Spacciatori di automobili (prima parte)

Ieri sera ho fatto un salto al cineclub Detour di Roma per assistere alla proiezione di Bikes vs. Cars, un documentario sulla rinascita dell’uso della bici nelle metropoli di tutto il mondo e sugli infiniti ostacoli che la società contemporanea pone al dispiegarsi di questo processo.

Buona parte del film si concentra sulla massiccia, onnipresente e pervasiva opera di lobbying posta in atto nell’arco di un secolo da parte delle industrie automobilistiche per ottenere sistemazioni stradali tese a massimizzare l’occupazione di spazi urbani da parte delle auto private, fino a stravolgere completamente forma e funzioni delle città moderne.

Il senso di oppressione, disperazione ed impotenza suscitato dalle immagini degli ingorghi e dalle riflessioni delle persone intervistate mi ha ‘mosso delle corde’, entrando in risonanza con altre visioni cinematografiche recenti… un film sul traffico di droga.

Sicario, del regista canadese Denis Villeneuve, è uno dei film più sorprendenti del 2015. Pagando un grosso debito alle atmosfere rese celebri dalla fiction televisiva True Detective il film riesce, con un utilizzo estremamente asciutto del linguaggio cinematografico, a restituire tutta l’ambiguità di una lotta alla droga che finisce con l’allearsi agli stessi nemici che dovrebbe combattere (i Cartelli Centroamericani).

Una frase in particolare, nel film pronunciata da un agente della C.I.A., recita (cito a senso): “finché qualcuno non trova il modo di convincere il 20% della popolazione a smettere di sniffare e fumare quella robaccia, il meglio che si può fare è provare a ridurre i danni collaterali”.

L’analogia tra dipendenza da stupefacenti e sviluppo del traffico motorizzato nelle società occidentali non dovrebbe risultare nuova ai lettori di questo blog: l’argomento è stato sviluppato in un post intitolato proprio La dipendenza dall’automobile (che suggerisco di rileggere). Ieri sera mi sono tuttavia reso conto di aver trascurato completamente, nel redigerlo, un intero aspetto della faccenda.

Nel concentrarmi sul lato ‘della domanda’ ho infatti mancato di ragionare sul lato ‘dell’offerta’, ovvero tutte le attività messe in campo da parte dei fabbricanti di automobili e dei produttori di combustibili (senza dimenticare il comparto edilizio) per massimizzare i propri profitti.

L’analisi che vi proporrò parte da una chiave di lettura acquisita grazie ai saggi dell’antropologo Jared Diamond (Armi, acciaio e malattie, Collasso ed il recente Il mondo fino a ieri) ovvero il fatto che l’umanità tenda a riprodurre su scale diverse, se i processi di partenza sono simili, modalità relazionali caratterizzate da forti analogie.

Così le guerre tribali condotte tra gruppi di poche decine di individui presentano significativi paralleli coi conflitti su scala più vasta e, fatti i dovuti distinguo, anche con le moderne guerre tra nazioni. Semplificare il quadro complessivo ci aiuta a comprendere ed interpretare dinamiche che altrimenti apparirebbero come a sé stanti ed a tentare di prevederne l’evoluzione.

La prima analogia, come abbiamo visto, riguarda il meccanismo di ‘dipendenza’ che, se estendiamo il concetto, è alla base di ogni attività umana ed animale su questo pianeta. Dipendiamo dal cibo per sopravvivere, dagli abiti e dalle abitazioni per difenderci dal freddo (e dal caldo), dipendiamo dai rapporti sociali per la riproduzione e per il nostro stesso equilibrio fisico e psichico.

Considerato lo sviluppo storico dell’umanità l’automobile si inserisce solo recentemente in questo meccanismo (la sua prima apparizione data non più in là di un secolo addietro), nondimeno riesce ad incistarsi massicciamente nell’evoluzione della struttura sociale umana forzandone, e per certi versi obbligandone, le modalità di sviluppo.

Il risultato finale del processo (troppo lungo per poter essere esposto nel dettaglio) è che ad oggi l’automobile viene utilizzata in parte per l’accesso al cibo (in forma diretta per raggiungere i luoghi d’acquisto ed indiretta per raggiungere il posto di lavoro dove si guadagna il denaro per acquistarlo), in parte come integratore della protezione da climi ostili (‘uso l’auto così non ho caldo/freddo e sono riparato dalla pioggia e dal vento’), in parte come strumento di definizione del proprio status sociale e per partecipare alle ritualità connesse.

Come risultato finale l’automobile si aggancia alla catena di dipendenze preesistente realizzando una ulteriore dipendenza, sua propria, ed un conseguente pesante drenaggio delle risorse economiche individuali. Come ben spiegato nel suddetto documentario, circa un quarto del reddito netto percepito dagli abitanti degli Stati Uniti viene speso per far fronte all’acquisto di autovetture, alla loro manutenzione ed ai consumi di carburante. Senza contare la parte molto consistente di tasse versate allo stato centrale che viene spesa per manutenzione ed ampliamento della rete stradale.

L’automobile assolve quindi la funzione di trasferire una parte consistente della ricchezza prodotta individualmente nelle tasche dei produttori di carburante, dei fabbricanti di automobili e del comparto edilizio. Riguardo a quest’ultimo va compreso che la forma urbis prodotta dall’automobile è radicalmente diversa da quella precedente la sua introduzione: disponibilità di case con maggiori volumetrie, sprawl urbano e consumo di suolo sono caratteristiche indotte dalla possibilità di muoversi quotidianamente su lunghe distanze.

La nostra civiltà è quindi scivolata, lentamente ma inesorabilmente, in un imbuto di dipendenza dall’automobile che, come un cappio che si stringe, sta rendendo progressivamente più invivibili le città. Così il sogno di una casa ‘nel verde’ produce come effetto collaterale una percentuale maggiore di vita spesa nello stress del traffico, gli spazi urbani sono assediati da un numero crescente di autovetture, gli ampliamenti della rete stradale inducono soltanto ulteriore traffico.

Come ogni forma di ‘dipendenza’, è molto più semplice caderci dentro che venirne fuori. La dipendenza ci rende deboli, ricattabili e sfruttabili, e col passare del tempo pretende un pedaggio sempre crescente. Ma se questa è una faccia della medaglia, quella di chi subisce il processo di dipendenza, dobbiamo essere capaci di vedere anche l’altra, quella di chi lo agisce.

Le realtà che realizzano guadagni dalla situazione attuale non avranno alcun interesse ad invertirne il corso, per basilari leggi di mercato. Per la legge statunitense, ad esempio, le società quotate in borsa sono responsabili nei confronti degli azionisti. Anche volendo, una società manifatturiera non potrebbe decidere iniziative in direzioni di una riduzione dei guadagni, a rischio di esporsi alla possibilità di cause legali da parte degli azionisti.

In tale ottica diventa legale, e finanche obbligatorio, reinvestire parte dei guadagni in propaganda (dalle campagne pubblicitarie all’orientamento, diretto o indiretto, della stampa), nel pilotaggio delle decisioni politiche (con azioni di lobbying ed il finanziamento, non sempre trasparente, ai partiti), nel contrasto alla concorrenza. Le pressioni sulla politica non escludono poi forme di ricatto occupazionale quando le decisioni prese in sedi democratiche contrastino con gli interessi del comparto.

In quest’ottica si inserisce, ad esempio, l’acquisto e successivo smantellamento da parte della General Motors dell’intera rete di trasporto pubblico su tram delle principali città degli Stati Uniti a cavallo degli anni ’40, operato al fine di obbligare gli abitanti a possedere un’automobile privata.

Un’attività di ‘difesa del business ad ogni costo’ che presenta paralleli inquietanti con un altro mercato legato alla dipendenza, quello degli stupefacenti. Anche in quel caso non c’è interesse a che gli individui in stato di dipendenza recuperino la salute, non c’è interesse a quali e quanti danni essi facciano per procurarsi il denaro per la ‘dose’, non c’è interesse ai guasti collaterali causati a terzi, né che si producano delle vittime.

Il parallelo tra i morti e feriti causati dall’incidentalità stradale e dall’inquinamento e quelli prodotti dagli scontri a fuoco e dalle vendette trasversali della criminalità organizzata è sicuramente forzato, ma in entrambi i casi le organizzazioni coinvolte li derubricano come ‘costi umani non evitabili’, sacrificabili alla necessità del successo economico.

La differenza principale tra i due processi consiste nella narrazione collettiva, che ritiene ‘necessario, giusto, inevitabile’ il dominio dell’auto privata sulle città, mentre considera ‘criminale, illegale, biasimevole’ l’uso e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Ma di analogie e differenze parleremo nel dettaglio nel prossimo post.

(continua)

CarJam

16 pensieri su “Spacciatori di automobili (prima parte)

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  2. Caro Marco! Ho utilizzato il tuo argomento sulla dipendenza, quando ho scritto un epilogo per mio libro sul ciclismo che ho finito adesso. Ho avuto un bel pensiero. In 2013 hanno calcolato che l’olio finirà fra 41 anni, quindi verso 2055. Poi ho scritto che io potrei festeggiare il mio 100. cumpleanno il 11. febbraio 2057, e io prenderò la mia bici e farò 100 chilometri sulle strade (speriamo) deserte. Tanti saluti Manfred.

    • Il petrolio non finirà, diventerà solo troppo costoso da estrarre perché convenga utilizzarlo per mandare in giro dei cassoni di metallo su ruote. E questo accadrà molto prima del 2057… 😉

      (e quando ciò avverrà, le strade deserte cadranno ben presto a pezzi)

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