La questione ambientale (quarta parte)

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

A peggiorare il bilancio dell’assalto plurimillenario condotto dalla nostra specie nei confronti delle risorse globali, l’inquinamento ha aggiunto ulteriore fattore di stress agli ecosistemi naturali.

Col termine inquinamento si intende l’introduzione di materiali ‘alieni’ alle dinamiche biologiche, ed in grado di interferire coi processi di riuso della materia organica. Tutto quello che la specie umana estrae dal suolo, raffina, trasforma, utilizza ed infine scarta rappresenta una forma di inquinamento. Inizierò quindi col descrivere una modalità di inquinamento che non viene ancora individuata come tale: l’edilizia.

I primi rifugi inventati dalla nostra specie furono, con molta probabilità, capanne di legno e foglie, composte interamente da materiali organici, decomponibili e biologicamente riciclabili. Col tempo ed il padroneggiare tecniche di manipolazione più evolute, la costruzione di edifici in pietra rappresentò un primo esempio di intervento umano operato in totale difformità dai processi biologici.

I materiali inerti necessari all’edilizia vengono estratti dalle cave di pietra e collocati dove poi sorgono paesi e città, luoghi di norma caratterizzati da abbondante disponibilità di suolo fertile. La costruzione di edifici e la successiva espansione delle città ha l’effetto di ridurre la disponibilità di suolo fertile.

Con la crescita delle città e la nascita di regni ed imperi, l’occupazione di suolo prodotta dalle città aumenta progressivamente, mentre la produzione alimentare si trasferisce sempre più verso le periferie, processo che innesca la creazione di strade ed il consumo di ulteriore suolo fertile.

Il gigantismo delle attuali metropoli, e le trasformazioni avvenute nella produzione e nei trasporti grazie alla Rivoluzione Industriale, hanno di fatto totalmente scollegato le aree urbane dalla necessità di un’autonomia alimentare ‘di prossimità’, creando condizioni di estrema criticità. Qualunque riduzione nell’efficienza della produzione agricola, o di quella della rete di trasporti, si tradurrebbe in un’incapacità delle popolazioni inurbate di far fronte al proprio stesso sostentamento.

In epoche passate, un limite alla crescita delle dimensioni urbane è consistito nella disponibilità di cibo in relativa prossimità. Con la Rivoluzione Industriale questo limite è stato rimosso, consentendo alle città di espandersi seppellendo le aree agricole di prossimità. Questo processo non è più reversibile nel breve periodo, perché i terreni scavati e cementificati non recuperano la propria fertilità a fronte del semplice abbattimento degli edifici.

I materiali edili presentano quantomeno il vantaggio di essere inerti rispetto ai processi organici. Lo stesso non si può dire di gran parte delle sostanze che sono diventate parte della nostra vita di tutti i giorni. Dalla rivoluzione industriale in poi la chimica ha infatti provveduto a sviluppare una varietà pressoché infinita di sostanze tossiche e nocive, in grado di interferire a vari livelli coi processi biologici.

Queste sostanze sono successivamente entrate a far parte dei manufatti, o divenute parte integrante dei relativi processi produttivi, e molto poco si è fatto per gestirne uno smaltimento sicuro al termine del ciclo d’utilizzo. Parliamo di un ventaglio di sostanze che va dai veleni veri e propri agli acidi, a materiali variamente irritanti, tossici o cancerogeni. Tutta roba che per decenni è stata rilasciata nei fiumi, seppellita, conferita nelle discariche o bruciata e dispersa nell’atmosfera.

Anche materiali biologicamente inerti come la plastica presentano un risvolto negativo, perché la loro diffusione e successivo degrado sta creando problemi agli animali che tentano di nutrirsene, causandone spesso la morte. Soprattutto negli oceani la quantità di frammenti di plastica trasportata da fiumi e correnti sta rappresentando un problema significativo per la fauna marina.

Questo senza contare che il processo di frammentazione, al momento ancora parziale (si parla infatti di ‘microplastiche’), procederà gradualmente fino al livello molecolare, saturando l’ambiente di quantità enormi di catene di polimeri di origine non biologica, con effetti, allo stato attuale, totalmente non quantificabili.

Un’altra parte rilevante di inquinamento deriva dall’impiego di diserbanti ed antiparassitari nell’agricoltura, che cresce di anno in anno. Si tratta di composti chimici dichiaratamente ostili ai processi biologici (la loro funzione è uccidere le varietà vegetali che competono con le specie coltivate e gli insetti che di queste ultime si nutrono), che finiscono con l’accumularsi nella catena alimentare portando morte anche alle specie (rettili, uccelli e mammiferi) che di tali insetti si nutrono.

Oltre agli antiparassitari l’agricoltura fa anche un largo uso di fertilizzanti azotati, che hanno un effetto positivo a breve termine sulle colture, ma nel lungo termine alterano gli equilibri chimici dei suoli rendendoli meno ospitali per le popolazioni di insetti ed altre forme di vita che li abitano. Quel che è peggio: ancora non è chiaro quali siano gli effetti cumulativi relativi al dilavamento di tutte queste sostanze venefiche, al loro assorbimento nei suoli ed alla loro diffusione nei fiumi e nei mari.

Un forte segnale di allarme giunge proprio riguardo alle quantità e varietà di insetti rilevate in prossimità delle aree agricole europee, che hanno subito un collasso repentino negli ultimi anni in diversi paesi. Per la loro importanza nella produzione del miele l’attenzione è attualmente capitalizzata dalle api, specie di cui si sono registrati diversi casi di collasso di interi alveari, fino alla totale scomparsa in diversi paesi, al punto che in alcune zone della Cina gli agricoltori devono impollinare gli alberi da frutta a mano.

Un caso a sé è rappresentato dai sottoprodotti dell’industria nucleare civile e militare. L’evoluzione delle tecnologie atomiche ha generato, mediante un processo detto ‘arricchimento’, tonnellate di materiali radioattivi in forme estremamente concentrate. Materiali che, essendo instabili, non sono mai venuti a contatto con le forme viventi. infatti, pur essendo presenti nella fase di formazione del sistema solare, essi erano già scomparsi, dalla crosta terrestre, ben prima che i processi vitali avessero inizio.

Parliamo di sostanze in grado di rendere pericolose ed inabitabili ampie porzioni di pianeta, come abbiamo visto in occasione degli incidenti di Chernobyl in Ucraina e Fukushima in Giappone. Su scala più ridotta il riutilizzo di uranio impoverito nella fabbricazione di proiettili ha già causato decine di casi di leucemia, anche mortali, fra gli stessi militari utilizzatori di tali munizioni. Molto poco è poi dato sapere sulle condizioni delle migliaia e migliaia di testate nucleari tattiche, il cui semplice potenziale esplosivo, già ai tempi della Guerra Fredda, era dato come in grado di annientare completamente l’intera umanità più volte.

L’ultima e più subdola forma di inquinamento riguarda i gas rilasciati in atmosfera a seguito dell’utilizzo massivo di combustibili fossili per i trasporti, le macchine utensili e la produzione di energia elettrica. Questi gas stanno lentamente ma inesorabilmente alterando l’equilibrio millenario tra il riscaldamento prodotto dalla radiazione solare di giorno, ed il raffreddamento causato dall’irraggiamento notturno, con l’effetto di surriscaldare l’atmosfera ad un ritmo mai visto prima (essendo, per l’appunto, un fenomeno artificiale) ed innescando ulteriori eventi caratterizzati da feedback positivo, ovvero in grado di accelerare il riscaldamento: scioglimento delle calotte polari, con ulteriore riduzione dell’albedo, e rilascio di gas metano dal permafrost artico.

Stiamo già misurando, in questi anni, una variazione delle temperature globali talmente repentina da non lasciare, a molte specie viventi, il tempo di adattarsi, e causando, assieme a fattori concomitanti, un collasso a catena di interi ecosistemi, dalle barriere coralline del pacifico alle popolazioni di orsi bianchi non più in grado di cacciare le foche artiche per la scomparsa dei ghiacci.

Riassumendo: caccia alle specie animali edibili, allevamento e sostituzione della naturale biodiversità con specie ‘simbionti’ (quelle di cui ci nutriamo), distruzione delle foreste per far spazio a coltivazioni, distruzione della residua biodiversità con fertilizzanti, erbicidi ed antiparassitari, consumo di suolo fertile causato dall’edilizia, dalla costruzione di strade ed infrastrutture, oltreché dall’erosione chimica e meccanica prodotta dai macchinari agricoli, rilascio di sostanze velenose e tossiche nell’ambiente, inquinamento da materie plastiche, riscaldamento globale del clima.

Come ultimo risultato, conseguenza di tutto questo gran daffare, la popolazione umana è cresciuta esponenzialmente fin quasi a raggiungere gli otto miliardi di individui, con una impennata negli ultimi decenni che ha prodotto una progressiva invasione antropica dei residui habitat intatti: le foreste vergini dell’Amazzonia e della Polinesia. Un surplus di popolazione umana la cui sussistenza può essere garantita solo attraverso l’inasprimento delle forme di saccheggio ambientale descritte fin qui.

Parafrasando Nietzsche: siamo da un paio di secoli sull’orlo dell’abisso, e l’abisso ci sta chiamando a gran voce. È possibile fare qualcosa per evitare l’estinzione della quasi totalità delle forme di vita complesse del pianeta, e con esse della nostra specie? Proverò a ragionarci su nel prossimo post.

(continua)

Il trionfo della morte – 1

Sto ammucchiando idee da diverso tempo, e il guaio è che sono tutte idee collegate tra loro. Formano la trama di un affresco discretamente vasto, che non ho modo di contenere in un unico post senza renderlo prolisso e strabordante. La soluzione è smembrarlo, questa è la prima parte.

Difficile anche stabilire un punto di partenza del ragionamento, dato che dovrò toccare punti culturalmente molto distanti. Probabilmente converrà iniziare dalla prima intuizione, datata un paio di mesi fa, riguardante gli sguardi degli automobilisti mentre mi sposto in bicicletta attraverso la città.

Parte prima: gli occhi degli automobilisti

Tempo addietro scrissi un post semi-ironico intitolato “Perché gli automobilisti ci odiano”, col tempo ho compreso che in quegli sguardi c’è qualcosa di più, e di diverso, dall’odio. Ritengo si tratti di una forma di nostalgia.

Da appassionato di quella meravigliosa forma di narrativa metaforica che ricade sotto la definizione di fantascienza, rimasi estremamente colpito, molti anni fa, da un racconto breve di Isaac Asimov intitolato Occhi non soltanto per vedere. Solo poche pagine per affrontare il tema del cambiamento, della trasformazione, della perdita di sé.

Il racconto, in breve, immagina l’evoluzione finale dell’umanità in forma di creature semi-divine di pura energia, immortali ed in grado di manipolare la realtà grazie a campi di forze. Volendo attingere ad un immaginario più tradizionale, creature sostanzialmente non troppo dissimili dagli angeli.

All’approssimarsi di una ricorrenza due di queste creature si incontrano nel vuoto dello spazio interstellare per discutere di quale opera d’arte presentare. Una delle due ha un’idea estremamente radicale per esseri di pura energia che hanno fatto dell’energia ogni uso artistico possibile ed immaginabile: produrre un manufatto di materia.

Ottenuta la perplessa attenzione dell’altro, questi comincia a raccogliere della polvere interstellare, fino a metterne insieme una palla, che prende a modellare. Da principio non sa bene cosa tirarne fuori, se non che la forma irregolare di quel mucchietto di materia comincia a smuovere dei ricordi di ciò che era prima di diventare pura energia, di quando era un essere umano.

Comincia quindi a modellare una testa, un naso, degli occhi, finché l’essere di pura energia non viene colto da un’ondata devastante di ricordi sulla propria umanità, fino a diventare consapevole di cosa era, una donna, e di cosa ha significato perdere la propria carne in cambio dell’immortalità.

La “scultrice” fugge via, alla velocità della luce, abbandonando dietro di sé la forma sbozzata della testa che aveva iniziato a modellare: sotto uno degli occhi appare una lacrima. Lacrima che, avendo rinunciato alla propria umanità, non ha più modo di versare, e questo spiega infine il titolo del racconto.

In questo breve apologo Asimov racconta il processo di evoluzione, di crescita, di trasformazione che, volenti o nolenti, il nostro essere umani ci impone, e di come ogni guadagno comporti inevitabilmente anche una perdita. Il diventare adulti ci rende più forti, più sapienti, ci spalanca potenzialità, ma per ciò stesso non può evitare di toglierci la fanciullezza, la leggerezza, la spontaneità.

Ho trovato molti paralleli tra questo racconto e la realtà contingente, uno dei quali è negli sguardi di molti automobilisti. L’idea diffusa, costruita ad arte dalle campagne pubblicitarie, è che l’automobile rappresenti una forma di crescita, di emancipazione: il possesso di un’automobile rappresenta per molti la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro, e di farlo con comodità in un ambiente familiare ed accogliente.

Quello di cui gli automobilisti non sono consapevoli è quanto l’automobile tolga loro in termini di autonomia, autostima, consapevolezza di sé e degli altri: una parziale rinuncia alla propria umanità. Realtà che, ogni tanto, appare un ciclista a ricordargli.

La visione di un ciclista li rende infine consapevoli del doversi imprigionare in una lussuosa scatola per potersi spostare. Una scatola a ruote cui devono sacrificare ore ed ore di lavoro, che va continuamente nutrita, accudita, aggiustata. Una macchina che, a dispetto di quanto affermi la pubblicità, non è da essi posseduta, bensì li possiede.

E questo è il primo tassello del mosaico: la nostalgia della vita perduta. Non già una percezione lucida quanto un’ombra ai margini della coscienza, una consapevolezza negata ma incontrovertibile, l’inspiegabile sensazione di stare viaggiando dentro una bara a quattro ruote. E, forse, di essere già quasi morti.

(Continua)

Il paradosso del prigioniero

Si definisce “dilemma (o paradosso) del prigioniero” una situazione in cui, non potendo condividere e concordare con altri soggetti una soluzione ottimale, si finisce per cedere alla sfiducia ed adottare la soluzione peggiore possibile. Traggo la definizione classica da Wikipedia.

“Due criminali vengono accusati di aver commesso un reato. Gli investigatori li arrestano entrambi e li chiudono in due celle diverse, impedendo loro di comunicare. Ad ognuno di loro vengono date due scelte: confessare l’accaduto, oppure non confessare. Viene inoltre spiegato loro che:

  1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
  2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni.
  3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi.”

La soluzione ottimale per entrambi sarebbe non confessare (1 anno), ma siccome questo non può essere concordato col complice, o non ci si può fidare di lui, allora la scelta probabilmente meno penalizzante diventa confessare (6 anni). Si giunge perciò al paradosso per cui si sceglie consciamente una pena maggiore della minima prevista, pur di non rischiare un ulteriore aggravio.

Uso spesso questo paradosso per spiegare come siamo arrivati all’invivibilità dei nostri centri urbani, alle code e alle congestioni da traffico che ci affliggono quotidianamente. Tutto nasce dal profondo individualismo che ci caratterizza come popolo, e dall’incapacità di una comunicazione orizzontale tra simili, completamente annientata dalla comunicazione verticale operata dai mass media.

In buona sostanza la soluzione migliore per gli spostamenti urbani è attrezzare una rete di mezzi pubblici efficiente e limitare al massimo l’utilizzo ed il possesso del mezzo privato mediante tassazione e/o la disponibilità di servizi quali il “car-sharing” diffuso. Questo equivale all’opzione “nessuno confessa” del paradosso, ovvero una soluzione collettivamente concertata che porti il massimo del risultato col minimo della spesa.

Purtroppo l’efficienza del trasporto pubblico entra direttamente in conflitto con il possesso diffuso di auto private. Il trasporto privato produce un’occupazione di spazi (vetture in movimento ed in sosta, spesso in doppia fila) incompatibile con un’efficiente gestione degli spazi urbani, e maggiormente penalizzante per il trasporto pubblico.

(questa immagine illustra con evidenza il diverso spazio occupato in strada da uno stesso numero di persone quando si muovano in bici, automobile o in autobus)

In buona sostanza, se non ci fosse trasporto privato, ma solo trasporto pubblico, potremmo percorrere uno stesso tragitto in 10 minuti, ma siccome tutti decidono, autonomamente, di acquistare un’automobile privata, allora tra il restringimento delle carreggiate prodotto dalle auto in sosta e l’intasamento prodotto da quelle in movimento si crea una condizione di ingorgo che fa allungare i tempi di percorrenza a 40 minuti per l’auto privata ed un’ora per il mezzo pubblico (penalizzato ulteriormente dalle dimensioni delle vetture e dalla necessità di effettuare fermate).

In questa condizione non c’è modo che il trasporto pubblico venga percepito come vantaggioso, di conseguenza gli utenti continuano a calare, l’introito dell’emissione di biglietti non è più sufficiente a coprire i costi di gestione e le aziende che lo gestiscono entrano in deficit.

Paradossalmente i costi (spesso occulti o non percepiti) di possesso, gestione e manutenzione dell’auto privata sono enormemente superiori a quelli connessi al trasporto pubblico, ma risultano in gran parte slegati rispetto all’utilizzo e legati al possesso. Nel momento in cui si accetta di possedere un’automobile il costo di percorrenza della singola tratta può risultare inferiore a quello necessario per l’accesso al trasporto pubblico (soprattutto a causa della levitazione del costo dei biglietti dovuta allo scarso utilizzo degli stessi).

Si arriva quindi alla paradossale conclusione per cui i tempi di percorrenza attuali, in città, pur effettuati con veicoli teoricamente capaci di velocità elevatissime, sono più lunghi di quelli che si registravano all’inizio del XX secolo, quando ci si spostava solo per mezzo di biciclette e tram elettrici. In compenso abbiamo riempito la città di scatoloni metallici a quattro ruote in sosta in ogni dove, e l’abbiamo resa pericolosa ed infruibile alle categorie più deboli, anziani e bambini in testa, oltreché ben più sporca ed inquinata.

Si poteva fare diversamente? Certo, e c’è chi l’ha fatto. Ci sono città dove il possesso dell’auto privata non è impedito, ma nemmeno incentivato come qui da noi (per fare un favore ai fabbricanti di automobili ed alle compagnie petrolifere). Città dove bisogna documentare che si dispone di un posto auto dove parcheggiare il veicolo, e la sosta in strada non è consentita.

Città dove i mezzi pubblici viaggiano puntuali, tanto che ci sono le tabelline con gli orari ad ogni fermata. Ed il servizio è a tal punto efficiente da consentire ad una buona percentuale di famiglie di non essere obbligate a possedere un’auto propria, rendendo disponibile un economico, capillare ed efficace servizio di car-sharing.

Non bisogna andare lontano, basta varcare un solo confine. Stanno in Svizzera.

Concludo con una fiaba cinese che porto con me dai tempi della scuola elementare. Parla di paradiso ed inferno, e di come la differenza tra i due possa dipendere unicamente dai nostri comportamenti e dalle nostre scelte quotidiane. E anche di come l’egoismo, in un contesto sociale, risulti dannoso.

“Un Mandarino cinese venuto a morte, mentre s’avviava al Paradiso, ebbe voglia di visitare l’Inferno. Fu accontentato e condotto al soggiorno dei dannati. Si trovò così in un’aula immensa, con tavole imbandite, su cui fumava, profumando l’aria, il cibo nazionale in enormi vassoi: il Riso, il diletto e benedetto Riso.

Attorno alle tavole sedevano innumerevoli persone, ciascuna munita di bacchette di bambù per portare il Riso alla bocca. Ogni bacchetta era lunga due metri e doveva essere impugnata a una estremità. Ma, data la lunghezza della bacchetta, i commensali, per quanto si affannassero, non riuscivano a portare il cibo alla bocca. Tutti erano furibondi, bestemmiavano e si affannavano, ma senza alcun risultato.

Colpito da quello spettacolo di fame nell’abbondanza, il Mandarino proseguì il suo cammino verso il soggiorno dei Beati. Ma quale non fu la sua sorpresa nel constatare che il Paradiso si presentava identico all’Inferno: un ampio locale con tavole imbandite, vassoi enormi di riso fumante, da mangiarsi con bacchette di bambù lunghe due metri, impugnate ad una estremità.

L’unica differenza stava nel fatto che ciascun commensale, anziché imboccare se stesso, dava da mangiare al commensale di fronte, di modo che tutti avevano modo di nutrirsi con piena soddisfazione e serenità.”

Distruggete le macchine

“Piano meccanico” di Kurt Vonnegut, nell’edizione di Urania del luglio 2000, è rimasto in attesa per più di dodici anni nel mio scaffale dei libri da leggere. Pubblicato originariamente sessant’anni fa (1952) descrive una società distopica in cui la meccanizzazione della produzione industriale ha causato l’esclusione dai processi produttivi di vaste fasce della popolazione e la loro ghettizzazione in lavori dequalificati ed umilianti.

L’alternativa per le persone con Q.I. insufficiente a far parte della tecnocrazia dominante è infatti tra i “Corpi di Ricostruzione e Risanamento” (popolarmente denominati “Puzzi e Rottami”) e l’esercito, dove la prospettiva diventa quella di passare gli anni a fare esercitazioni con fucili finti, o finire su teatri di guerra a schiacciare bottoni per azionare armi automatizzate.

Il primo effetto di spiazzamento lo si ha già dalle prime pagine, nel rendersi conto di quanto lontane nel tempo siano le coordinate sociali all’interno delle quali i personaggi si muovono. Questo va in larga misura imputato dalla disinvoltura con la quale la collana della Mondadori ha proposto per anni lavori datati senza alcun tipo di “alert” (ad oggi, quantomeno, vengono dirottati nella collana “Classici”).

Il mondo descritto da Vonnegut non è ovviamente il nostro, né potrebbe esserlo: le evoluzioni del costume e della società sono ben più difficili da prevedere rispetto ai cambiamenti prodotti dalle tecnologie. Il futuro narrato nel romanzo è una trasposizione dell’America degli anni ’50, coi suoi miti e riti. L’effetto finale è discretamente bizzarro, al punto che pare di leggere una sorta di “steampunk” tanto lo scenario veterofuturista appare incongruo (ovviamente non era questa l’intenzione dell’autore, ma è quello che appare al lettore contemporaneo).

Tuttavia ne emergono paralleli lucidissimi ed inquietanti col mondo attuale, ben lontani dalle utopie futuriste degli anni immediatamente precedenti: la produttività quasi illimitata ed a bassissimo costo consentita dalle fabbriche automatizzate che, anziché affrancare le persone dalla necessità di lavorare, finisce col togliere ai più ogni ragione di esistere, relegando una porzione via via crescente della popolazione a mansioni accessorie e squalificanti.

Non è esattamente il mondo in cui viviamo, al più una sua evoluzione potenziale, semplificata e grottesca, ma come ogni specchio deformante ci consente perlomeno di apprezzare qualche dettaglio dell’oggetto riflesso.

La produzione di massa a basso costo c’è stata, almeno per la parte del mondo in cui viviamo, ma si è scoperto che le macchine non lavorano da sole ed una parte significativa della forza lavoro è rimasta impiegata nell’industria manufatturiera e nei servizi.

I lavori degradanti sono stati sostituiti da una pesantissima burocratizzazione dell’apparato statale e da una sua ipertofia. I quasi trentamila forestali siciliani non saranno identici ai “Corpi di Ricostruzione e Risanamento”, ma ci somigliano davvero tanto, così come le migliaia di impiegati occupati giornalmente a muovere scartoffie da un ufficio all’altro, mossi da regolamenti che tutto hanno in sé tranne esigenze di efficienza.

Nel finale del romanzo, l’America distopica di Vonnegut, governata da una tecnocrazia che si affida ciecamente alle macchine, viene facilmente travolta da una rivoluzione (parziale) che le fa a pezzi. Ma per i protagonisti della rivolta non c’è modo di gioirne: la prima idea che il popolino ha dopo aver sfasciato tutte le macchine e la presa di coscienza di esserne ormai totalmente dipendente, è darsi da fare per ripararle… perfetta rappresentazione di una psiche di massa incapace di analisi, approfondimento, riflessione e  memoria.

Il nostro mondo, invece, con molta probabilità finirà per consunzione, quando le materie prime cominceranno a scarseggiare e continuare a far funzionare le macchine risulterà economicamente sempre meno vantaggioso. La psiche di massa non ci aiuterà neppure in quel caso.