Follia collettiva

Sono reduce da un’esperienza moralmente ed umanamente devastante: accompagnare mia madre ottantenne in un ospedale del centro città (Fatebenefratelli al’Isola Tiberina) per degli esami di routine. Cosa ci sia di devastante in ciò è presto detto: per farlo ho dovuto guidare un’automobile nel traffico cittadino. Un’esperienza alla quale non sono più abituato.

In realtà mi capita di prendere occasionalmente l’auto per recarmi in ufficio, soprattutto nei giorni di pioggia in cui le strade della periferia finiscono con l’allagarsi. E’ un tragitto in gran parte su vialoni relativamente sgombri e scorrevoli, che mi consente di percorrere una decina di chilometri in venti, venticinque minuti. Un tempo tutto sommato accettabile, e soprattutto al di sotto della fatidica soglia di mezz’ora che rappresenta il limite oltre il quale comincio a perdere le staffe.

Stamattina, invece, tra andare e tornare (20 chilometri in tutto), in orario di punta, ci ho messo un’ora e mezza, sovraccaricando pesantemente le arterie coronarie. La cosa più micidiale del traffico romano è la sua terrificante conflittualità, il dover tener d’occhio i veicoli a 360° all’intorno, gestire l’imprevedibilità delle manovre altrui, qualcosa di molto più simile all’arrembaggio di una ciurma di pirati che a quello che può considerarsi il normale scorrimento viario di una moderna città.

Ancora più sconcertante è realizzare come tutta questa aggressività, la competitività allegramente sprecata, il menefreghismo delle più elementari regole di convivenza civile, per tutti quelli all’intorno rappresenti la normalità. Una normalità subìta, accettata e vissuta come ineluttabile. Un inferno quotidiano dentro il quale calarsi, passivamente, giorno dopo giorno.

“Come si fa a salvare queste persone?”, mi sono domandato. Come si fa a salvarli da sé stessi? Quale immensa campagna di psicoterapia collettiva sarà necessaria per restituire alla collettività una lucidità di pensiero ormai perduta?

Non ho risposte, ovviamente. Non le ho da decenni. Finirò prima o poi con l’arrendermi all’idea che le culture scelgono da sé di che morte quotidiana morire. Che ci si può tenere per quanto possibile al di fuori del flusso di pazzia collettiva che pare ineliminabile nelle aggregazioni umane, ma non deviarne più di tanto la corrente.

Ora l’automobile (di mia moglie) è nuovamente parcheggiata, e mi auguro, come accade di solito, che per quando sarò costretto a prenderla di nuovo avrò dimenticato dove sia. Prenderò la bici e me ne andrò in ufficio. Percorrerò ugualmente i miei dieci chilometri in una quarantina di minuti, ma stando fuori dal traffico.

Guarderò il cielo anziché il paraurti della vettura di fronte. Ascolterò i canti degli uccelli ed il fruscìo del vento anziché lo scoppiettare ritmico delle marmitte. Sentirò l’aria sfiorarmi la pelle e di nuovo mi sentirò un essere umano, anziché un topo in gabbia.

17 pensieri su “Follia collettiva

      • Aggiungo ai canti degli uccelli ed il fruscio del vento, la bellezza di salutare (ed essere ricambiati) le persone che si incontrano, oppure sentire le voci allegre dei bimbi che vanno a scuola con il pedibus. I miei 11 km di bicicletta sono un toccasana per l’umore 🙂

      • Le uniche voci di bambini che sento io sono di quelli del campo nomadi della Cervelletta… non sempre cordiali. :-/
        (n.b.: le foto di Google Street view sono del 2008, ad oggi la situazione è nettamente peggiorata in termini di affollamento, spazzatura e distruzione del tratto di strada antistante)

        Cmq. il percorso completo è documentato qui (anche se il cavalcavia nell’ultimo tratto è stato demolito durante l’estate, ed ora mi aspetta un sottopasso a senso unico contromano che lo rende più un bike2death che un bike2work…): https://mammiferobipede.wordpress.com/2013/07/19/atypical-bike2work-2013/

    • Losco, ho incrociato anche te, su via Marmorata, saranno state le 8.00 (minuto più minuto meno), stavi con la Dahon pieghevole. Ti ho anche indicato a mia madre… e profondamente invidiato.

  1. Quale lobby petrolifera e automobilistica ti permetterà di progettare una immensa campagna di psicoterapia collettiva per restituire alla collettività una lucidità di pensiero ormai perduta e salvare le persone da se stesse?
    Marco, non sei solo… ciao grazie.

  2. Parole sante, e a proposito di follia collettiva:
    ho provato anche io oggi una sensazione simile, al lavoro, quando 4 colleghi urlanti cercavano di convincermi della necessità assoluta di aprire al traffico un’isola pedonale di 150 metri in pieno centro storico medioval-rinascimentale della mia città.

    Non sono riuscito a sostenere che per raggiungere in auto i 4 (QUATTRO!) negozi di quella strada in auto si poteva forse usare la strada parallela a doppio senso di marcia costeggiata da parcheggi e servita da tre linee di autobus (tale arteria di traffico dista dall’isola pedonale in questione l’inimagginabile distanza di 16 metri – non anni luce, metri).

    Alla fine il mio diretto superiore mi ha urlato che se mi avesse visto il prossimo inverno (con il freddo e la pioggia, BRRRRRR) usare la maghina per andare al lavoro si sarebbe inca**ato molto.

    Per fortuna sono anni che non uso l’ auto in città, in particolare per andare al lavoro, (in centro storico e senza parcheggi) e questo mi regala tale soddisfazione (come tutti voi sapete) che il mio sorriso e lo stato d’animo mattutino quando entro nell’edificio dove lavoro con la mia bici mi ripaga di tutto…

  3. Premetto che sono una che se può lascia la macchina a casa….ma quando vado in macchina a me piace: sorridere ironicamente a uno che mi ha appena fatto un’infrazione davanti alla macchina, ringraziare ironicamente qualcuno che mi ha appena fatto fare un’infrazione davanti alla sua macchina, scendere come una matta per porre al guidatore perplesso che cerca di fregarmi il posto quesiti paradossali tanto x metterlo a disagio, mandare via le persone che mi hanno tamponato – se nn ci sn danni, ovvio, ma la faccia sbigottita nn me la perdo x nulla al mondo! -, fare le corna e minacciare di scendere e prendere a calci la macchina a guidatori particolarmente impazienti, ma solo se sto con le amiche. Insomma, mi diverto da matti!!!

  4. Io ho provato una sensazione simile persino con lo scooter, proprio stamattina. Per la prima volta dopo 3 mesi non sono potuto andare in ufficio in bicicletta e mi sono ritrovato fermo nel traffico, in una strada che prendendo la bici si può evitare… peccato non aver ancora trovato il modo per “salvarli da loro stessi”… anche questo è un pensiero che faccio spesso.

  5. La consistenza numerica del problema e la sua qualita’ frutto di decenni di antipolitica e anticultura (i politicanti sono espressi dagli elettori, non sono diversi, meglio o peggio) dell'(im)mobilita’ privata su gomma hanno reso il traffico una sorta di jungla artificiale in cui tende a valere la legge del piu’ forte a discapito del funzionamento (?) complessivo del problema.

    Piuttosto di entrare in citta’ in auto, io preferisco arrivarci saltando su una sola gamba per chilometri. Ma molte persone si sono assuefatte a questa tortuna esistenziale e, peggio, la considerano e norma e status quo da conservare.

  6. A braccio: “Esiste un inferno terreno che creiamo stando insieme. Ci sono due modi di reagire ad esso. Uno è diventare noi stessi inferno e non preoccuparcene. L’altro è salvare, nel mondo, quel poco che non è inferno e coltivarlo” -Italo Calvino, fine de “Le città invisibili”

  7. Caro Marco! Hai descritto bene l’inferno quotidiano di Roma (che ho quasi dimenticato). Ho tradotto il tuo articolo e voglio pubblicarlo nel mio blog manipogo il 11 ottobre, d’accordo? In Germania tanti scrivono sulla crisi italiana, ma come l’Italiano si muove nel traffico, così si muove nel suo mondo. Tanti saluti, Manfred.

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