Domesticazione umana ed evoluzione dell’aggressività

Lo scenario che mi si è aperto davanti in seguito alla riflessione sui sui Disturbi da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD) mi ha spinto a ragionare, attraverso la lente dei processi evolutivi, il ventaglio di variabilità dei comportamenti umani e le espressioni patologiche ad essi correlate. L’intenzione è di provare a delineare quanta parte delle attuali dinamiche psichiche discenda dall’inurbamento e dagli adattamenti mentali imposti dal processo di auto-domesticazione intrapreso dalla nostra specie.

È indubbio che l’abbandono della vita nomade, basata su caccia e raccolta, in favore di un’esistenza stanziale fondata su agricoltura, allevamento ed artigianato, abbia richiesto una importante rimodulazione nelle reazioni istintive dove, al pari dell’ADHD, risultano fortemente coinvolti i meccanismi di autocontrollo e gestione e dell’aggressività.

I nostri lontani antenati, adattati alla vita selvatica, avevano necessità di sviluppare abilità diverse dagli individui attuali. La vita all’aria aperta basata su caccia e raccolta, legata al nomadismo che portava ad esplorare luoghi sempre diversi, traeva vantaggio dalla capacità di processare numerosi stimoli contemporaneamente (caratteristica propria di alcune forme lievi di ADHD). Parimenti utile doveva essere l’attitudine a reagire istintivamente, ed in fretta, ad un pericolo imprevisto.

Un diverso equilibrio tra reazioni istintive e azioni ponderate (ovvero mediate dal pensiero analitico e dai meccanismi di autocontrollo) potrebbe di fatto aver rappresentato la normalità nelle popolazioni del passato. È quindi verosimile che alcune di quelle che oggi classifichiamo come forme (lievi) di ADHD fossero all’epoca maggiormente diffuse nella popolazione, per non dire rappresentare la normalità. Una condizione destinata a cambiare con lo sviluppo delle pratiche agricole e dell’allevamento, che ha finito col determinare la transizione dallo stile di vita nomade alla stanzialità.

L’adattamento a svolgere mestieri monotoni e ripetitivi ha facilitato l’avvento di individui con tipicità caratteriali completamente diverse da quelle richieste, ad esempio, in una battuta di caccia. Il percorso umano e culturale che ha portato i nostri antenati dal nomadismo delle piccole tribù di cacciatori/raccoglitori alle megalopoli attuali ha obbligato lo sviluppo dei processi mentali legati all’autocontrollo, sia dei pensieri che degli istinti.

In natura, l’occasionale prossimità fra individui sconosciuti della stessa specie è fonte di stress e frequente causa di reazioni aggressive. Con la crescita della popolazione e l’evoluzione dei villaggi in città, il processo di inurbamento ha imposto condizioni di stretta contiguità con una moltitudine di altri individui, richiedendo lo sviluppo di modalità di contenimento delle reazioni più immediate e brutali in favore di interazioni più controllate sotto il profilo emozionale.

La trasformazione delle società umane ha reso la coesistenza fra sconosciuti un fatto frequente, cosa che ha richiesto la compensazione dei preesistenti meccanismi di stress mediante articolazioni mentali in grado di sopprimerli. La transizione, dai rapporti di tipo familiare tipici di una piccola tribù, ad un contesto relazionale esteso, ha richiesto un potenziamento delle capacità individuali di autocontrollo.

Le moderne neuroscienze sono oggi in grado di individuare le strutture cerebrali responsabili del nostro autocontrollo, e quantificarne l’attività ed il livello di funzionalità. Possiamo immaginare come, nell’arco di millenni, queste strutture possano essersi evolute per consentirci di prosperare nel mutato scenario prodotto dall’ascesa delle città e del ruolo da esse svolto nel governo del mondo.

Tuttavia, dati i tempi molto rapidi richiesti da questi adattamenti, nell’ordine di pochi millenni, non si può attribuire tale trasformazione ad una effettiva evoluzione della specie Homo Sapiens, quanto ad un adattamento per accumulo di fattori di natura epigenetica. I tempi necessari alla propagazione di una modifica di natura genetica sono infatti lunghissimi, ma i geni sono solo una piccola parte del nostro DNA. Una parte ben più consistente è demandata a controllarne l’espressione. L’epigenetica studia le trasformazioni in queste porzioni di DNA.

Rispetto alle mutazioni genetiche, i meccanismi epigenetici consentono, ad individui e popolazioni, di rispondere con prontezza a mutamenti consistenti nell’ambiente, garantendo la sopravvivenza in situazioni in rapida trasformazione. I caratteri acquisiti possono poi, col tempo, fissarsi in una nuova specie, o regredire, nel caso in cui dovessero ripristinarsi le condizioni originarie.

Questo significa che il contesto ambientale può influenzare l’insorgere o meno di determinate caratteristiche negli individui, che queste caratteristiche possono fissarsi ed essere conservate ed è documentato come queste modifiche adattive possono essere trasmesse alla discendenza. È un po’ un rientrare dalla finestra delle idee di Lamarck, dopo che il criterio evolutivo suggerito da Darwin, basato sulla selezione naturale, le aveva buttate fuori dalla porta.

Queste considerazioni consentono di correggere un po’ il tiro rispetto alla mia prima interpretazione dell’ADHD, descritto nei termini di una occasionale sopravvivenza di caratteri infantili negli individui adulti. In un lontano passato questi caratteri di curiosità ed irruenza, attualmente tipici dell’età giovanile, venivano preservati negli individui adulti perché funzionali ad una vita nomade basata su caccia e raccolta.

Il progressivo inurbamento ha favorito un contenimento generalizzato delle reazioni più istintive e brutali, ma la rapidità richiesta ha attivato processi epigenetici, che non sono né infallibili né irreversibili. L’occasionale riemergere di tali caratteri arcaici non deve sorprendere in assoluto, e ancor meno deve stupire che ciò avvenga contesti sociali degradati, caratterizzati da modalità relazionali basate sulla sopraffazione e sull’uso diffuso della violenza.

Negli individui cresciuti in condizioni di precarietà affettiva e sociale, elevato stress emotivo, difficoltà economiche e relazionali, i meccanismi di autocontrollo faticano a svilupparsi e fissarsi, e questo è un dato che ci viene confermato dagli studi sui maltrattamenti infantili. Una volta che tali circuiti mentali disfunzionali finiscono col fissarsi nell’individuo adulto, risulta per quest’ultimo più complicato riuscire a sviluppare un soddisfacente equilibrio relazionale.

Tornando ancora una volta a quanto affermato da Daniel Goleman nel suo saggio sull’intelligenza emotiva (cito a memoria):

‘le abilità che non vengono apprese nei primi anni di vita possono essere perse per sempre, o il loro recupero risultare in seguito molto faticoso e nel complesso solo parziale’.

Un individuo penalizzato in gioventù nello sviluppo delle funzioni di autocontrollo avrà una elevata probabilità di diventare un adulto fortemente incline alle reazioni violente ed al rischio di dipendenza da sostanze psicotrope.

Questo vale sia per le forme di ADHD non diagnosticate, sia per le situazioni in cui lo sviluppo dell’individuo non avviene in un contesto culturalmente e affettivamente sano. Sempre Goleman, in Intelligenza sociale, afferma che le esperienze traumatiche sperimentate nelle prime fasi della crescita non si limitano a formare un bagaglio culturale, potenzialmente reversibile, ma alterano in permanenza le strutture cerebrali, tanto da rendere ogni successivo tentativo di recupero difficoltoso ed a rischio di insuccessi.

Quindi, non solo dovremmo rivolgere maggior attenzione agli anni dello sviluppo, per evitare che situazioni traumatiche fissino nei giovani modalità relazionali disfunzionali, potenzialmente nocive per sé e per gli altri, ma dovremmo ampliare gli sforzi per consentire ad individui già ‘danneggiati’ un inserimento sociale adeguato, tenendo conto delle limitazioni loro derivanti da meccanismi mentali, di autocontrollo e non solo, potenzialmente compromessi.

In primo luogo andrebbe estesa la consapevolezza delle problematiche legate ad attenzione ed autocontrollo, affinché i portatori possano esserne pienamente consapevoli ed indirizzare al meglio le proprie scelte di vita lavorative e relazionali. Tale consapevolezza andrebbe quindi integrata nel percorso formativo, dalle famiglie alle istituzioni scolastiche, In modo da poter intervenire tempestivamente ove necessario. Da ultimo dovrebbe obbligarci a ripensare la funzione dell’istituzione carceraria.

Perché se quest’ultima deve essere mirata, come nelle formali intenzioni, al recupero e reinserimento nella società civile degli individui che ‘hanno sbagliato’, gli sforzi da impiegare non potranno limitarsi alla detenzione, ma muovere dall’assunto che molte delle persone responsabili di atti incontrollati e violenti risultano già in partenza ‘danneggiate’, ed hanno necessità di terapie sociali, culturali ed emotive, mirate e profonde.

Uno degli assunti fondamentali delle società umane è l’idea che la collettività possa funzionare grazie ad un unico set di regole, valide per tutti, ma ciò ha senso solo se assumiamo che i diversi individui condividano una uniformità caratteriale e relazionale. Le neuroscienze ci raccontano di differenze che possono insorgere a livello fisiologico, tali da obbligarci a rimettere in discussione questo assunto.

Più è ampio il ventaglio di diversità tra gli individui, più il sistema di regole condivise deve prevedere bilanciamenti e contrappesi perché l’equilibrio ottenuto sia funzionale. L’evidenza che, nel momento attuale, un intero ventaglio di diversità caratteriali legate alla gestione dell’autocontrollo non appaia pienamente riconosciuto, suggerisce l’evidenza di un limite strutturale all’efficacia del sistema di regole che ci governa.

Foto di Małgorzata Tomczak da Pixabay

ADHD e deficit dei freni inibitori

Tempo addietro, conversando con un’amica, è emersa una sconcertante (per me) verità. Mentre lamentavo il fatto che questo blog ha pochi lettori, mi sono sentito rispondere: “Perché ti stupisci? Non tutti hanno quest’esigenza di capire il mondo che hai tu”. Probabile, a questo punto, direi anzi evidente. Allora cosa c’è di diverso in me? Perché questa curiosità?

Recentemente mi è capitato di vedere un documentario sull’ADHD, acronimo che sta per Attention Deficit Hyperactivity Disorder (in italiano DDAI: Disturbo da Deficit di Atenzione/Iperattività). Si tratta di una problematica di relativamente recente definizione, i cui confini non sono ancora ben precisi, e che ho ritenuto fin qui potesse interessare in prevalenza bambini e ragazzi.

Non è così. Il deficit di attenzione/iperattività interessa circa il 5% della popolazione adulta, ed è collegato al malfunzionamento di alcune strutture del cervello che gestiscono l’autocontrollo. Semplificando, il deficit riguarda i cosiddetti ‘freni inibitori’ e fa sì che l’individuo non sia in grado di gestire correttamente i propri comportamenti, o i propri pensieri. Da qui la doppia caratterizzazione fisica (iperattività) e mentale (deficit di attenzione).

I ricercatori di neuroscienze stanno lavorando all’individuazione delle strutture cerebrali collegate alla disfunzione, nel tentativo di fornire un ulteriore strumento diagnostico in grado di evidenziare questo tipo di problematiche. I test dimostrano che in individui portatori di ADHD le aree del cervello destinate a svolgere funzioni inibitrici risultano meno attive.

Il ventaglio di casistiche in cui questo disturbo si manifesta è estremamente vario. Potremmo dire che la fenomenologia si estende con continuità da condizioni molto prossime alla normalità fino ai casi più estremi, caratterizzati da effettive difficoltà sociali, relazionali e dell’apprendimento.

Nei casi più gravi di ADHD abbiamo bambini incapaci di stare fermi, seduti al proprio banco, che si alzano, muovono oggetti, non ascoltano gli insegnanti o non trattengono quanto gli viene detto, si distraggono, non apprendono le routine, non sanno associare concetti acquisiti in tempi diversi, fantasticano mentre l’insegnante spiega. La doppia natura mentale/fisica rende ancora più complessa la definizione di questa problematica, che può presentarsi associata ad ulteriori problemi della sfera cognitiva, come la dislessia o la discalculia.

Andando ad approfondire i dettagli del disturbo, mi sono stupito nel riconoscere in molti di essi, più dal lato mentale che da quello fisico, alcune tra quelle che ho sempre considerato caratteristiche della mia personalità. La prima, e forse più evidente, è la capacità di restare concentrato solo su argomenti di stretto interesse. Potrei elencare un’infinità di aneddoti sul tema, a cominciare dal tempo infinito che impiegavo da ragazzino nel fare i compiti, solo perché la mia mente vagava in tutt’altre direzioni (restavo letteralmente pomeriggi interi seduto davanti al quaderno aperto, senza scrivere nulla, con la testa fra le nuvole).

“È capace ma non si impegna”, ripetevano i miei insegnanti. Fin da bambino ero appassionato alla lettura, ma solo di argomenti che trovavo interessanti: divoravo montagne di fumetti e romanzetti di fantascienza, per contro arrancavo faticosamente ed inutilmente sui ‘classici’. Ero capace di leggere pagine intere dei Promessi Sposi senza trattenere nulla di quello che avevo letto, per dover poi ricominciare da capo, più volte.

In apparenza non ero, e forse non sono tutt’ora, in grado di gestire le mie curiosità intellettuali: le materie di interesse vengono prontamente acquisite ed integrate, tutto il resto altrettanto prontamente rimosso. Questo ha reso estremamente faticoso, se non impossibile, il cimentarmi in argomenti lontani dai miei interessi. Deficit di attenzione, livello lieve: riuscire a mantenere la concentrazione solo in quello che il cervello considera interessante.

Come ogni problema, se non si riesce ad affrontare si può comunque aggirare. Col tempo il ventaglio della mia curiosità ha avuto modo di espandersi anche alle materie che inizialmente trovavo noiose, e ad inglobare buona parte dello scibile umano. In questo modo rimangono ormai solo pochissimi ambiti a non stimolarmi alcun interesse.

Ancora oggi, mentre leggo articoli sostanzialmente noiosi, o tematiche trattate con approcci non coerenti col mio modo di organizzare le relazioni di causa-effetto, tendo a saltare intere parti di testo per arrivare alle conclusioni, e non di rado devo costringermi a tornare indietro e rileggere le parti ignorate.

L’ADHD, rappresentando la sintesi di uno spettro di problematiche che si esprimono diversamente da individuo ad individuo, e tendono a dar luogo ad esiti differenti.
Secondo la già citata Wikipedia:

‘…negli Stati Uniti, meno del 5 per cento degli individui con DDAI riesce ad ottenere una laurea, rispetto al 28 per cento della popolazione generale di età superiore ai 25 anni’.

Non mi sono mai laureato, ho scelto una facoltà (Fisica) in base ad un errore di valutazione. Una volta iniziato, non sono riuscito ad appassionarmi alla trattazione formale, bloccandomi completamente. Con l’inserimento in un contesto lavorativo, la mia inclinazione per la geometria, unita alla fascinazione per le tecnologie informatiche, mi hanno indirizzato verso la professione di disegnatore meccanico.

Altri sintomi dell’ADHD sono l’irritabilità (che ho imparato a gestire, con grande sforzo), e la bassa tolleranza allo stress. Quest’ultima è probabilmente il motivo che mi spinge ancora oggi a preferire all’automobile la bicicletta, che ha margini di libertà, fisica e mentale, molto maggiori. La bicicletta soddisfa anche un’esigenza di movimento che potrebbe essere un riflesso, lieve, della componente legata all’iperattività. Più in generale, fatico a star fermo senza far nulla, anche in vacanza.

L’incapacità di focalizzare l’attenzione in base alla volontà comporta che il cervello proceda per libere associazioni, salti da un’idea all’altra creando collegamenti tra ambiti incongrui e finisca col produrre bizzarre forme di umorismo. Anche questo è un tratto che mi caratterizza, come pure l’abitudine a fare battute fuori luogo, altro riflesso dello scarso autocontrollo.

Questi i sintomi in cui mi identifico, ma che dire di quelli che non combaciano? In questo caso possono intervenire altri fattori, non ultimo quello intellettivo.
Sempre su Wikipedia leggiamo:

La diagnosi di DDAI e l’importanza del suo impatto su chi ha un alto quoziente intellettivo (QI) è controversa (…) Vi è qualche evidenza che gli individui con alto quoziente intellettivo e DDAI abbiano un rischio ridotto di abuso di sostanze e comportamenti anti-sociali rispetto ai bambini con basso o medio QI e DDAI’

L’auto-diagnosi di ADHD (che probabilmente non ho), oltreché impossibile da effettuare, mi interessa relativamente. Quello che ritengo valga la pena indagare è come questo spettro di comportamenti sia venuto a determinarsi e quale impatto la consapevolezza di cause neurologiche dei comportamenti antisociali possa avere sulla maniera in cui le comunità ragionano se stesse ed organizzano le relazioni tra i propri membri.

Da cosa si originano i disturbi collegati all’ADHD? Qual è la funzione evolutiva di questa particolare variante comportamentale degli individui, capace di sfociare in forme patologiche nocive per i soggetti interessati? Il documentario testé citato propone diverse risposte, la prima riguardante il diverso ambiente in cui la specie umana si è sviluppata.

Nel documentario, un ricercatore sull’ADHD, anch’egli diagnosticato come portatore di una forma leggera, racconta di come si trovi perfettamente a suo agio solo in mezzo alla natura, dove la varietà e molteplicità di stimoli sensoriali non gli induce una sensazione di noia. In un bosco il cervello ed i sensi sono sempre attivi ad un livello appagante, a differenza della situazione caratterizzata da un ambiente chiuso dove ci si trovi a compiere operazioni ripetitive. Ho letto molte affinità tra la sua descrizione e quanto da me ragionato anni fa, in un post intitolato “Cacciatore/raccoglitore fuori tempo”.

La seconda tesi riguarda la funzione di persone intellettualmente e fisicamente irrequiete in una società di individui tranquilli. ‘Quelli come noi’, afferma il ricercatore portatore di ADHD, ‘erano gli esploratori, gli inventori, i portatori di novità’. Anche se, a causa della propria irrequietezza, ci si poteva far male o morire, questo rappresentava un insegnamento per la comunità riguardo ad un comportamento da non adottare. L’equivalente funzionale dei canarini nelle miniere.

Anche questo quadra con un’idea che ho incontrato tempo addietro, in un libro del neuropsichiatra Daniel Goleman, riguardante i ‘tratti estremisti’ negli animali dotati di comportamenti sociali, e la loro funzione attiva nel migliorare la sicurezza dell’intero branco. Secondo Goleman, la maniera utilizzata inconsciamente da una specie per conservare questo tipo di comportamenti, pericolosi ed autodistruttivi per i singoli individui, consisterebbe nel farli riprodurre più facilmente rispetto agli elementi ‘tranquilli’, in maniera da non perdere queste caratteristiche.

Ragionandoci su, sono giunto ad una terza conclusione: L’ADHD rappresenta, nelle sue forme lievi, semplicemente la conservazione, negli individui adulti, di caratteri propri della fase infantile. Questo è uno dei classici motori dell’evoluzione, cui è attribuita, ad esempio, lo sviluppo del cervello umano attraverso la linea evolutiva dei primati ed il mantenimento della curiosità e della giocosità.

In quasi ogni specie vivente la fase giovanile è quella che presenta le maggiori problematiche per la sopravvivenza degli individui, che una volta diventati adulti hanno un ventaglio di attività molto più ridotto: essenzialmente nutrirsi, sopravvivere e riprodursi. La fase giovanile diventa perciò un laboratorio in cui la natura può sbizzarrirsi a sperimentare soluzioni che, in base alla loro efficacia, possono o meno fissarsi e diventare caratteri stabili negli individui adulti.

Per dire quanto potrebbe essere efficace questo meccanismo citerò un’ipotesi sullo sviluppo della notocorda nei vertebrati. La notocorda è l’organo che, sviluppandosi ulteriormente, ha finito col produrre la colonna vertebrale e dar vita al ventaglio di specie di maggior successo del mondo animale: i vertebrati. Tuttavia In alcune specie molto arcaiche (Tunicata) la notocorda appare solo nella fase larvale, dove ha la funzione di aumentare la mobilità della larva natante, finendo con lo sparire nella forma adulta, che vive ancorata ad una postazione fissa e mantiene la sola funzione di metabolismo filtrante.

Una fra le tesi attualmente in discussione per spiegare questa apparente regressione è che la notocorda sia apparsa inizialmente nelle forme larvali, per poi fissarsi, negli individui adulti, attraverso un meccanismo di mantenimento dei caratteri giovanili. Dal punto di vista genetico è anche facile immaginare un simile percorso.

Nel corso dello sviluppo di un organismo i geni vengono continuamente attivati e disattivati attraverso processi che vengono detti di espressione genetica. Una occasionale disfunzione, nei processi inibitori che causano la scomparsa delle caratteristiche giovanili nell’età adulta, finirà col produrre individui che invece le conservano, e se questi individui si troveranno avvantaggiati nel mantenerle, tali caratteristiche si fisseranno, dando luogo ad un’evoluzione o ad una speciazione.

Quest’idea che le caratteristiche giovanili possano rimanere fissate negli individui adulti mi rievoca una vignetta di Altan, che da anni circola nel mondo dei ciclisti. Da un lato una donna in abiti normali, dall’altra un uomo vestito da ciclista con bicicletta attrezzata per il viaggio. Lei gli domanda: “Dove vai?”. Lui risponde: A portare a spasso il bambino che è in me.

Quest’idea del ’bambino che è in me’, di un bambino intrappolato in un corpo adulto, mi accompagna praticamente da sempre, e trova echi in diverse trasfigurazioni culturali. Ne Il tamburo di latta, romanzo di Günther Grass (tradotto in film da Volker Schlöndorff), un bambino, nella Germania nazista, decide di smettere di crescere. In Da grande, film italiano con Renato Pozzetto, e nel coevo “Big”, produzione USA con un giovane Tom Hanks, un bambino si ritrova trasformato in adulto e deve misurarsi, senza il tempo di metabolizzarla, con la realtà dei ‘grandi’. Contenuti analoghi sono presenti nel recente cinecomic Shazam!.

L’idea che, nel grande calderone della popolazione adulta, possano sopravvivere individui che mantengono modalità intellettive in qualche modo ‘infantili’ non appare particolarmente bizzarra. L’interpretazione di questi comportamenti in termini di differenti modalità di sviluppo del cervello è un tantino più inquietante, perché siamo abituati ad descrivere questi comportamenti come risultato di scelte deliberate, anziché difetti intrinseci dell’architettura del cervello, ed a pensare di poterle correggere attraverso l’educazione.

Ma c’è un altro aspetto di questa problematica meritevole di ulteriori approfondimenti. Uno dei portati delle forme più gravi di ADHD è l’accentuato rischio di contrarre forme di dipendenza. Sempre secondo Wikipedia:

gli adolescenti e gli adulti con DDAI vedono aumentato il rischio di sviluppare un consumo problematico di sostanze stupefacenti, le più comuni tra esse sono alcool o cannabis. La ragione di questo può essere dovuto ad un percorso di ricompensa alterato nel cervello.

Quello che è ancora più grave è che l’ADHD appare correlata a comportamenti di natura antisociale. Sempre secondo Wikipedia si tratterebbe di:

disturbo oppositivo-provocatorio e disturbo della condotta, che si verificano rispettivamente in circa il 20-50% dei casi di DDAI. Essi sono caratterizzati da comportamenti antisociali come testardaggine, aggressività, collera frequente, falsità, menzogne e furti’

Nel documentario veniva sottolineato che mentre l’incidenza dell’ADHD è intorno al 5% della popolazione complessiva, sale invece al 30% nella popolazione carceraria. Questo produce, a mio avviso, una questione etica che non può essere ignorata: una porzione significativa della razza umana manifesta una predisposizione al crimine che non discende da una precisa volontà, ma da un malfunzionamento delle strutture inibitorie cerebrali.

Un problema di questa natura non può essere gestito unicamente con strumenti culturali, né con il classico processo di istruzione, né con un impianto normativo che risulta calibrato sulle persone non affette da ADHD. Parliamo di un problema diffuso di disabilità sociale che solo da poco tempo si è iniziato ad inquadrare e comprendere, e poco o nulla a gestire.

Un deficit di questa natura dovrebbe poter essere diagnosticato ai primissimi stadi, l’adolescenza o giù di lì per le forme meno gravi, e gestito con un percorso didattico ad-hoc per impedire che sfoci in comportamenti asociali o, peggio, criminali. Per altre forme di alienazione sociopatica questo in parte già avviene, ma l’ADHD viene diagnosticato solo nelle forme più gravi ed evidenti, mentre le manifestazioni più lievi ricadono nella classificazione di ‘cattiva condotta’, ricondotte a deficit educativi e trattate unicamente con modalità repressive.

In questo pesa anche moltissimo il contesto in cui l’individuo cresce e si sviluppa. Un ambiente ‘sano’ può aiutare a gestire l’impulsività, contribuendo a costruire un individuo capace di gestire l’autocontrollo attivando soluzioni alternative ai freni inibitori cerebrali ed altrettanto funzionali. Per contro un ambiente ‘tossico’ può esasperare tali predisposizioni a comportamenti antisociali attraverso meccanismi premianti, e la propensione all’abuso di sostanze psicotrope può amplificarne le conseguenze negative.

Attualmente, ad offrire percorsi vantaggiosi e ‘di successo’, ad individui con marcate caratteristiche sociopatiche ed assenza di freni inibitori, è il crimine organizzato. La sottovalutazione di queste caratteristiche, non diagnosticate, comporta l’impossibilità di seguire i soggetti interessati con un percorso terapeutico, con risultati che non di rado sfociano in tragedia.

La conclusione ultima è che dobbiamo smettere di appiattirci sull’idea che siamo ‘tutti uguali’, e cominciare a lavorare sull’individuazione e gestione delle differenze. Un sistema regolativo e normativo calibrato ‘sulla media’ non risulterà efficace per le necessità di soggetti portatori di importanti disfunzioni nella sfera della socialità, e dovremmo individuare forme attive di supporto per consentire un soddisfacente inserimento di queste persone, in potenza svantaggiate, nel contesto sociale.

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