I nomadi, le città e la sfera sociale

Un celebre aforisma di Ascanio Celestini recita (più o meno): “Il razzismo è come il culo: puoi vedere quello degli altri, ma non riesci mai a vedere il tuo”.

Correva l’anno 2007, io ed Emanuela eravamo in viaggio di nozze in Sudafrica e decidemmo di effettuare una visita alle “township” nere, risultato di decenni di segregazione razziale ed infine divenute parte del panorama urbano di Capetown.

Il Sudafrica, a distanza di decenni dalla caduta del regime razzista di Pretoria, continua a mostrare una realtà sociale molto polarizzata, con la popolazione bianca e ricca che vive “all’occidentale” e quella nera e povera che vive “all’africana”. L’apartheid fisica degli insediamenti è sopravvissuta all’abolizione dell’apartheid sociale.

Discutendo di questo col proprietario dell’appartamento dove eravamo in affitto (un italiano andato a vivere in Sudafrica molti decenni prima), questi mi manifestava il suo disagio nei confronti delle scelte di molti neri, acculturati e con un buon stipendio, che continuavano a vivere in realtà povere, gomito a gomito con vere e proprie baraccopoli.

La mia obiezione fu che, probabilmente, per i neri la dimensione sociale che quel tipo di insediamenti consentiva era largamente preferibile al modello “bianco” dei villini monofamiliari con giardino e garage, di grande impedimento alla socializzazione (cosa, questa, lamentata dal mio stesso interlocutore).

“I neri vivono in case povere, ma gli basta uscire per strada per trovare la comunità, i loro amici e conoscenti. I bianchi vivono autosegregati in case linde e perfette, ma per le strade non c’è nessuno, e se vogliono incontrarsi devono darsi appuntamento o organizzarsi per cenare insieme”, fu più o meno l’argomentazione che proposi. Il mio interlocutore ammise: “non l’avevo mai considerata in questi termini…”.

A muovermi in direzione di quest’analisi è stata probabilmente la profonda stima maturata negli anni nei confronti della popolazione nera del Sudafrica, grazie all’opera di Nelson Mandela ed al processo di pacificazione sociale che, dopo la caduta del regime razzista, evitò stragi e rappresaglie in tutto il paese.

Non altrettanta stima (con mio profondo disagio…) ho realizzato di provare nei confronti di popolazioni con costumi analoghi insistenti nel mio stesso contesto sociale. Evidentemente quello che si “legge” analizzando una realtà estranea, nella quale ci si sente poco coinvolti, non è di altrettanto facile interpretazione quando si prova a leggere la realtà in cui si è cresciuti.

Quotidianamente, infatti, mi trovo a passare, pedalando verso l’ufficio, accanto ad accampamenti di nomadi incistati nella periferia romana. Periodicamente, negli anni, sono finito ad interrogarmi sul perché queste persone scelgano spontaneamente una simile forma di “apartheid” rispetto alla cultura ospitante.

La risposta non era molto diversa, ovvero che solo il restare gli uni accanto agli altri poteva restituirgli quel senso di comunità che, adottando i nostri costumi sociali ed abitativi, avrebbero finito col perdere. Ma qui terminava l’analisi.

Quello che il mio stesso razzismo ha finito col nascondermi (e che invece mi era stato chiaro fin dal principio per i comportamenti dei neri sudafricani) è che il loro modello sociale, pur con tutti i limiti igienici e sanitari (determinati principalmente dalla povertà e da fattori culturali), sia nei fatti nettamente superiore al nostro.

C’è stato un momento, nella storia dell’occidente (e, non molto dopo, dell’estremo oriente), in cui il desiderio di possesso ha prevalso sulla necessità di essere comunità, sulla socialità, sull’affettività. Abbiamo finalizzato le nostre vite all’inseguimento di modelli di ricchezza (case più grandi, arredamenti più lussuosi, automobili più costose…) e perso progressivamente di vista le interazioni sociali.

La conclusione di questo processo sta nelle nostre città, nei quartieri, nelle case cui abbiamo dato forma negli ultimi decenni: realtà disumane e disumanizzanti, mausolei di cemento nei quali seppellirci da vivi, con finestre elettroniche (apparecchi televisivi, computer, smartphone…) per affacciarci su mondi fittizi, a vivere vite fittizie, mentre il mondo reale, al di fuori, è precipitato nell’indifferenza e nel degrado.

16 pensieri su “I nomadi, le città e la sfera sociale

  1. Interessante questa riflessione filosofica.
    Non imputerei questa differenza all’epoca liquida, postmodernista.
    Io ho ancora traccia attraverso la memoria di parenti montanari trentini di ciò che avveniva prima del(lo sciagurato boom), in società tradizionali, sostanzialmente premoderniste.
    (qui in Eravamo qualche nota a proposito)
    La durezza del vivere, del riuscire a recuperare il necessario e quella del clima semplicemente NON consentivano insediamenti in cui la socialità avesse tempi significativi e il vivere comunitario all’aperto fosse il default.
    Dopo cena, non solo si lavorava insieme, ancora, talvolta nella stalla, uno dei pochi posti caldi.
    Ma uscire significava, specie in luoghi ad insediamenti sparsi (masi/baite/stavoli/masserie/cascine etc.) prender su e a piedi, camminare anche fino a decine di minuti, senza luce, nel freddo, etc.

    Per quanto avvantaggiati da molti mezzi, tecnologia ed energia, tutt’oggi nella stagione fredda, ho amici e amiche di tango che NON escono o lo fanno con fatica durante la stagione inclemente, la sera/notte.

    Nelle nostre città esiste una differente socialità nella stagione mite e in quella fredda.
    Poi, le orribili mostruosità tumorali cementizie che abbiamo creato, beh, quelle sono un problema generale, non solo dei paesi consumisti.

    • Culture diverse, di fronte alla scarsità di risorse, hanno prodotto risposte diverse. Penso agli Inuit ed ai vichinghi che popolarono la Groenlandia, e di cui solo i primi sopravvissero. Sono convinto che la riduzione di quella che potremmo definire “esposizione sociale” degli individui possa facilitare lo slittamento verso attitudini psicopatiche di intere collettività. Ho bisogno di rifletterci su ancora un po’…

      • in realtà Diamond sottolinea che furono gli anacronismi culturale (ovvero morali) a determinare il collasso delle colonei vichinghe e quindi dei vichinghi in Groenlandia.
        Il clima lì NON è quello dei paesi scandinàvi e la cultura vichinga si era formata in questi ultimi.

        L’isolamento, la nuclearizzazione è una delle caratteristiche salienti della società liquida. Poiché estremizzata essa è certamente patologica.
        In realtà sono ancora più pessimista: il degrado e l’immiserimento possono portare ad un grave degrado dell’etologia degli homo.
        Segnalo:
        o – l’articolo di Antonio Maria Turiel sul lavoro di Erasmo Calzadilla sul Periodo Speciale Cubano (degrado dovuto all’impoverimento)
        o – le osservazioni di Gaia Baracetti sul degrado dovuto all’opulenza

        Da quanto ho capito dagli autoctoni e osservando anche altre realtà (quella sudtirolese e quella tedesca) un forte degrado è dovuto anche all’immigrazione massiccia di popolazione con senso civico, comunitario, dell’etica pubblica inferiore o assente.

        Poi ci sono le dimensioni di scala, anche.
        Ma anche qui ci sarebbe da ragionare (malavita organizzata al sud nei piccoli paesi, in Calabria NON esistono metropoli…). In parte significatica della Campania non c’è distinzione tra camorra e popolazione, la camorra è espressione sociale e la società è interconnessa con la camorra.
        Queste psicopatologia di massa, questa attitudine sociopatiche sono già diffuse e si stanno espandendo molto anche qui in Emilia, in Lombardia.

      • Contestavo la tua osservazione per cui l’isolamento sociale fosse legato unicamente al clima (“La durezza del vivere, del riuscire a recuperare il necessario e quella del clima semplicemente NON consentivano insediamenti in cui la socialità avesse tempi significativi e il vivere comunitario all’aperto fosse il default.”). Le tribu inuit avevano un’impronta sociale molto più marcata rispetto alla cultura norrena, nonostante vivessero in condizioni climatiche ancora più estreme. Evidentemente la deriva sociopatica ha una genesi multifattoriale.

  2. Apprezzabile analisi, tuttavia ritengo che il quadro romano meriti una riflessione a se, vista l’anomalia diffusa del tessuto sociale anche per quanto riguarda gli autoctoni.

  3. Penso che sia il nostro stesso modo di vita più recente a volerci isolati come lavoratori e di fronte al mercato come consumatori. Isolati, con minor potere contrattuale, costretti a spostarci sempre, sradicati, ricollocabili e persino intercambiabili. Il tutto per servire un sistema basato sul danaro, cioè uno strumento, sul lavoro inteso come semplice (e a volte appena sufficiente) guadagno e non come attività realmente utile alla comunità. Tutto questo perché ciò che abbiamo creato non ha al centro noi stessi e ha reso l’uomo non un fine ma un mezzo per l’ottenimento di beni e ricchezze (spesso ricchezze altrui) ovvero uno strumento (“strumento parlante” è la definizione dello schiavo secondo la latinità). E tutto riflette questo: ogni nostra attività o valore o caratteristica è venduta e comprata, noi stessi veniamo usati e scelti anziché fatti oggetto d’amore o d’attenzione e ci poniamo a volte volontariamente in mostra sul mercato come si fa con un cespo di banane. Questo modo di vita è insostenibile prima di tutto perché costruito a rovescio trasformando gli esseri viventi (e la loro ricchezza spirituale) in cose per trasferire attenzione e considerazione sulle cose, elevate a “persone artificiali”, protesi per uomini vuoti che riterranno un lutto la perdita di un’automobile, neanche fosse una nonna o uno zio. Esagero?

    • Non è semplice ragionare sulle dinamiche che l’umanità produce su larga scala. In particolare la dicotomia oppressore vs. oppresso la trovo una semplificazione abbastanza manichea. Nell’idea che mi sono fatto sono le condizioni di controrno a strutturare le società umane in una direzione più o meno eticamente accettabile. Per capirci, i “consumatori” (termine che fortemente detesto, come ho spiegato qui) piangono lacrime di coccodrillo sui propri “diritti negati” guardandosi bene dall’aprire la loro analisi a livello globale, dove diventerebbe evidente che tali “diritti” altro non sono che privilegi ottenuti a danno delle popolazioni realmente diseredate del pianeta. Lo sfruttamento intensivo di risorse non rinnovabili (petrolio, carbone, minerali) è un saccheggio su larga scala che la cultura occidentale sta portando avanti “manu militari” nei confronti del resto del pianeta e non ha giustificazione etica alcuna.

      Analizzando la situazione con un approccio “darwiniano” si può dire che la nostra specie ha due alternative comportamentali: cooperazione e competizione. In situazioni di risorse limitate il meccanismo di cooperazione è premiante, nell’abbondanza la competizione assicura ai singoli maggiori vantaggi. Quello a cui assistiamo oggi è l’apoteosi dell’abbondanza, che si traduce in un’esaltazione senza confini della competizione: tra individui, tra gruppi sociali, tra nazioni. Un meccanismo del quale tutti indistintamente facciamo parte perché culturalmente non più in grado di rimetterne in discussione i dettati fondamentali.

      • Ame sembra evidente che persino nell’occidente ex-opulento (vertice della ricchezza del pianeta) sia diffusa la cultura del consumo, che tutto è fuorché umanista, a vantaggio di una minima parte degli stessi occidentali e causa di una notevole e diffusa povertà relazionale e spirituale.E non nego, purtroppo, che molti “consumatori” siano d’accordo tanto nel subire quanto nel consumare.Ma restano vittime,in un modo tutto diverso da quelle del Sud del mondo. Sembra che l’intero sistema renda vittime tutti quanti (compresi consumatori sazi e insoddisfatti e persino ultraricchi depressi e vuoti).E’ così che capita quando l’uomo ignora i valori immateriali e la sua stessa felicità autentica, che passa per la collettività..Un buon motivo per cambiare,no? Anche perché le pagnotte, anche in Europa, stanno finendo e l’individualismo è caro.

  4. Ogni post è una piccola perla, apprezzo molto la tua capacità di sintesi, perfetto compromesso tra chiarezza espositiva, schiettezza e capacità di stimolare riflessioni profonde.
    Questo è uno dei tipici casi in cui delle riflessioni in nuce presenti dentro di me come intuizioni isolate, vengono chiarificate da un articolo letto per caso, quasi una sorta di epifania di proustiana memoria.
    Devo meditarci su…

    • I complimenti mi imbarazzano sempre un po’… Grazie!
      La chiarezza è condizione necessaria per me prima che mi metta a scrivere. Altra condizione necessaria è l’aver da dire qualcosa di originale, altrimenti la scrittura diventa puro esercizio. Anche per questo non scrivo più molto… parecchie cose le ho già dette in passato. Purtroppo il Blog è uno strumento con grandi pregi, ma la strutturazione dei contenuti non è fra questi. Sto ragionando su un “format” diverso.

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