Il trionfo della morte – 5

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

Parte quinta: desiderando oggetti inanimati

La vita, intesa come processo globale, metabolizza materie prime ed altre forme viventi per la sua crescita, ma in genere non utilizza oggetti se non in casi rarissimi. Si sa di animali che producono gusci protettivi metabolizzando il calcio (pure utilizzato in alcune “parti dure” dell’organismo), ma di norma non esiste altra relazione tra il mondo animato (vivente) e quello inanimato. L’unica concreta eccezione a questa regola è l’Uomo.

Come già illustrato, fin dalla notte dei tempi la nostra specie ha basato la propria sopravvivenza sulla capacità di maneggiare oggetti (processo che ha portato allo sviluppo dell’intelligenza nella forma in cui la conosciamo) finendo con lo stringere un legame mentale ed affettivo con il mondo inanimato.

La pietra, il pugnale, l’ascia con cui andare a caccia, sono diventate estensioni essenziali dei nostri corpi, al pari degli altri utensili coi quali abbiamo lentamente ma inesorabilmente sottomesso il pianeta. Non stupisce che agli oggetti meglio riusciti, anche in tempi recenti, si siano dati dei nomi, quasi ad attribuir loro una personalità, attributo che trascende l’inanimatezza e la fissità dell’oggetto per infondergli infine una parvenza di vita autonoma.

L’uomo ha quindi, fin dal principio, stretto un patto di simbiosi anomalo con entità non viventi. Le ha create, trasformate, perfezionate al punto da ritenere che possedessero esse stesse delle caratteristiche proprie solo degli esseri viventi. Questa mitologia degli oggetti ha prodotto una distorsione prospettica nella nostra visione del mondo tale da perdurare ancor oggi.

Il potere dell’oggetto “morto” diventa massimo in quanto dispensatore di vita o di morte. Da principio, in un mondo di cacciatori-raccoglitori, la morte delle prede viventi (o dei predatori che attaccavano le tribù) operata per mezzo delle lance, delle asce di pietra, delle fionde, ha significato la vita e la sopravvivenza dei piccoli gruppi umani.

Il fatto stesso di ricoprirsi delle pelli degli animali uccisi per proteggersi dal freddo (probabilmente un adattamento necessario per dirottare risorse metaboliche ad un cervello sempre più grosso ed energivoro) ha rappresentato, attraverso il gesto di “indossare” le spoglie morte di altre creature, un appropriarsi del potere di uccidere e di incarnare in sé la morte stessa.

I processi di vita e di morte sono del loro connaturati ai processi vitali, ma solo la nostra specie ha potuto sperimentarne la consapevolezza, finendo con l’elaborare complesse mitologie simboliche per scenderci a patti. Quando poi l’avvento dell’agricoltura finì col produrre la colonizzazione di ampi territori, ed il miglioramento del regime alimentare innescò la sovrappopolazione degli stessi, la maturata capacità di uccidere si proiettò massivamente sui nostri simili.

Dopo aver camminato per millenni sullo stretto sentiero evolutivo dello sviluppo dell’intelligenza, confinante col baratro dell’estinzione, la nostra specie si è ritrovata nella condizione di non dover più dipendere nell’immediato dalla sopravvivenza dei propri simili per la prosecuzione della stirpe, ma al contrario a dover competere con altre popolazioni confinanti, numerose ed accanite, per il controllo delle risorse. È questo il momento storico che vede la nascita delle guerre.

Come in precedenza l’abilità di cacciare, la capacità bellica diviene il nuovo paradigma per definire le caratteristiche desiderabili negli individui, quelle che verranno poi premiate con la riproduzione e trasmesse alle successive generazioni, formalizzate in tempi di pace attraverso giochi e competizioni (relativamente) incruente che rimandano alle arti militari.

In quest’intreccio inestricabile tra vita, morte, oggetti inanimati (“morti”) in grado di produrre l’una o l’altra, proiezioni simboliche ed immagini iconiche, l’umanità attraversa l’epoca moderna senza una reale e necessaria maturazione della propria coscienza di specie, ma al contrario sviluppando una sempre maggior affezione e dipendenza con utensili diventati via via sempre più complessi, fino all’epoca delle macchine.

Se in qualche caso popoli più legati alla sopravvivenza immediata hanno avuto modo di maturare un rapporto diverso con la sfera del vivente (penso ad alcune culture di nativi nordamericani, popolo di cacciatori-raccoglitori nomadi, in cui al termine della caccia l’uccisore chiedeva perdono allo spirito dell’animale ucciso), le popolazioni occidentali, future colonizzatrici culturali di gran parte del globo terracqueo, hanno finito col soccombere alla fascinazione del “non vivente”.

Come per il “vitello d’oro” di biblica memoria, la cui creazione ed adorazione aveva distolto il popolo d’Israele dalla retta via, la cultura contemporanea rifugge la vita e le sue manifestazioni più sgradevoli (fisicità, decadenza, parassiti, malattie…) rifugiandosi in mondi di fantasia prodotti ed alimentati dall’immaginario collettivo, coesiste e e coabita con macchine vieppiù complesse ed immaginifiche quasi in un tentativo di trascendere la propria umanità.

Nel far questo, nella rimozione della percezione e della consapevolezza di ciò che è vivente, stiamo pian piano, inesorabilmente, consumando e danneggiando il mondo che ci ospita, minando la resilienza degli habitat che ci hanno ospitato per millenni e ci garantiscono la sopravvivenza, assieme a quella di moltissime altre specie viventi.

(Continua)

5 pensieri su “Il trionfo della morte – 5

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