Il re è nudo e incapace

Quello che vedete nella foto è un lavoro di poche ore fa, realizzato in poche decine di minuti da un pugno di volontari nel corso di un “blitz” presso il sottopasso di Santa Bibiana che collega l’asse della Tiburtina ed il quartiere di San Lorenzo (Città Universitaria) con Piazza Vittorio Emanuele e col centro città in generale.

Il tunnel, originariamente progettato per flussi di traffico nei due sensi di marcia, è stato successivamente riconvertito a senso unico, senza però intervenire sulla sezione stradale. Il risultato è che l’allargamento (temporaneo) della sezione stradale ottiene unicamente di innescare il classico “Gran Premio de’ Noantri” che si sviluppa quando il coatto biturbo di turno ha modo di effettuare un sorpasso inutile e sregolato ai danni dell’incolumità altrui.

Una soluzione corretta e rispettosa del buonsenso avrebbe provveduto alla riduzione della carreggiata a singolo senso di marcia (tale è quella che proviene dal semaforo antistante) a tutto vantaggio dell’allargamento di sezione dei marciapiedi e della realizzazione di percorsi ciclabili in sicurezza, ma niente. Ripetute sollecitazioni, raccolte di firme, progetti auto-prodotti e mobilitazioni dei cittadini hanno ottenuto come reazione dalla pubblica amministrazione e dagli uffici competenti il tradizionale “nulla”, l’ennesimo muro di gomma.

Questo a fronte di un problema concreto e drammatico, ovvero il muro che letteralmente taglia in due la città prodotto dalla presenza dei binari ferroviari della Stazione Termini (come spiegato qui). Barriera urbanistica a cui è stato posto rimedio solo per il traffico veicolare, bellamente ignorando le necessità di ciclisti e pedoni, obbligati a confliggere per spazi inutilmente ridotti all’osso o ad effettuare inutili allungamenti di percorso.

Approfitto perciò di questa illuminante dimostrazione per provare a buttar giù un po’ di riflessioni che covavo già da tempo riguardo all’inefficienza dell’amministrazione pubblica romana (e temo anche di molte altre).

In primo luogo devo contestualizzare la mia situazione ed il “pulpito” dal quale mi trovo a predicare. Mi occupo professionalmente di disegno e progettazione meccanica di impianti di movimentazione industriale, la mia esperienza professionale si svolge quindi quasi interamente nel settore privato.

Nel settore privato il cliente sa con estrema esattezza cosa vuole realizzare, come l’impianto dovrà funzionare e quali risultati si attende: tutti questi parametri sono indicati nel contratto stipulato. Se il cliente ha necessità di un impianto in grado di movimentare, poniamo, 1000 pezzi l’ora, non accetterà un risultato di 500 o di 800, perché da questo dipenderà la resa economica dell’impianto stesso.

Nel tanto vituperato “settore pubblico”, quantomeno in quello relativo alle infrastrutture per la ciclabilità col quale ho avuto a che fare negli scorsi decenni, quest’analisi a monte per solito non viene fatta. Non si stabilisce mai che una pista ciclabile, per portar beneficio alla cittadinanza a fronte dei costi sostenuti, debba supportare un transito quantificato di ciclisti al giorno. Ogni realizzazione si fa per motivazioni politiche, o di opportunità, o di disponibilità di fondi e spazi, ma mai perché realmente debba produrre un risultato concreto.

Quella che è prassi comune all’estero, dove per ogni spostamento trasferito dal mezzo pubblico alla bicicletta vi è una contropartita economica che giustifica il costo della realizzazione, qui da noi è pura fantascienza.

Se a Copenaghen una pista ciclabile non viene usata a sufficienza la prima cosa a cui si pensa è che sia stata progettata o realizzata male, e quindi ci vanno di mezzo i decisori politici e gli uffici tecnici. Se a Roma una pista ciclabile non viene usata, magari perché mal progettata, abbandonata all’incuria o semplicemente perché realizzata dove non serve a nulla, l’alibi di politici e tecnici è che i ciclisti (ingrati) “non ci vogliono andare”, quindi è colpa loro se le piste non si realizzano.

(uso qui il termine piste perché familiare, anche se l’orientamento più recente consiste nella realizzazione di corsie sulla sede stradale)

Altra differenza fondamentale tra pubblico e privato consiste nella maniera utilizzata per confrontarsi e scambiarsi informazioni essenziali. Nella mia esperienza personale, quando in corso di progettazione dell’impianto emerge un problema imprevisto, l’ufficio incaricato del progetto emette una comunicazione nei confronti del cliente in cui lo informa:

  1. del problema emerso
  2. delle possibili soluzioni tecniche

Solo a quel punto, se il cliente non è soddisfatto di quanto proposto, si convoca una riunione, nel corso della quale le due parti cerchino una possibile alternativa che salvi capra e cavoli, o concordino su una delle soluzioni proposte.

Abbiamo provato, come associazioni e realtà informali operanti nel campo dello sviluppo della ciclabilità, a portare l’attuale amministrazione ad adottare una metodologia di lavoro di questo tipo, esplicitandola in una lettera aperta.

Risultato? Nessuno. Non si sono degnati di risponderci né di confrontarsi su quanto illustrato, limitandosi, ad un mese di distanza, a riconvocarci ad un “tavolo tecnico” con la sola indicazione di data ed orario, senza uno straccio di ordine del giorno.

Se provassi a comportarmi così sul posto di lavoro mi licenzierebbero su due piedi!