Effetto Babele

Pieter_Bruegel_the_Elder_-_The_Tower_of_Babel_(Vienna)

Narra il racconto biblico che il popolo della città di Babilonia divenne a tal punto ricco e potente da immaginare di costruire una torre così alta da raggiungere il Cielo. Irritato da questa arroganza Dio confuse le loro lingue di modo che non si comprendessero più l’un l’altro. La torre non fu mai completata e i popoli si dispersero su tutta la Terra.

Nel mio tentativo, attraverso questo piccolo blog, di dialogare col mondo, non posso evitare la questione dei limiti relativi alla comunicazione. Una scrittura imprecisa ed inefficace renderà inutili i miei sforzi, vanificando il tentativo. Questo è il motivo della prolissità dei testi che leggete: l’esigenza di chiarire i punti essenziali, senza i quali qualsiasi ragionamento appare campato per aria.

Ma quella della Torre di Babele è una metafora semplicistica. È facile da accettare che parlando lingue diverse non ci si comprenda più. L’idea che sto sviluppando è che si possa finire col non comprendersi reciprocamente anche parlando la stessa lingua. Analisi decisamente più inquietante, che richiederà una piccola digressione.

Lo spunto iniziale per questa riflessione mi venne mesi fa, mentre stavo ragionando sull’organizzazione urbana in quello che finii col chiamare modello della ‘città a grappolo’. In particolare mi resi conto che l’articolazione urbana produce zone con funzioni molto diversificate, mentre i termini linguistici che descrivono alcune sistemazioni urbanistiche sono generici e non si adeguano al mutato contesto.

Nel dettaglio definiamo ‘marciapiede’ lo spazio della sede stradale riservato alla mobilità pedonale, ma questo spazio assume funzioni e modalità d’uso differenti a seconda del contesto urbano nel quale è inserito. In presenza di conurbazioni dense il marciapiede viene intensamente utilizzato per l’accesso alle attività commerciali, quando non è sede di attività di commercio esso stesso (bancarelle, tavolini di bar e ristoranti), può ospitare alberature e servizi (fontanelle, panchine per la sosta, arredo urbano). È in sostanza uno spazio affollato e vissuto.

Per contro le moderne città (Roma, per quella che è la mia esperienza diretta) mostrano un tessuto urbano dalla densità molto irregolare, caratterizzato da ‘centralità’ popolate, affollate e ricche di attività lavorative e commerciali, e spazi più ‘rarefatti’ dove l’unica presenza sono i veicoli in transito tra una centralità e quella adiacente. Anche queste vie di comunicazione dispongono di marciapiedi, ma sono marciapiedi con funzioni d’uso totalmente diverse da quelli in prossimità degli aggregati urbani.

Accade quindi che in presenza di un unico termine (marciapiede), comunemente usato per descrivere situazioni totalmente dissimili, si finisca con l’applicare soluzioni generiche largamente disfunzionali. La mia esperienza di ciclista si sviluppa su un’ampia varietà di strade urbane e mi pone a contatto con entrambe le situazioni.

Per la legge italiana le parole ‘strada’ e ‘marciapiede’ non presentano sfumature. La legge obbliga chi va in bici a stare sulla strada e vieta espressamente di utilizzare il marciapiede. Cosa perfettamente sensata nelle affollate zone commerciali, dove i marciapiedi sono di fatto impraticabili mentre sulla sede stradale i veicoli si muovono a bassa velocità.

Ma cosa parimenti insensata nelle arterie di raccordo tra una centralità (o quartiere) e quella confinante. Corridoi stradali dove l’assenza di attività di qualsiasi tipo produce uno spontaneo aumento nella velocità delle auto in transito, ed in parallelo il totale spopolamento dei marciapiedi, che i ciclisti potrebbero utilmente occupare per muoversi in sicurezza a bassa velocità.

Purtroppo il lessico non discrimina le due situazioni, la legge neppure, e l’utilizzo da parte dei pedoni di un solo tipo di marciapiede (quello affollato) impedisce loro perfino di concepire l’esistenza di una realtà che solo i ciclisti sono in grado di sperimentare.

Questo è solo il punto di partenza, ora proviamo ad andare oltre. Nel corso dei secoli la nostra cultura si è articolata in ambiti diversi. Molto grossolanamente possiamo distinguere un ambito ‘classico’ legato alla tradizione culturale del passato ed un ambito ‘scientifico’ sviluppato a partire dal 1600 con l’indagine della natura fisica del mondo.

Ma all’interno di questi contenitori esistono universi di competenze sconfinati, che spesso rappresentano dei mondi a sé stanti. All’interno delle discipline umanistiche la musica, la letteratura, le arti grafiche, la storiografia, la teologia hanno solo limitati terreni di contatto, parallelamente l’astrofisica, la medicina, la meccanica quantistica, le neuroscienze cognitive, l’antropologia, mutuano un comune approccio ‘scientifico’ alla comprensione, ma affrontano situazioni tanto radicalmente diverse da apparire inconfrontabili. Ed altri campi quale la teoria politica, l’economia, l’urbanistica, le scienze informatiche, la sociologia, si muovono su terreni ancora più aleatori ed instabili.

Ecco che un nuovo ‘effetto Babele’ si profila all’orizzonte: la realtà finisce col maturare una tale sconfinata varietà di differenti livelli di complessità da impedire un reale dialogo tra discipline distinte, semplicemente perché le strutture mentali e logiche necessarie a padroneggiare appieno una materia non sono in grado di dialogare con un ambito di competenze completamente diverso. E l’uso di un linguaggio comune non aiuta, a volte mescola i significati e complica ulteriormente le cose.

L’uomo contemporaneo rifugge il confronto con tanta spaventosa complessità. L’idea di non poter accedere ad una reale comprensione del Mondo appare insostenibile in una società che fa della competizione individuale il proprio fondamento. Col risultato di premiare chi ha più facilità nell’operare tale rimozione.

Così gli economisti e i decisori politici preferiscono ignorare i limiti fisici evidenziati dalle scienze ambientali e dai climatologi, le multinazionali biotech continuano a lavorare sulle sementi OGM ignorando le tesi degli evoluzionisti e degli agronomi, ognuno concentrato nella propria, al tempo stesso vastissima e minuscola, sfera di competenze ed incapace di affrontare la reale complessità e varietà del sapere.

In tutto ciò l’organizzazione politica richiede ai cittadini di esprimere un indirizzo su materie ormai troppo capillari per la comprensione individuale, lasciando ampio spazio a manipolazioni strumentali e surrettizie da parte del potentato di turno. L’articolazione di tanti, diversi, complessi saperi ha finito col produrre un caos estraniante che rende la società attuale incapace di lucidità.

Sul come andrà a finire un’idea ce l’abbiamo già. La vicenda della Torre di Babele.

6 pensieri su “Effetto Babele

  1. Grazie Marco ,letto, le tue analisi sono profonde. chi dovrebbe verificare lo stato delle cose se ne sta dall’alto della torre .e lascia a noi il compito di muoverci in una giungla piena di storture e abusi ,fatti da noi umani .

  2. La hybris progressista e sì global è, appunto, vecchia come il mondo.
    Non è affatto semplicistica, è cruda e quindi a molti non piace perché rompe le credenze.
    Ci sono molti aspetti che non ci piacciono e tendiamo ad attribuirli in modi dequalificanti.
    E’ un po’ come il concetto di biocapacità e dei limiti (e impronta ecologica) che possono essere illustrati efficacemente con la metafora della torta delle risorse: se fai tante fette esse non potranno che essere piccole, se vuoi fette grosse esse devono essere poche.
    Molti adepti di vari -ismi (natalisti, crescitisti, dirittisti, tecnoteisti, defici-debitisti, massmigrazionisti, etc.) si arrabbiamo moltissimo con l’aritmetica attribuendola in modi coloriti.
    Sono concetti scomodi, odiati, sono considerati crudi come un checksum perché sono semplici, smontano sofismi “complessisti”. Realtà semplici, non semplicistiche.

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