Aggressività dislocata

Sto seguendo ormai da un po’, compatibilmente con le disponibilità di tempo ed attenzione, le lezioni del corso di di biologia del comportamento umano tenute dal prof. Robert Sapolsky alla Stanford University nel 2011 [1]. Un ciclo dalla mole significativa (25 lezioni, in media di un’ora e mezza l’una), che affronta un ampio ventaglio di aspetti controversi del comportamento umano, tracciandone la verosimile derivazione da soggiacenti dinamiche di natura genetica, neurologica, biochimica, evolutiva ed ambientale.

Nonostante la difficoltà nel seguire una trattazione in lingua inglese, non di rado estremamente tecnica (fondamentale la disponibilità di traduzione automatica dei sottotitoli in italiano), ho iniziato a trovare risposte quantomeno plausibili a diverse domande che mi assillavano da tempo.

Immagine da Wikimedia Commons

Nella 19^ lezione, la terza sull’aggressività (minuto 50:40 [2]), viene descritto il meccanismo di ‘aggressività dislocata’. In sostanza, quando siamo infuriati o frustrati per situazioni che non siamo in grado di gestire o contrastare, sfoghiamo la nostra rabbia su quello che abbiamo a tiro in prossimità. Tipicamente sulle persone che ci vivono accanto.

…abbiamo poi (…) una visione molto, molto diversa (…) costruita attorno all’idea che l’aggressività sia in definitiva tutta una questione di frustrazione (…), dolore, stress, paura, ansia. Un punto di vista fortemente spinto dai ricercatori russi nel periodo dell’Unione Sovietica. Una visione molto marxista perché, essenzialmente, ciò che si conclude alla fine è questo tema, che continuo a sollevare ogni volta, che l’amigdala ha qualcosa a che fare sia con l’aggressività che con la paura. Che in un mondo in cui nessun neurone amigdaloide ha bisogno di avere un potenziale d’azione per paura, non ci sarà aggressività. Questa è la versione estrema del modello di dislocamento della frustrazione (…) Quando i livelli di disoccupazione salgono, anche i livelli di abuso coniugale aumentano, e ugualmente aumentano i livelli di abuso sui minori. Quando l’economia va male avviene la stessa identica cosa. Negli animali da laboratorio: procura uno shock ad un topo e otterrai che morderà l’animale che ha accanto. Tutte queste sono forme di aggressività dislocata. In una tribù di babbuini, ad esempio, quasi il 50% delle aggressioni sono dovute ad aggressività dislocata, ed avvengono dopo che un individuo ha perso un combattimento o l’accesso a una risorsa. Questo meccanismo è in grado di spiegare due aspetti davvero deprimenti sulle società diseguali. Il primo è che più sei povero, più è probabile che tu sia violento, più è probabile che tu commetta atti criminali. E quando l’economia va male il problema si aggrava. Tutto diventa più distorto. L’altro aspetto tragicamente ironico di questo processo è che quando la criminalità sale negli strati socioeconomici più bassi, gli atti criminali sono rivolti in modo schiacciante verso gli altri poveri. Quando il crimine aumenta durante i periodi di frustrazione e maltrattamento delle classi socioeconomiche inferiori, non assume la forma in cui, improvvisamente, tutti decidano di scalare il muro fino al palazzo lì accanto e distruggere alcuni dei vasi Ming. Invece si tende ad aggredire le persone che sono vittime proprio accanto a noi. Durante i periodi di recessione economica, i tassi di criminalità nei quartieri più poveri salgono, ed è quasi sempre violenza rivolta agli abitanti del vicinato.

Mi è stato relativamente immediato collegare questa modalità comportamentale con quanto già esposto in una precedente lezione [3], sempre in relazione all’aggressività, dove veniva illustrato un esperimento effettuato su cinque macachi.

Prendi cinque macachi maschi (questo è stato uno studio classico). Mettili insieme e formeranno una gerarchia di dominanza. Il numero uno picchia da due a cinque, il numero due da tre a cinque, e così via. Prendi il numero tre e pompalo con il testosterone. Pompalo con quantità folli di testosterone. Quello che vedrai è che sarà coinvolto in un maggior numero di combattimenti. Significa che il numero tre ora sta minacciando il numero due e il numero uno? Assolutamente no, quello che sta succedendo è che il numero tre diventa un incubo per i numeri quattro e cinque. Il testosterone sta cambiando la struttura dell’aggressività in questo gruppo? No, sta esagerando la struttura sociale preesistente.

Lo studio evidenzia quindi una propensione a scaricare l’aggressività sui soggetti più deboli. Un simile comportamento ha, molto verosimilmente, radici nei processi evolutivi. La selezione naturale premia gli individui propensi a scaricare l’aggressività sui più deboli, mentre danneggia quelli che tenderebbero ad attaccare avversari più forti di loro, che avranno elevate probabilità di fare precocemente una brutta fine.

Emergerebbe perciò una propensione biologica a prendersela coi più deboli, in comune con tutto il resto del regno animale. Benissimo, anzi, malissimo. L’esistenza stessa di automatismi psichici di questa natura contrasta con buona parte delle architetture morali ed etiche sviluppate nei millenni dal pensiero umano. Nondimeno, in quanto evidenze scientifiche, occorre tenerne conto.

Prima di proseguire oltre devo chiarire un punto: prendere atto di una fenomenologia comportamentale non presuppone alcun tipo di approvazione morale, di accettazione o di giustificazione della stessa. Attiene alla nostra condizione di individui consapevoli, ed al nostro senso di giustizia, cercare e trovare soluzioni ed equilibri migliori.

E tuttavia occorre prendere atto di meccanismi psicologici che in natura esistono, che interessano la gran parte delle specie viventi capaci di comportamenti relazionali e sociali complessi, e che non possono essere semplicemente ignorati, né pretendere che bastino educazione e modellazione sociale delle abitudini a farli sparire.

L’aggressività dislocata, nello specifico, può dar conto dei maltrattamenti che avvengono all’interno della sfera familiare. In una cultura dominata dalla competizione economica è facile che l’ambito lavorativo produca un accumulo di frustrazioni che finiscono con lo scaricarsi al di fuori di esso. E nella società moderna gli individui trascorrono la maggior parte del proprio tempo in due ambiti relazionali ben distinti: l’ambito lavorativo e quello domestico.

Lo stress e le frustrazioni accumulate nell’ambito lavorativo, dal quale dipendono la retribuzione e il sostentamento, possono scaricarsi in parte sui colleghi, in particolare i sottoposti, ma finiscono più facilmente a proiettarsi nell’ambito familiare, dov’è azzerato il rischio di perdita dell’impiego e della retribuzione relativa.

Aggressività che assume forme e modalità diverse, fisiche e/o psicologiche, a seconda delle modalità individuali di gestione delle dinamiche relazionali. Individui anatomicamente più forti tenderanno ad esercitare di preferenza modalità aggressive di tipo fisico, mentre individui fragili, se intellettivamente dotati, tenderanno più facilmente ad esercitare forme di aggressività di natura psicologica.

È facile, già da queste semplici considerazioni, individuare uno schema di massima delle dinamiche distruttive che possono emergere nell’ambito familiare a causa dell’accumulo di insoddisfazioni e frustrazioni. Potremo altresì aspettarci che l’incremento di stress ed incertezze indotti nel corpo sociale dall’attuale pandemia finisca col tradursi in un aumento delle aggressioni e del bullismo, e verificare come sia esattamente quello che avviene [4].

In tutto ciò, il portato di alienazione individuale e collettiva prodotto dall’urbanistica moderna, che ha tradotto una disponibilità globale di risorse in forme di edilizia residenziale classicamente monofamiliari, ha ottenuto di esacerbare i meccanismi di ‘aggressività dislocata’, sequestrandoli in larga misura all’interno dei nuclei familiari.

Un quadro che appare ancor più catastrofico se consideriamo gli effetti a lungo termine prodotti da maltrattamenti e violenze domestiche. Diversi studi mostrano infatti come l’esposizione a forme di violenza, fisica e psicologica, tendano a fissarsi nei circuiti cerebrali, dando luogo ad alterazioni permanenti della personalità. Questo processo di alterazione delle risposte cerebrali [5] è, purtroppo, molto più evidente nelle fasi dello sviluppo, generando scompensi difficili da recuperare negli adulti fatti oggetto di maltrattamenti in età infantile.

Peggio ancora, esistono molteplici evidenze del fatto che queste alterazioni siano in grado di fissarsi nel DNA, attraverso processi epigenetici [6], e di propagarsi alle generazioni successive. Questo è il portato più tragico, perché il male che viene fatto ad un individuo, quando si traduce in esplosioni di violenza all’interno della famiglia, finisce col fissarsi sui suoi stessi figli, moltiplicandone gli effetti distruttivi. Non solo si vive una condizione di sofferenza, calpestati dal contesto sociale, ma nello sfogare la rabbia accumulata sui propri familiari si danneggia la propria stessa discendenza e le generazioni a venire.

Altro ambito in cui possiamo leggere processi di ‘aggressività dislocata’ è quello legato alla sicurezza stradale. È un tema che mi tocca nel vivo come ciclista urbano. Dal mio personale osservatorio registro un diffuso disprezzo, da parte degli automobilisti, per le prescrizioni di sicurezza: limiti di velocità, distanze, spazi di frenata, e una generale assenza di rispetto per gli altri utenti della strada, pedoni e ciclisti in testa.

Numerosi conducenti di autoveicoli appaiono frustrati ed aggressivi, per problemi personali, sociali o per le dinamiche conflittuali proprie della mobilità veicolare. Il loro essere ‘inscatolati’ li rende incapaci di scaricare tale aggressività su qualcuno/a in prossimità, di conseguenza finiscono con l’individuare come ‘valvola di sfogo’ gli altri utenti della strada (ciclisti, pedoni, anziani), percepiti come ‘fisicamente e gerarchicamente inferiori’ (quindi non pericolosi) e con lo scaricare su di essi la propria rabbia repressa.

La recente pandemia ha ulteriormente contribuito ad esasperare gli animi, ed il portato di questa frustrazione diffusa si è tradotto, fra le altre cose, in un aumento (largamente percepito) dell’aggressività sulle strade. Un metodo alternativo è stato il ricorso all’uso di alcol e droghe, il cui utilizzo è pure in crescita [7]. Va da sé che le sostanze psicotrope determinano un abbassamento della soglia di autocontrollo, col risultato che le esplosioni di violenza, quando accadono, ne risultano amplificate.

Dalla lezione di Sapolsky emerge poi un rimando inquietante ai rapporti tra le diverse classi economiche in cui tende a suddividersi qualunque società umana. Se andiamo a proiettare le dinamiche relazionali proprie dei piccoli aggregati su una scala più vasta, osserviamo come i meccanismi della ‘aggressività dislocata’ possono essere sfruttati in chiave di controllo sociale.

Stabilito che la violenza cieca si scarica in prevalenza sugli individui in prossimità, per evitare che raggiunga i soggetti effettivamente responsabili delle condizioni di frustrazione diffusa (quelle che chiameremo le élite economiche) un buon punto di partenza sarà realizzare una separazione fisica tra i luoghi di vita e lavoro di ricchi e poveri, ed è un processo che vediamo già in atto in diverse parti del mondo [8].

In termini di controllo sociale questo significa poter incrementare i fattori di stress su quelle che Sapolsky definisce ‘classi socioeconomiche inferiori’ senza rischiare reazioni indesiderate come forme aggregate di ribellione sociale. La polverizzazione, disgregazione ed il progressivo imborghesimento delle classi economiche meno agiate, la dispersione territoriale e l’isolamento indotto nei nuclei familiari dalla sostituzione dell’ambito relazionale con l’intrattenimento audiovisivo, hanno ottenuto di sequestrare le dinamiche violente in prevalenza all’interno di ambiti privati.

Altro classico esempio di utilizzo sociale dell’aggressività dislocata è il tifo da stadio, caratterizzato da forme di aggressività ritualizzata che esplodono, occasionalmente, in violenza brutale. Attacchi che si consumano in spazi e tempi circoscritti e svolgono una funzione di scaricamento della violenza accumulata in forme atte a non turbare l’ordine costituito, in quanto esercitati di norma tra opposte tifoserie, quindi tra individui degli stessi gruppi sociali (all’interno di un sistema culturale capace di alimentare un meccanismo economico dai bilanci milionari).

Le conclusioni di questa riflessione sono molto amare. Da un lato si evidenzia un meccanismo psicologico innato di scaricamento dell’aggressività e della violenza sui più deboli, che cozza con tutte le elaborazioni etiche e morali sviluppate dalla nostra specie, al punto da far ritenere che lo sviluppo dei costrutti culturali etico/morali sia un adattamento necessario a preservare gli individui più fragili dalla generale innata propensione alla violenza.

Dall’altro emerge la potenzialità per un utilizzo delle nozioni di psicologia comportamentale finalizzato alla stabilizzazione di un modello sociale, basato sullo sfruttamento delle classi economicamente e culturalmente più fragili, che pare tragicamente calzante con quanto ci è dato osservare nelle culture umane antiche e moderne.

Passando ad un ambito strettamente personale, l’approfondimento delle dinamiche legate a violenza ed aggressività confido mi rendano più consapevole riguardo ai processi che coinvolgono le mie stesse reazioni emotive, consentendomi in futuro un miglior autocontrollo nella gestione degli scatti d’ira. Non sarà molto, ma è già qualcosa.


[1] – Lecture Collection | Human Behavioral Biology

[2] – 19. Aggression III (minuto 50:40)

[3] – 18. Aggression II (minuto 1:33:57)

[4]Obesità, anoressia e aggressività in crescita con la pandemia (RAI News)

[5] – Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD)

[6] – Epigenetica

[7] – Consumo di droghe

[8] – Gated communities

Darwin, l’empatia e la violenza

The_ScreamI lettori di questo blog sanno che amo discettare occasionalmente su materie per le quali non ho formali competenze, ed è il caso di questo post. Il motivo che mi spinge a far ciò è che, di tanto in tanto, inciampo in questioni che non riesco a gestire con le chiavi di lettura fornite dalla narrazione corrente. Nel caso specifico, le esplosioni di violenza incontrollata.

L’esercizio della violenza appare vieppiù biasimevole ed incomprensibile quando avviene nei confronti di soggetti deboli, di norma donne e bambini. La società contemporanea ha iniziato recentemente ad interrogarsi su un fenomeno che ha preso il nome di ‘femminicidio’, e riguarda l’uccisione, da parte di un maschio, della compagna, o ex compagna, cui sia stato precedentemente legato da una relazione sentimentale.

Tralasciando i casi, per fortuna rari, in cui tale omicidio viene freddamente pianificato a tavolino e lucidamente posto in atto, nella maggior parte dei casi la molla che innesca il delitto appare essere fornita dall’ennesimo litigio, l’ennesima situazione di stress, a cui il maschio, non di rado obnubilato da sostanze psicotrope (alcol e/o droga) reagisce con forme di violenza estrema.

Altra situazione con cui trovo analogie sono gli infanticidi determinati da depressione post-parto. In questo caso è presente una patologia psichica relativamente nota e dai contorni definiti, ma resta, per quella che è la mia percezione, l’insensatezza di un atto inconsulto, non pensato, non pianificato. Infanticidio che, oltretutto, scatta solo per alcune donne e non per altre.

La terza forma comportamentale difficile da digerire sono gli eccessi di violenza sui minori, anche molto piccoli, che portano adulti, in genere maschi, ad infierire brutalmente su corpicini inermi per motivazioni futili come, ad esempio, un pianto incontrollato.

Il fattore comune a queste tre situazioni è, in molti casi, l’esplosione incontrollata, il gesto inconsulto, la perdita totale ed irreparabile del controllo sul senso del proprio agire. In alcuni casi ci troviamo di fronte ad individui dal temperamento abitualmente violento o sopra le righe, ma questo non può valere per le madri che uccidono i propri figli in preda a depressione.

Una chiave di lettura mi è stata fornita, quasi incidentalmente, da una fiction medica. Nella vicenda inscenata uno psicologo si trovava ad affrontare il caso di una bambina totalmente psicopatica, ovvero incapace di provare empatia con altri esseri umani che, nell’arco narrativo, aveva rischiato di uccidere il fratellino per un futile diverbio.

Lo psicologo, per evitare di rinchiuderla a vita in un istituto, cerca di insegnarle un metodo alternativo di gestione delle proprie reazioni, una strategia che le consenta di emulare le funzioni emotive che la bambina non è in grado di provare.

Da ipocondriaco latente quale sono, non ho potuto fare a meno di proiettare il problema su di me, e domandarmi: “non starò facendo anch’io la stessa cosa?”. In altri termini: non potrei essere anch’io uno psicopatico che emula le reazioni emotive con sovrastrutture razionali? Se così fosse, cosa accadrebbe nel momento in cui i meccanismi razionali, a seguito di stress intensi e prolungati, finiscano col cedere?

Questa interpretazione comportamentale potrebbe dar conto dei fenomeni sovra-descritti, in cui una momentanea perdita di controllo ha conseguenze devastanti sulla vita degli altri e sulla propria. Ma presupporre una tale percentuale di psicopatologie ‘auto-corrette’ mi è parsa una forzatura eccessiva. La realtà non è solo bianco o nero, presenta solitamente una vasta sfumatura di zone grigie.

Ancora una volta mi sono rifatto al pensiero di Darwin: cosa è un vantaggio, e cosa uno svantaggio, in termini evolutivi? Il comportamento sociale, quindi l’empatia, la capacità di comprendere, interpretare e fare proprie le emozioni altrui, è evidentemente un vantaggio: consente di formare gruppi, la cui efficacia in termini di sopravvivenza e riproduzione è superiore a quella del singolo individuo.

Ma se la cooperazione è un fattore chiave del nostro successo come specie, la competizione lo è altrettanto perché consente, all’individuo ed al gruppo, di difendersi dalle aggressioni, di sottomettere i ‘competitors’ ed in ultima istanza di accedere ad una maggior quantità di risorse.

Ma, e qui è il punto, come gestire queste due necessità tra loro conflittuali? Come passare dalla cura e l’affetto per il proprio gruppo/tribù alla necessità di combattere senza pietà tribù rivali e potenziali aggressori? Come passare dal ruolo di genitore affettuoso a quella di guerriero spietato?

La spiegazione che mi sono dato è che queste due nature fanno entrambe parte del nostro essere umani, separate da un confine che può essere, a volte, molto sottile. Sia la capacità di provare empatia che quella di non provarne fanno parte del successo evolutivo della nostra specie. E la gestione di questa profonda contraddizione risiede in meccanismi mentali, sviluppati ad-hoc, che possono occasionalmente incepparsi.

Così, per fare un esempio, possiamo essere profondamente empatici con alcune specie animali ‘di compagnia’, e parimenti non-empatici con altre specie animali di cui invece ci nutriamo. Non è raro, nel mondo contadino, che la stessa persona che al mattino gioca con il proprio cane, il pomeriggio sgozzi a mani nude un maiale: entrambi questi comportamenti sono funzionali al suo benessere ed alla sua sopravvivenza.

Se, pertanto, entrambi i comportamenti, empatico e psicopatico, sono vantaggiosi per la specie (o lo sono stati in un passato non troppo lontano, dato che il genoma umano è sostanzialmente immutato da diverse decine di migliaia di anni), la mia personale conclusione è che disporre della capacità di passare dall’uno all’altro rappresenti anch’essa un vantaggio.

Quindi dobbiamo abituarci a ragionare gli esseri umani come individui necessariamente dotati di questa doppia natura, empatica ed anempatica, in grado di passare senza soluzione di continuità dall’una all’altra se posti in condizioni di forte stress.

Questo significa che chiunque di noi può, in un determinato momento, ‘perdere il lume della ragione’. Perdere, cioè, la capacità di percepire gli altri come simili a sé, finendo col comportarsi da perfetto psicopatico per un ristretto arco temporale. L’assunzione di sostanze psicotrope (droghe o alcol) facilita questa transizione di stato mentale.

Essendo tale capacità, nel contesto odierno caratterizzato da una diffusa socialità, potenzialmente dannoso non solo per l’oggetto della violenza ma anche per il soggetto che la esprima, l’unico suggerimento che si può dare ai singoli è quello di evitare, ove possibile, le situazioni capaci di generare stress elevati. Obiettivo che, di fondo, rappresenta la finalità di molte antiche filosofie orientali, in cui la ricerca della pace interiore attraverso forme di meditazione non ha altro intento se non la riduzione dell’accumulo di stress psicologico.

Dal punto di vista della collettività, se la tesi suesposta dovesse essere confermata da evidenze sperimentali, dovremmo darci modo di diagnosticare la potenziale fragilità di questo confine psichico in specifici individui, per indirizzarli verso stili di vita ‘a basso rischio’. Allo stesso modo i partner dovrebbero poter accedere a queste informazioni cliniche, in modo da poter agire di conseguenza.

Purtroppo la società attuale va in direzione diametralmente opposta, promuovendo forme di insoddisfazione (e quindi di stress) come motore dello sviluppo sociale, alimentando bisogni indotti e generando in forma diffusa situazioni esasperanti, non ultima la guida prolungata di veicoli a motore. Queste condizioni di ‘stress sociale’ si scaricano, in ultima istanza, all’interno dell’unità minima, la coppia o la famiglia.

Non è un caso se le culture a capitalismo avanzato, che più spingono sull’accelerazione di questi fattori di stress, siano anche quelle dove l’uso di sostanze psicotrope sia più elevato, e le esplosioni di violenza irragionevole avvengano su più larga scala.

L’esperimento sociale in cui viviamo immersi da decenni ormai, consistente nell’inurbazione forzata di masse crescenti di individui e nella competizione economica tra diverse nazioni pur in assenza di conflitti espliciti tra le stesse (le guerre), finisce con lo scaricare la distruttività accumulata ed inespressa sugli elementi più deboli della catena: i singoli individui, finendo con l’innescare esplosioni di violenza incontrollata ed insensata proprio in virtù di un meccanismo che, in un lontano passato, ci ha invece aiutato a sopravvivere.