori e ci accorgiamo che il vento ha fatto volar via dal tavolo improvvisato sul cofano della macchina quasi tutto. Raccogliamo contenitori ed altro e riprendiamo a cercare oggetti, ma dopo pochi minuti comincio a tremare dal freddo, segno che il mio organismo è ormai "in riserva". Anche Nicola concorda che è ora di tornar giù.
Smontiamo tutto cercando di fare il conto dei pezzi mancanti, un tappo di un oculare è volato via e lo ritrova fortunosamente Nicola a più di quattro metri dall’auto, disperso nella ghiaia del piazzale. Mentre andiamo via stremati e poco lucidi, a luci spente per non disturbare i fotografi, imbocchiamo male il vialetto di uscita ed il muso della macchina si infila per metà in un fosso, con la ruota posteriore sinistra che resta sollevata di quindici centimetri da terra.
Dopo diversi tentativi infruttuosi di sbloccarla ci vengono in soccorso gli astrofotografi, uno di loro ha miracolosamente con sé un cavo di traino e con quello, tirando la macchina con un’altra e lavorando di retromarcia, riusciamo a liberarci ed avviarci finalmente verso casa.
Siamo a Roma dopo un’altra ora abbondante, previa sosta all’autogrill per un cappuccino ed un muffin, altro travaso di attrezzature da una macchina all’altra, alle due e mezza sono a casa e mi devo trascinare nuovamente il tutto fino all’appartamento (compresa la base del Dobson in truciolato che non entra nell’ascensore). Crollo sfinito a dormire alle tre.
Diciamo che non è stata una "notte tipo", ma delle tre effettuate nelle ultime due settimane nemmeno la peggiore. Il sabato prima avevamo rischiato la sorte in mezzo ad una perturbazione trovando solo una "finestra" utile verso le 23.00, dopo aver cenato al rifugio, e siamo tornati a casa sotto la pioggia. Diciamo anche che non è una passione facile da alimentare…