8 – Esaurimento delle risorse

(si conclude la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

I Processi di Inganno e le Ideologie prendono il controllo della Società spingendo alla massimizzazione della produzione di Ricchezza attraverso l’accelerazione del saccheggio ecosistemico
Essendo i Processi Ideologici fondamentalmente irrazionali, non sono in grado di tener conto della Realtà Fattuale, producendo l’esaurimento delle risorse disponibili nel più breve tempo possibile

In quest’ultima parte proverò a dedurre le estreme conseguenze dei meccanismi sistemici fin qui descritti. Abbiamo già visto come gli esseri umani siano spinti ad agire da ciò che percepiscono in termini di ‘bisogni’ [1], come questi bisogni si prestino ad essere manipolati da gruppi organizzati [2], e come la nostra umana propensione all’auto-inganno consenta a queste forme di manipolazione di agire efficacemente nell’orientare le nostre azioni [3].

Abbiamo anche visto come i Processi di Inganno più ‘efficaci’ tendano spontaneamente ad autoreplicarsi, reinvestendo una parte del benessere generato in forme di comunicazione di massa finalizzate ad alimentare le convinzioni collettive (Bias culturali) per essi vantaggiose [4]. Questo meccanismo genera una riluttanza dei processi sociali che tende a fissare le traiettorie delle civiltà, ostacolando prese di coscienza collettive e cambiamenti di rotta.

Questo significa, in termini spiccioli, che un incremento della disponibilità di risorse, indotto da nuove modalità di sfruttamento, finirà inevitabilmente a produrre una cultura socialmente condivisa votata all’aumento dei consumi (come è l’attuale) e che la collettività tenuta unita da questa convinzione alimenterà tale processo fino all’esaurimento delle risorse disponibili.

Ciò è determinato dal fatto che i soggetti responsabili dell’incremento dei consumi ricavano da questo processo il potere economico necessario ad alimentare narrazioni collettive favorevoli al processo stesso. Il progressivo esaurimento comprenderà anche le risorse potenzialmente rinnovabili, come quelle derivanti dai processi biologici, che in seguito all’aumento della popolazione verranno sottoposte ad uno stress eccessivo, finendo col perdere la capacità di auto-rigenerarsi.

Un esempio su tutti è quanto avvenuto con la colonizzazione delle zone temperate da parte dei nostri antenati, originariamente evolutisi nelle zone tropicali. Condizione necessaria perché Homo Sapiens migrasse dall’Africa a colonizzare l’Eurasia, peraltro in coincidenza di una serie di ere glaciali, è stata la padronanza del fuoco, generato dalla combustione della legna.

La specie umana è avanzata a colonizzare le zone climaticamente ostili scaldandosi grazie all’energia contenuta nel legno degli alberi. Col passare del tempo, la popolazione umana è progressivamente aumentata, e con essa il consumo di legname. Le pratiche agricole hanno quindi portato alla scomparsa delle foreste nelle pianure, e l’evoluzione tecnologica ha generato utensili sempre più efficaci nell’abbattimento di alberi e foreste, che al momento sopravvivono, solo in aree impervie e scarsamente interessanti ai fini produttivi.

Restando all’Italia, già in epoca romano-imperiale la pratica diffusa dei bagni termali aveva portato ad una depauperazione grave delle foreste appenniniche, che solo il crollo della popolazione (e del ‘benessere’), avvenuto nel corso del Medioevo, ha consentito una ripresa della vegetazione. La ripresa della crescita della popolazione, conseguente al Rinascimento e proseguita nelle epoche successive, ha poi nuovamente fatto tabula rasa di gran parte della vegetazione ricresciuta. Solo la recente transizione a risorse energetiche fossili (quindi non rinnovabili) ha consentito nell’ultimo secolo di ridurre l’abbattimento di alberi e dare di nuovo respiro ai boschi appenninici.

Processi analoghi di esaurimento delle risorse si sono osservati in numerose civiltà, preistoriche e recenti. Dalla già citata Isola di Pasqua alle popolazioni sudamericane responsabili dei disegni della Piana di Cuzco. Più recentemente l’uso dell’olio di balena, impiegato come fonte di illuminazione notturna, ha portato sulla soglia dell’estinzione numerose specie di cetacei. L’agricoltura meccanizzata, sospinta da una crescita della popolazione mondiale e da una cultura globale votata all’aumento dei consumi e dello spreco, ha causato la distruzione di pezzi importanti dell’ecosistema globale, dalle foreste primarie dell’Indonesia (Borneo) e dell’Amazzonia alle numerose varietà di macrofauna che da tali habitat dipendono. Un patrimonio di biodiversità che, una volta scomparso, non avrà modo di rigenerarsi su una scala temporale compatibile con l’esistenza umana.

Jared Diamond, nel saggio “Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere” [5], si domandava: “cosa avrà pensato l’uomo che ha tagliato l’ultima palma sull’isola di Pasqua? Si rendeva conto che quello era l’ultimo esemplare e che, una volta abbattuto, di palme sull’isola non ne sarebbero mai più esistite?”.

Di fatto, l’analisi condotta fin qui tenderebbe a dimostrare che l’opinione del singolo abbattitore fosse irrilevante, perché quello che ha causato la distruzione delle palme giganti non è stata la volontà di un singolo, bensì la convinzione collettiva che fosse giusto abbatterle.

Poteva andare diversamente? Forse, ma non certo appellandosi alla ragionevolezza, dal momento che, come spiegato in partenza, le Culture Motivazionali, le Ideologie, possono essere unicamente irrazionali. Una cultura irrazionale di indirizzo opposto è sicuramente emersa, e sarebbe stata in grado di fermare l’abbattimento delle foreste, se la cultura consumatrice non fosse stata già sufficientemente forte, capillare e pervasiva.

Possiamo vedere in opera dinamiche analoghe all’interno del processo di colonizzazione umana del continente americano, avvenuta circa 20.000 anni fa. All’epoca una conseguenza della glaciazione in corso fu l’abbassamento del livello del mare, che creò un corridoio tra l’Eurasia e il Nordamerica. I primi colonizzatori incontrarono una enorme abbondanza di forme animali (macrofauna) che potevano cacciare con facilità.

Questa abbondanza condusse ad un incremento della popolazione umana, con richieste di maggiori quantità di cibo che condussero, in ultima istanza, all’estinzione di numerose specie. Come riportato da Wikipedia [6]

Al termine del Pleistocene. … (circa 12.700 anni fa), 90 generi di mammiferi nordamericani di taglia superiore ai 44 kg scomparvero…

Venendo a tempi più recenti, a fermare l’estinzione antropica delle balene non è stata la consapevolezza collettiva del pericolo che ciò accadesse, bensì l’ascesa di un diverso prodotto in grado di sostituire l’olio di balena per l’illuminazione notturna, il cherosene [7]. Le balene si sono salvate solo perché estinguerle non è più apparso economicamente redditizio.

In conclusione, i Processi di Inganno:

  • emergono spontaneamente in seno alle società umane
  • muovono da assunti irrazionali
  • alimentano una soddisfazione momentanea di bisogni collettivi, reali ed immaginari
  • attingono a quanto disponibile nell’ambiente circostante
  • si concludono in seguito all’esaurimento di tali disponibilità.

Qualunque appello alla razionalità collettiva, qualunque speranza di ravvedimento, non possono che cadere nel vuoto. Le dinamiche relazionali umane danno luogo a processi marcatamente irrazionali, capaci di metabolizzare e sfruttare le funzioni cognitive superiori, ovvero la capacità di analisi logica e razionale, alterando e distorcendo la percezione collettiva delle conseguenze ultime dei processi in atto in modo da eliminare ogni possibile freno inibitorio.


[1] Razionalità vs Volontà

[2] Ideologie e Bisogni

[3] Evoluzione dei Processi di Inganno

[4] Comunicazione e Controllo Sociale

[5] Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere”

[6] Megafauna del Pleistocene

[7] La caccia alle balene

La questione ambientale (quarta parte)

(prosieguo di una riflessione iniziata qui)

A peggiorare il bilancio dell’assalto plurimillenario condotto dalla nostra specie nei confronti delle risorse globali, l’inquinamento ha aggiunto ulteriore fattore di stress agli ecosistemi naturali.

Col termine inquinamento si intende l’introduzione di materiali ‘alieni’ alle dinamiche biologiche, ed in grado di interferire coi processi di riuso della materia organica. Tutto quello che la specie umana estrae dal suolo, raffina, trasforma, utilizza ed infine scarta rappresenta una forma di inquinamento. Inizierò quindi col descrivere una modalità di inquinamento che non viene ancora individuata come tale: l’edilizia.

I primi rifugi inventati dalla nostra specie furono, con molta probabilità, capanne di legno e foglie, composte interamente da materiali organici, decomponibili e biologicamente riciclabili. Col tempo ed il padroneggiare tecniche di manipolazione più evolute, la costruzione di edifici in pietra rappresentò un primo esempio di intervento umano operato in totale difformità dai processi biologici.

I materiali inerti necessari all’edilizia vengono estratti dalle cave di pietra e collocati dove poi sorgono paesi e città, luoghi di norma caratterizzati da abbondante disponibilità di suolo fertile. La costruzione di edifici e la successiva espansione delle città ha l’effetto di ridurre la disponibilità di suolo fertile.

Con la crescita delle città e la nascita di regni ed imperi, l’occupazione di suolo prodotta dalle città aumenta progressivamente, mentre la produzione alimentare si trasferisce sempre più verso le periferie, processo che innesca la creazione di strade ed il consumo di ulteriore suolo fertile.

Il gigantismo delle attuali metropoli, e le trasformazioni avvenute nella produzione e nei trasporti grazie alla Rivoluzione Industriale, hanno di fatto totalmente scollegato le aree urbane dalla necessità di un’autonomia alimentare ‘di prossimità’, creando condizioni di estrema criticità. Qualunque riduzione nell’efficienza della produzione agricola, o di quella della rete di trasporti, si tradurrebbe in un’incapacità delle popolazioni inurbate di far fronte al proprio stesso sostentamento.

In epoche passate, un limite alla crescita delle dimensioni urbane è consistito nella disponibilità di cibo in relativa prossimità. Con la Rivoluzione Industriale questo limite è stato rimosso, consentendo alle città di espandersi seppellendo le aree agricole di prossimità. Questo processo non è più reversibile nel breve periodo, perché i terreni scavati e cementificati non recuperano la propria fertilità a fronte del semplice abbattimento degli edifici.

I materiali edili presentano quantomeno il vantaggio di essere inerti rispetto ai processi organici. Lo stesso non si può dire di gran parte delle sostanze che sono diventate parte della nostra vita di tutti i giorni. Dalla rivoluzione industriale in poi la chimica ha infatti provveduto a sviluppare una varietà pressoché infinita di sostanze tossiche e nocive, in grado di interferire a vari livelli coi processi biologici.

Queste sostanze sono successivamente entrate a far parte dei manufatti, o divenute parte integrante dei relativi processi produttivi, e molto poco si è fatto per gestirne uno smaltimento sicuro al termine del ciclo d’utilizzo. Parliamo di un ventaglio di sostanze che va dai veleni veri e propri agli acidi, a materiali variamente irritanti, tossici o cancerogeni. Tutta roba che per decenni è stata rilasciata nei fiumi, seppellita, conferita nelle discariche o bruciata e dispersa nell’atmosfera.

Anche materiali biologicamente inerti come la plastica presentano un risvolto negativo, perché la loro diffusione e successivo degrado sta creando problemi agli animali che tentano di nutrirsene, causandone spesso la morte. Soprattutto negli oceani la quantità di frammenti di plastica trasportata da fiumi e correnti sta rappresentando un problema significativo per la fauna marina.

Questo senza contare che il processo di frammentazione, al momento ancora parziale (si parla infatti di ‘microplastiche’), procederà gradualmente fino al livello molecolare, saturando l’ambiente di quantità enormi di catene di polimeri di origine non biologica, con effetti, allo stato attuale, totalmente non quantificabili.

Un’altra parte rilevante di inquinamento deriva dall’impiego di diserbanti ed antiparassitari nell’agricoltura, che cresce di anno in anno. Si tratta di composti chimici dichiaratamente ostili ai processi biologici (la loro funzione è uccidere le varietà vegetali che competono con le specie coltivate e gli insetti che di queste ultime si nutrono), che finiscono con l’accumularsi nella catena alimentare portando morte anche alle specie (rettili, uccelli e mammiferi) che di tali insetti si nutrono.

Oltre agli antiparassitari l’agricoltura fa anche un largo uso di fertilizzanti azotati, che hanno un effetto positivo a breve termine sulle colture, ma nel lungo termine alterano gli equilibri chimici dei suoli rendendoli meno ospitali per le popolazioni di insetti ed altre forme di vita che li abitano. Quel che è peggio: ancora non è chiaro quali siano gli effetti cumulativi relativi al dilavamento di tutte queste sostanze venefiche, al loro assorbimento nei suoli ed alla loro diffusione nei fiumi e nei mari.

Un forte segnale di allarme giunge proprio riguardo alle quantità e varietà di insetti rilevate in prossimità delle aree agricole europee, che hanno subito un collasso repentino negli ultimi anni in diversi paesi. Per la loro importanza nella produzione del miele l’attenzione è attualmente capitalizzata dalle api, specie di cui si sono registrati diversi casi di collasso di interi alveari, fino alla totale scomparsa in diversi paesi, al punto che in alcune zone della Cina gli agricoltori devono impollinare gli alberi da frutta a mano.

Un caso a sé è rappresentato dai sottoprodotti dell’industria nucleare civile e militare. L’evoluzione delle tecnologie atomiche ha generato, mediante un processo detto ‘arricchimento’, tonnellate di materiali radioattivi in forme estremamente concentrate. Materiali che, essendo instabili, non sono mai venuti a contatto con le forme viventi. infatti, pur essendo presenti nella fase di formazione del sistema solare, essi erano già scomparsi, dalla crosta terrestre, ben prima che i processi vitali avessero inizio.

Parliamo di sostanze in grado di rendere pericolose ed inabitabili ampie porzioni di pianeta, come abbiamo visto in occasione degli incidenti di Chernobyl in Ucraina e Fukushima in Giappone. Su scala più ridotta il riutilizzo di uranio impoverito nella fabbricazione di proiettili ha già causato decine di casi di leucemia, anche mortali, fra gli stessi militari utilizzatori di tali munizioni. Molto poco è poi dato sapere sulle condizioni delle migliaia e migliaia di testate nucleari tattiche, il cui semplice potenziale esplosivo, già ai tempi della Guerra Fredda, era dato come in grado di annientare completamente l’intera umanità più volte.

L’ultima e più subdola forma di inquinamento riguarda i gas rilasciati in atmosfera a seguito dell’utilizzo massivo di combustibili fossili per i trasporti, le macchine utensili e la produzione di energia elettrica. Questi gas stanno lentamente ma inesorabilmente alterando l’equilibrio millenario tra il riscaldamento prodotto dalla radiazione solare di giorno, ed il raffreddamento causato dall’irraggiamento notturno, con l’effetto di surriscaldare l’atmosfera ad un ritmo mai visto prima (essendo, per l’appunto, un fenomeno artificiale) ed innescando ulteriori eventi caratterizzati da feedback positivo, ovvero in grado di accelerare il riscaldamento: scioglimento delle calotte polari, con ulteriore riduzione dell’albedo, e rilascio di gas metano dal permafrost artico.

Stiamo già misurando, in questi anni, una variazione delle temperature globali talmente repentina da non lasciare, a molte specie viventi, il tempo di adattarsi, e causando, assieme a fattori concomitanti, un collasso a catena di interi ecosistemi, dalle barriere coralline del pacifico alle popolazioni di orsi bianchi non più in grado di cacciare le foche artiche per la scomparsa dei ghiacci.

Riassumendo: caccia alle specie animali edibili, allevamento e sostituzione della naturale biodiversità con specie ‘simbionti’ (quelle di cui ci nutriamo), distruzione delle foreste per far spazio a coltivazioni, distruzione della residua biodiversità con fertilizzanti, erbicidi ed antiparassitari, consumo di suolo fertile causato dall’edilizia, dalla costruzione di strade ed infrastrutture, oltreché dall’erosione chimica e meccanica prodotta dai macchinari agricoli, rilascio di sostanze velenose e tossiche nell’ambiente, inquinamento da materie plastiche, riscaldamento globale del clima.

Come ultimo risultato, conseguenza di tutto questo gran daffare, la popolazione umana è cresciuta esponenzialmente fin quasi a raggiungere gli otto miliardi di individui, con una impennata negli ultimi decenni che ha prodotto una progressiva invasione antropica dei residui habitat intatti: le foreste vergini dell’Amazzonia e della Polinesia. Un surplus di popolazione umana la cui sussistenza può essere garantita solo attraverso l’inasprimento delle forme di saccheggio ambientale descritte fin qui.

Parafrasando Nietzsche: siamo da un paio di secoli sull’orlo dell’abisso, e l’abisso ci sta chiamando a gran voce. È possibile fare qualcosa per evitare l’estinzione della quasi totalità delle forme di vita complesse del pianeta, e con esse della nostra specie? Proverò a ragionarci su nel prossimo post.

(continua)

Il tramonto degli idoli

MoaiDopo Armi, acciaio e malattie, breve storia degli ultimi tredicimila anni non ho potuto resistere alla tentazione di leggermi al più presto anche il successivo libro di Jared Diamond: Collasso, come le società scelgono di morire o vivere. Se nel precedente l’attenzione era concentrata sull’evoluzione delle civiltà, qui l’autore cerca di comprendere i meccanismi alla base della loro fine.

Il nostro pianeta conserva i resti di innumerevoli civiltà, fiorite in luoghi diversi solo per poi sparire completamente, in modi misteriosi, lasciando dietro di sé templi ed idoli di una magnificenza sconcertante se si considera che furono prodotti da popoli in grado di  maneggiare unicamente strumenti di legno e pietra.

Gli strumenti scientifici attuali ci consentono di ricostruire molta della storia di questi popoli con tecniche incredibili, fino a comprendere l’evoluzione dell’habitat naturale e delle abitudini alimentari nell’arco di secoli a partire dall’analisi microscopica dei resti abbandonati di antiche discariche e cimiteri.

La sconcertante civiltà dell’isola di Pasqua compare già nei primi capitoli del libro. Lontanissima da tutte le altre terre, circondata dal Pacifico per migliaia di chilometri, fu popolata intorno all’anno 1000 d.c. dai polinesiani, solo per perdere quasi subito ogni contatto con le isole da cui la colonizzazione partì.

Sull’isola si sviluppo’ una bizzarra civiltà, che costruì ed innalzò centinaia di enormi statue per ingraziarsi la benevolenza degli antenati, i Moai. La fabbricazione ed il trasporto di questi idoli di pietra causò la totale deforestazione dell’isola, finendo col rappresentare un enigma insolubile per i secoli a venire dopo la sua riscoperta da parte degli europei.

Nell’arco di circa sette secoli, un’isola che ora sappiamo coperta originariamente da una lussureggiante foresta di enormi palme (una specie endemica dell’isola, ora completamente estinta) e popolata da sterminate colonie di uccelli marini, fu ridotta ad una landa brulla e desolata in cui poche centinaia di abitanti si arrabattavano a sopravvivere coltivando poche varietà commestibili e ricorrendo di necessità, per colmare il deficit di proteine nell’alimentazione, al cannibalismo.

L’immensa foresta dovette sembrare, ai primi colonizzatori, una ricchezza enorme ed inesauribile, la crescita della popolazione un fatto inevitabile ed anzi ben accetto, la costruzione dei primi Moai una semplice forma di ringraziamento degli antenati. Poi qualcosa andò storto, o forse andò nell’unico modo in cui poteva andare: la fabbricazione delle statue divenne essenziale per la conservazione della struttura sociale che si era venuta a creare.

La costruzione dei Moai e delle piattaforme che li sostenevano divenne la principale attività “industriale” dell’isola, coinvolgendo migliaia di persone. Ciò rese il processo inarrestabile e portò al completo annientamento della foresta ed al conseguente esaurimento del legname indispensabile al trasporto. Nella cava di Rano Raraku restano ad oggi quasi 400 statue incomplete, segno che la popolazione era totalmente inconsapevole del destino cui stava andando incontro.

Con l’abbattimento della foresta di palme, che offriva cibo e rifugio agli uccelli marini, le condizioni di vita divennero ben presto insostenibili, la carenza di cibo innescò guerre tra le diverse fazioni dell’isola, ed anche tutti i Moai innalzati fin lì, in una forma di rabbiosa quanto sciocca vendetta, vennero abbattuti. La popolazione precipitò dai 15-20.000 individui del momento di massimo splendore a poche centinaia al momento del contatto con gli europei, che ne completarono la decimazione con le deportazioni e la trasmissione di malattie mortali.

Che insegnamento possiamo trarre da questa vicenda che ci riguardi direttamente? Certo è che i comportamenti umani sono tutti molto simili, e come gli abitanti dell’isola di Pasqua non si resero conto delle conseguenze a lungo termine delle loro attività, anche noi potremmo fare altrettanto: condurre la nostra società ad un tale livello di sovrappopolazione e sfruttamento di risorse non rinnovabili da rendere impossibile invertire o arrestare il processo.

Ed, al pari dei Moai, anche noi potremmo aver prodotto delle entità totemiche alle quali tutti guardano con venerazione e rispetto, la cui “necessità” non può essere messa in discussione, che rappresentano la principale attività industriale del mondo moderno (la prima voce nel consumo di risorse non rinnovabili) e che tendono a crescere in dimensioni, “status” e consumi man mano che si va avanti negli anni.

A voi questa descrizione cosa fa venire in mente?

SUV