Intelligenza esplorativa

Da almeno un paio di settimane sto combattendo con un’idea relativa all’intelligenza umana. L’idea è che al di là delle differenze quantitative, che pure esistono e sono misurabili, siano presenti differenze qualitative. Non sto parlando delle diverse forme di intelligenza (logico/razionale, linguistica, psicomotoria, sociale e chi più ne ha, più ne metta…) sto parlando proprio di un differente approccio alla realtà ed alla complessità.

Il ‘fattore scatenante’ che ha rimesso in gioco tutto quello che pensavo di sapere sull’argomento è stato un articolo della psicologa Ana Maria Sepe [1] che, in buona sostanza, illustra il mio personale modo di ragionare. Il fatto spiazzante è che lo descrive, per così dire, ‘dall’esterno’, come se fosse chissà quale bizzarro modo di processare le informazioni. Partiamo dal seguente passaggio:

Prima di tutto che le persone intelligenti NON memorizzano le cose. Chi ha un QI alto è bravo a connettere tra loro idee e creare costruzioni mentali tra informazioni che magari potrebbero sembrare irrilevanti o appartenenti ad altri contesti. Quindi questi “geni” trovano con facilità schemi tra dati grezzi e li collegano tra di loro. In parole povere: riconoscono e connettono pattern.

Questo sono esattamente io (al di là dell’appellativo “genio”, nel quale non mi riconosco e che giustamente sta tra virgolette a significare un eufemismo). O, ad essere precisi, è la descrizione del mio personale modo di organizzare le informazioni che raccolgo in strutture relazionali e rapporti di causa/effetto. Mai, fin qui, mi è venuto da pensare che potessero esisterne altre.

È un modo di ragionare che presenta ovvi vantaggi. Consente di applicare schemi interpretativi generali a discipline diverse da quelle per le quali sono stati pensati, consente una comprensione più immediata delle potenziali conseguenze derivanti da una determinata azione. Consente, in ultima istanza, quel ‘pensare fuori dagli schemi’ di cui tanto si parla, perché un modo di elaborare le informazioni che padroneggia gli schemi sa anche riconoscerli e manipolarli con facilità.

Il modo di pensare, di organizzare l’esistente, rappresenta l’essenza di un individuo. Ma, aggiungerei, ogni individuo tende a ritenere se stesso simile agli altri. Questa attitudine, derivante evidentemente da dinamiche evolutive, prende il nome di ‘bias di proiezione’, rientrando nella categoria dei bias cognitivi [2]:

Il bias di proiezione è una tendenza cognitiva che porta le persone a pensare che gli altri la pensino come noi, o che abbiano le nostre stesse caratteristiche. Si tratta di una forma di auto-percezione, in cui le persone proiettano le proprie preoccupazioni, aspettative e opinioni sugli altri. In altre parole, questo bias può spingere le persone a vedere negli altri le caratteristiche che vedono in se stesse o che temono di possedere. Ad esempio, un individuo potrebbe essere incline a sospettare che gli altri siano bugiardi (o generosi) solo perché è consapevole del fatto che mente spesso (o che lui stesso è una persona generosa). Questo tipo di tendenza alla proiezione può influire su come ciascuno percepisce la realtà e interagisce con gli altri.

L’articolo della d.ssa Sepe, in ultima istanza, mi suggerisce un’eventualità mai presa seriamente in considerazione, quella di essere una bizzarra eccezione. Ora, a nessuno piace essere un’eccezione, fosse anche positiva. Gli individui eccezionali ingenerano aspettative, sono loro richieste prestazioni eccezionali. Preferiamo, tutti, sentirci ‘uguali agli altri’, questo ci suggerisce il bias di proiezione.

Intere ideologie e fedi religiose sono state costruite per soddisfare questa aspettativa. Ma è realmente così? Se guardiamo alle dinamiche evolutive dei gruppi umani realizziamo che questa condizione non soddisfa un criterio di massima efficienza per la collettività (sto saltando di palo in frasca, è evidente e ne sono consapevole, ma questo, come già detto, è il mio modo di ragionare). L’intelligenza umana è il prodotto di processi evolutivi, e se vogliamo comprendere come sia distribuita dobbiamo usare questa specifica chiave interpretativa.

Come già spiegato nel post precedente [3], gli studi evolutivi effettuati sulle specie sociali evidenziano una tendenza a disperdere le caratteristiche individuali su uno spettro più ampio rispetto a quanto si osserva nelle specie prive di comportamenti sociali. Questo significa che all’interno delle specie che vivono in gruppi, branchi, stormi, colonie, le diversità tra singoli individui sono maggiori rispetto alle specie i cui componenti praticano esistenze solitarie.

Il tasso di diversità aumenta ancora nelle specie, come la nostra, capaci di comportamenti altruistici, dove cioè i diversi componenti del gruppo possono prendersi cura gli uni degli altri. Questo comportamento può emergere grazie al vantaggio conseguente alla possibilità, per un individuo ferito, di guarire, in modo che il gruppo non abbia a perdere uno dei suoi elementi di forza.

È facile, a questo punto, immaginare come il comportamento altruistico, stante una disponibilità sufficiente di risorse, possa essere esteso a membri anziani e/o ad individui portatori di disabilità fisiche o psichiche. Comportamenti di questo tipo sembrano emergere fin dalla preistoria dell’umanità, e si riflettono nella gran parte delle fedi ed ideologie che attraversano la storia dell’uomo.

Il processo di diversificazione consente al singolo gruppo, e di conseguenza all’intera specie, di sviluppare caratteristiche peculiari ed eccezionali, non strettamente legate alle esigenze di sopravvivenza ma fondamentali per la resilienza del gruppo stesso. Data una sufficiente disponibilità extra di risorse, alcuni individui potranno specializzarsi in attività non strettamente legate alla caccia, alla raccolta ed alla fabbricazione di utensili, esplorando la cura delle malattie, o forme di sollievo psichico come le fedi religiose, e praticare forme di pensiero speculativo che vadano oltre le esigenze immediate.

È in questo contesto sociale che individui portatori di intelligenze atipiche possono prosperare e dar vita a forme artistiche, materiali o immateriali, a filosofie, a narrazioni del mondo, a speculazioni, e risultare motivanti e trainanti per l’intera collettività. Le stesse dinamiche evolutive indicano che queste intelligenze atipiche tendono a rimanere eccezioni alla norma, al pari del mancinismo, della propensione al rischio e di altre caratteristiche relativamente rare, perché la funzionalità del gruppo dipende dalla loro essere poco frequenti.

Torno per l’ennesima volta all’esempio di D. Goleman sullo stormo di uccelli che trae vantaggio dal conservare il tratto genetico della propensione al rischio, perché il fatto che alcuni individui si allontanino dalla massa consente di individuare più facilmente i predatori [4]. Se da un lato questo comportamento è funzionale quando si presenta occasionalmente, dall’altro sarebbe catastrofico se fosse proprio di tutti gli individui.

Allo stesso modo un gruppo umano è avvantaggiato dalla propensione di alcuni individui ad attività rischiose, ma sarebbe sfavorito se tutti i suoi componenti fossero propensi a correre più rischi del necessario. Questo mi porta a ritenere che anche per l’intelligenza valga un discorso analogo: il gruppo è funzionale quando le intelligenze peculiari sono una eccezione, e non la norma. Un gruppo sociale composto unicamente da artisti, musicisti, filosofi, matematici e pensatori inquieti se la caverebbe molto male nel far fonte ad una quotidianità fatta di occupazioni spesso ripetitive e poco intellettualmente stimolanti.

Quindi abbiamo ribadito un primo punto: la presenza di intelligenze diversificate è funzionale all’efficacia del gruppo. Come si arriva, da qui, a definire l’esistenza di differenze di natura qualitativa? Da quello che sono riuscito a ragionare, una differenza di tipo quantitativo si traduce da sé in una differenza di tipo qualitativo. Il semplice poter elaborare più elementi contemporaneamente richiede l’utilizzo di schemi interpretativi, pena il ritrovarsi in un caos ingestibile.

A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro per sviluppare il concetto di intelligenza e darne una definizione meno generica. L’intelligenza è la capacità di far fronte a situazioni complesse. Il grado di complessità dell’operazione da svolgere determina il livello di intelligenza richiesta.

Partiamo da un livello ‘zero’ (arbitrario) con gli organismi filtranti. Molte delle forme di vita sulla Terra sono di questo tipo: spugne, molluschi, meduse, coralli, ecc… L’organismo filtrante vive in un habitat liquido ed estrae i nutrienti dal liquido stesso. Nessuna intelligenza è richiesta per questa modalità di sussistenza. Il risultato è che questi organismi non possiedono una rete neurale.

Non è ancora ben chiaro come le reti neurali si siano evolute, tuttavia osserviamo che la capacità di operare decisioni, unita alla mobilità, renda la predazione più efficiente. Data questa possibilità, milioni di anni di evoluzione e milioni di miliardi di individui consumati nel processo, arriviamo allo stadio successivo, che osserviamo ben conservato negli insetti.

Gli insetti possiedono un addensamento di cellule neurali, il cervello, dal quale si diparte una rete di comunicazione degli impulsi generati a raggiungere il resto del corpo. Il cervello acquisisce informazioni sensoriali dal mondo esterno e le traduce in azioni che impartisce ai diversi organi per mezzo della rete neurale. Le dimensioni degli insetti limitano la dimensione del cervello ai minimi termini.

Questo li rende in grado di esprimere un ventaglio di comportamenti limitato ed estremamente ripetitivo, come se il loro spettro di azioni e reazioni fosse interamente programmato già in partenza durante lo sviluppo cellulare, copiato e incollato direttamente dal DNA. Ovviamente questa modalità risulta efficace per svolgere funzioni ripetitive, ed il suo successo lo misuriamo dall’adattamento degli insetti ad ogni forma di habitat e dal loro coesistere come parassiti degli organismi più grandi e complessi.

Dimensioni corporee maggiori consentono di sostenere cervelli più grandi e l’avvento della ‘plasticità’, ovvero della capacità di apprendere comportamenti non codificati. Questa abilità porta con sé una serie di vantaggi, non ultima la possibilità di trasmettere alla discendenza saperi specifici e locali, oltre ad una maggior adattabilità rispetto a situazioni inattese.

Una specie di erbivori in costante migrazione può trovarsi di fronte a forme di vegetazione sconosciute e potenzialmente letali. Solo l’esperienza, e l’eventuale sacrificio di un individuo particolarmente debilitato, possono informare gli altri della effettiva sicurezza di consumare la nuova risorsa, e generare una specifica cultura che viene poi conservata all’interno del gruppo.

Un comportamento di questo tipo si osserva in alcuni topi (rattus norvegicus), che sono un po’ la ‘forma base’ di tutti i mammiferi sopravvissuti all’estinzione dei dinosauri. È stato osservato che in presenza di un’esca avvelenata il gruppo resta ad aspettare finché uno dei membri più deboli (un anziano, probabilmente affamato) non va a morderla. Quando il topo anziano muore avvelenato, gli altri membri del gruppo ci urinano sopra per marcare olfattivamente la pericolosità di quel tipo di esca, col risultato che da lì in poi tutti gli altri topi della comunità eviteranno di nutrirsene. Questa rappresenta una modalità molto basilare di apprendimento e generazione di una nuova cultura.

Grazie alla plasticità viene a determinarsi una dinamica predatore/preda dove comportamenti troppo prevedibili possono esporre gli individui al rischio di non sopravvivere, mentre la capacità di reagire in maniere inattese diventa un vantaggio immediato nella competizione per la sopravvivenza. Le culture acquisite dei predatori e delle prede si modellano reciprocamente e si trasmettono alle rispettive discendenze.

La nostra specie opera un salto ulteriore liberando gli arti superiori, che possono così essere impiegati per modellare utensili ed utilizzarli, inventando l’evoluzione tecnologica e le forme avanzate di linguaggio, necessarie a trasmettere interi bagagli di competenze da una generazione alle successive, e sviluppando forme di cultura precedentemente inimmaginabili.

Possiamo distinguere tuttavia tra una attitudine di tipo ‘applicativo’ ed una di tipo ‘esplorativo’. La prima è equivalente alla massa dello stormo di uccelli, la seconda ai singoli elementi dotati di maggior propensione al rischio. La massa si limita ad apprendere le conoscenze consolidate, mentre un ristretto numero di individui risulta in grado di forzarne i limiti, ovviamente rischiando in proprio.

In sintesi, mentre per la maggior parte degli individui è sufficiente apprendere ed applicare un bagaglio di competenze consolidato, senza metterlo in discussione, il comportamento ‘estremista’ relativo all’intelligenza consiste nel mettere in discussione il sapere consolidato per estenderlo oltre i confini precedentemente accettati, rischiando evidentemente di fallire nel tentativo.

Questo dilemma è rappresentato in molte delle narrazioni che ci sono giunte dall’antichità, che peraltro continuano a modellare la nostra cultura e le sue espressioni più recenti. Il racconto mitologico di Icaro che vola, con le sue ali, troppo in alto, fino a farle sciogliere dal calore del sole e a morire, rappresenta in forma simbolica l’aspirazione dell’umanità a nuove forme di conoscenza, ed i rischi che ne conseguono per chi provi ad esplorarle.

La conclusione di questo ragionamento rafforza la tesi che le società umane si strutturino ed organizzino per la massima efficienza, e che questo produca una dispersione delle forme di intelligenza e delle attitudini individuali. In più aggiunge una considerazione ulteriore, ovvero che per la maggior parte delle persone sia difficile ragionare per schemi e desumere un quadro coerente della realtà semplicemente dalle evidenze. Di conseguenza il loro approccio alla realtà dipenderà da un sapere acquisito, senza peraltro poter disporre degli strumenti indispensabili a rimetterlo in discussione.

Nel prosieguo conto di sviluppare una riflessione sul Principio di Autorità [5], quindi di esplorare le conseguenze delle presenti conclusioni sulle forme assunte dalle organizzazioni umane per comprendere meglio la loro influenza nei processi di auto-domesticazione [6].


1 – Da cosa si capisce se una persona è molto intelligente (PsicoAdvisor)

2 – Bias Cognitivo (Chiara Venturi)

3 – Evoluzione dell’intelligenza umana

4 – Darwin, Goleman e l’intelligenza diffusa

5 – Principio di Autorità

6 – Domesticazione umana

Evoluzione dell’intelligenza umana

L’intelligenza è una caratteristica dell’intelletto umano che mi ha sempre affascinato. Fin da ragazzo sono stato incuriosito dalle sue proprietà, dalle condizioni che ne hanno determinato l’emergere e dalle prospettive future della sua possibile evoluzione.

Inizierò con una breve sintesi di quanto già noto. L’intelligenza si sviluppa in natura per consentire agli individui un più ampio ventaglio di azioni e reazioni. Forme di vita autotrofe ed organismi filtranti, che traggono il nutrimento dall’ambiente circostante, non hanno necessità di attivare comportamenti particolarmente complessi. Per contro, creature che si nutrono di altre forme di vita traggono vantaggio dal poter accedere ad un ventaglio diversificato di possibili azioni.

In esseri molto piccoli le dimensioni dei singoli individui pongono limiti allo sviluppo della massa cerebrale e della complessità comportamentale. Gli insetti possiedono cervelli composti da relativamente pochi neuroni: la gamma di azioni e reazioni di cui sono capaci è formalizzata a livello di DNA, risultando estremamente limitata e pressoché priva di flessibilità, rendendoli poco diversi da automi biologici.

Con l’aumento delle dimensioni corporee è possibile sostenere masse cerebrali molto più grandi e complesse, di conseguenza una maggior capacità di percepire e comprendere l’ambiente circostante, conservare informazioni sugli eventi passati ed adattare le proprie azioni alla situazione contingente. Questo vale per tutte le specie animali di grande taglia che si sono succedute sul pianeta.

Negli ultimi 65 milioni di anni, a seguito dell’estinzione dei dinosauri e dell’ascesa dei mammiferi, la nostra particolare linea evolutiva, i primati, ha finito col dipendere specificamente, per la propria sopravvivenza, dallo sviluppo delle capacità cerebrali. Mentre altre classi sviluppavano grandi masse muscolari ed armi di attacco (denti e artigli, nei carnivori) e difesa (corna, negli erbivori), i primati svilupparono la capacità di manipolare gli oggetti.

Lo sviluppo della manualità, in particolare del pollice opponibile, comportò il parallelo incremento delle aree del cervello ad essa specificamente dedicate. Altre aree del cervello si accrebbero grazie alla socialità, da cui dipendeva la sopravvivenza di individui singolarmente poco robusti, ed alla conseguente necessità di scambiare informazioni complesse coi propri simili attraverso il linguaggio. [1]

Il meccanismo fin qui descritto è quanto di più darwiniano possiamo immaginare. All’esterno abbiamo la pressione dei predatori e la competizione per il nutrimento con le altre forme viventi, che portano all’emergere di strumenti cognitivi e della capacità di manipolare oggetti per creare utensili, onde aumentare le capacità di interagire efficacemente con la realtà.

Arriviamo così all’invenzione dell’ascia a mano, dei bastoni, delle lance. Queste innovazioni consentirono ai nostri antenati di uccidere un maggior numero di animali, e di taglie maggiori, quindi di nutrirsi meglio ed aumentare di dimensioni (le dimensioni dei predatori evolvono in relazione a quelle delle specie predate).

In seguito si pervenne alla scoperta del fuoco e della possibilità di lavorare le pelli di altri animali per proteggersi dal freddo, abilità che consentirono l’espansione umana in territori più freddi di quelli dove la nostra specie si era originariamente sviluppata, le savane africane, andando a conquistare progressivamente gli altri continenti.

Questo processo molto semplice, in cui la selezione naturale premia gli individui più bravi a sopravvivere e riprodursi, incrementando le caratteristiche ‘vincenti’, e tra esse l’intelligenza, procede indisturbato finché le condizioni di contorno restano simili a quelle iniziali, ovvero con comunità limitate a piccoli gruppi autonomi, dediti al nomadismo, con modalità di sussistenza basate su caccia e raccolta.

Da qui si diparte la mia linea di ragionamento, basata sul fatto che i processi di selezione naturale agiscono diversamente sui singoli individui rispetto a quelli inseriti all’interno di gruppi sociali. Nelle specie dotate di comportamenti sociali, e nella nostra in particolare, la selezione agisce sulla dimensione del gruppo, che viene ad assumere le caratteristiche di un sovra-individuo.

Osserviamo quindi come il processo descritto nel dettaglio da Charles Darwin [2] finisce col produrre esiti diversi sulle specie animali capaci di comportamenti sociali. Nelle specie i cui individui che svolgono vite autonome (i ghepardi, per dire, che si cercano ed incontrano solo per accoppiarsi) la selezione naturale tende a produrre una forma standard, ottimale per la cattura della tipologia di prede cacciate (nello specifico, le gazzelle). Inoltre, non praticando vita di coppia, anche il dimorfismo sessuale risulta estremamente ridotto, con la corporatura delle femmine pressoché identica a quella dei maschi.

Nei gruppi sociali, al contrario, si verifica una dispersione delle caratteristiche e delle abilità individuali, perché i gruppi funzionano meglio quando hanno a disposizione un’ampia varietà di capacità da mettere all’opera. Anche nella dimensione sociale minima di due individui, le difficoltà si affrontano meglio quando si uniscono abilità complementari, come forza e intelligenza, o irruenza ed autocontrollo.

Possiamo fare un parallelo biologico pensando alla transizione avvenuta milioni di anni fa da esseri unicellulari ad organismi multicellulari. Negli esseri unicellulari ogni singolo individuo ha necessità di operare l’intera gamma di funzioni, che devono essere tutte svolte con la massima efficienza, il che genera un ridotto ventaglio di diversità. Possiamo supporre che gli organismi multicellulari si siano originati da colonie di esseri unicellulari tutti identici, che col tempo abbiano avviato un processo di differenziazione.

L’organismo multicellulare risulta avvantaggiato da una differenziazione delle singole cellule, perché ognuna di esse potrà operare una specifica funzione, ed essere ottimizzata solo per quella, senza preoccuparsi di doverne svolgere altre. In un organismo multicellulare complesso troviamo cellule specializzate nel raccogliere i nutrimenti, altre incaricate di scomporli e metabolizzarli, altre di smaltirli.

Il vantaggio dell’organismo multicellulare su quelli unicellulari dipenderà dalla diversificazione ed ottimizzazione delle specifiche funzioni, che gli consentiranno di far fronte all’aumentato bisogno di nutrienti determinato dall’esigenza di dover alimentare un maggior numero di elementi funzionali (le singole cellule). La diversificazione delle funzioni è l’elemento chiave per il successo degli organismi complessi.

Allo stesso modo il genoma condiviso di un gruppo sociale umano può permettersi margini di fluttuazione molto superiori a quelli che sarebbero consentiti ad individui totalmente autonomi, proprio perché la rete sociale generata dal gruppo è in grado di trattenere, mantenere e non mandar disperse caratteristiche eccezionali, pur se invalidanti, che per il singolo individuo sarebbero potenzialmente letali.

Pertanto in un gruppo sociale avviene una strutturazione dei ruoli individuali analoga alla strutturazione in organi presente negli organismi multicellulari, i singoli individui si specializzano e l’intero gruppo ne trae vantaggio. Chi è più bravo a cacciare va a caccia per tutti, chi è più bravo a riconoscere le varietà edibili si occuperà della raccolta, chi è più bravo con i lavori manuali si occuperà di fabbricare utensili, e così via.

L’organizzazione in gruppi si fonda inoltre sulla reciproca solidarietà. Questo significa che il gruppo opera attivamente per garantire la sopravvivenza di tutti i suoi membri, anche quelli più fragili, anziani e generalmente meno abili degli altri, trovando la maniera di impiegarli utilmente in specifiche attività. Ciò consente lo sviluppo in parallelo di attitudini peculiari, anche al di là di quelle strettamente indispensabili, come le capacità artistiche.

In una specie come la nostra, dove i singoli individui impiegano letteralmente anni ad uscire dalla fase di infanzia per potersi rendere utili alla collettività, è richiesta una significativa capacità empatica per l’allevamento della prole, che si riflette sulla capacità di prendersi cura di tutti gli elementi del gruppo. Un individuo ferito non viene abbandonato, un anziano si continua a nutrire finché gli altri membri del gruppo non soffrono la fame, prolungandone la vita utile e sfruttandone le risorse di esperienza e saggezza.

Caratteristica peculiare degli esseri umani è l’estro artistico. L’estro artistico di singoli individui contribuisce alla coesione del gruppo, riuscendo ad alleviare la sofferenza psichica generata dalla complessità del cervello umano e dalla sua capacità di razionalizzazione. Per questo motivo i gruppi umani hanno interesse a preservare gli individui portatori di questa specifica caratteristica, che spesso convive con comportamenti eccentrici, potenzialmente autodistruttivi.

È una condizione non dissimile da quella, più volte descritta in questo blog, menzionata da Daniel Goleman nel volume “Intelligenza sociale”, dove si fa riferimento ai comportamenti ‘estremi’ di alcuni individui negli stormi di uccelli [3]. Analogamente, nei gruppi umani si tenderà a preservare gli individui capaci di ‘comportamenti estremi’, contenendone e mitigandone le eccentricità, se si riterrà che tali attitudini possano risultare utili alla collettività.

Una propensione all’esercizio della violenza sarà ritenuta utile nel caso di scontri con altre tribù, e si tollererà l’occasionale esercizio di tale violenza all’interno del gruppo. Un’intelligenza acuta e brillante sarà ritenuta utile nelle fasi decisionali, o nella gestione delle innovazioni, e si perdoneranno all’individuo particolarmente intelligente le stranezze ed eccentricità che sovente si accompagnano agli elevati Q.I.

Un individuo non particolarmente brillante potrà mettere a disposizione del gruppo la propria forza fisica, o la capacità di effettuare lavori ripetitivi, e gli altri membri del gruppo provvederanno alle sue necessità, compensando le qualità che gli difettano. Viene così a crearsi, sul lungo termine, una distribuzione delle abilità fra i diversi membri del gruppo, che ne ottimizzano la capacità di sopravvivenza.

Chiaramente la possibilità di disperdere le abilità su uno spettro più esteso dipenderà dalla dimensione del rispettivo gruppo. Con la transizione dalle comunità nomadi a quelle stanziali, che fa seguito all’invenzione dell’allevamento e delle tecniche agricole, e ancor più nel passaggio successivo, caratterizzato dalla nascita delle città, la dimensione dei gruppi umani aumenta notevolmente, e con essa la diversificazione degli individui.

Sappiamo che l’evoluzione procede per errori, i quali diventano condizione vantaggiosa al mutare delle condizioni di contorno. Con il successo dei gruppi umani numerosi anche i deficit fisiologici, se accoppiati a caratteristiche di eccellenza, perdono in gran parte la propria nocività ed hanno modo di trasmettersi alle generazioni successive.

Difetti della vista come la miopia, se accoppiati a doti particolari di intelligenza, non vengono eliminati dalla selezione naturale. Individui dalla scarsa intelligenza, se dotati di una notevole massa muscolare o altre doti fisiche, trovano una funzione soddisfacente in seno alla collettività, e riescono a trasmettere le loro caratteristiche alle generazioni successive. Le stesse considerazioni possono ritenersi valide per un ampio ventaglio di problemi di natura fisiologica e psicologica.

Per contro la gestione di collettività estese richiederà forme specifiche di intelligenza, in particolare la capacità di astrazione, che poco hanno a che vedere con le necessità legate a caccia e raccolta ma risultano particolarmente utili per l’ingegneria e l’edilizia. Ecco come i processi di selezione naturale vengono alterati dalle trasformazioni che fanno seguito alle innovazioni tecnologiche.

Dato questo contesto, i processi di Domesticazione Umana, già ampiamente discussi [4], appaiono come una proprietà emergente delle organizzazioni sociali umane, equivalenti alla strutturazione in organi distinti degli organismi multicellulari. Al crescere delle dimensioni dei gruppi una strutturazione gerarchica ottiene di massimizzare l’efficienza complessiva del lavoro svolto.

Da qui in poi devo muovermi sul terreno delle ipotesi e delle verosimiglianze. L’evidenza, nelle organizzazioni umane, è che abilità e talenti sono più facilmente dispersi tra i singoli individui che non concentrate in eccellenze individuali. Possiamo affermare che una collettività di questo tipo ‘funzioni meglio di una in cui gli individui sono tutti simili tra loro e non esiste diversificazione? Credo che la storia degli imperi dell’antichità descriva esattamente il processo che ha condotto a questa situazione.

L’invenzione di agricoltura ed allevamento porta alla nascita di comunità stanziali, la cui popolazione tende a crescere. Con l’aumento numerico della popolazione emergono nuovi problemi da affrontare, dai quali nasce la spinta alla diversificazione di specifiche forme di intelligenza ed abilità. Tra queste possiamo elencare le seguenti abilità:

  • la capacità ingegneristica di produrre sistemi (inizialmente di regimentazione idraulica, a seguire macchine complesse)
  • immaginare e realizzare opere in muratura ed edifici complessi
  • padroneggiare tecnologie di base come la ceramica e la metallurgia
  • gestire modalità astratte di conservazione del sapere, come la scrittura o la matematica
  • sviluppare le capacità sociali di gestire gruppi numerosi ed eterogenei, fondamentali sul piano pratico (come caposquadra), spirituale (come sacerdoti), negli impieghi militari e, non da ultimo, per le forme di intrattenimento artistico.

La limitata dispersione di caratteristiche ed attitudini che si osserva in un gruppo sociale ridotto può raggiungere ulteriori vette grazie all’evoluzione selettiva delle stesse caratteristiche all’interno di un gruppo vasto ed in espansione. Qualunque caratteristica ed abilità peculiare trova, all’interno di una collettività ampia, sia un rinforzo culturale che una selezione di tipo genetico, arrivando a produrre individui eccezionali nelle specifiche qualità, ma non di rado portatori di altri difetti e patologie.

Eccellenze di qualunque tipo, per emergere, richiedono di coincidere con ossessioni maniacali, tali da danneggiare l’esistenza degli individui che ne sono portatori. È un comportamento che osserviamo spesso in esponenti di punta dello spettro delle arti, performative e non, dove emergono facilmente personalità capaci di sacrificare all’arte la propria salute fisica e mentale, abusando di farmaci, stupefacenti e sostanze psicoattive fino all’autodistruzione.

In una collettività complessa, ogni talento trova una sua collocazione preferenziale, ogni individuo dotato di una specifica capacità trova una nicchia sociale nella quale prosperare, ed il successo della collettività nel suo insieme fa sì che anche i tratti deteriori non subiscano gli effetti immediati della selezione naturale, riuscendo a propagarsi alle generazioni successive.

In parallelo alla diversificazione dei tratti vantaggiosi si ha un prosperare ed autoalimentarsi di quelli svantaggiosi per il singolo individuo, che tuttavia non riescono ad incidere più di tanto sull’intera collettività. L’evoluzione procede per adattamenti successivi al contesto. Il contesto naturale ha prodotto, per grandi linee, l’umanità che conosciamo oggi.

L’inurbazione, l’abitudine a far parte di contesti sociali sempre più estesi, la riduzione della pressione selettiva dell’ambiente naturale, per quanto percepiti individualmente come vantaggi, stanno potenzialmente selezionando varietà umane adattate ad habitat artificiali. Come per certe razze animali d’allevamento che, in seguito a selezioni ed incroci, hanno maturato caratteristiche che le rendono inadatte a sopravvivere in un ambiente naturale, anche per i nostri discendenti potrebbe materializzarsi uno scenario analogo, avendo perso, nella lunga strada dell’evoluzione sociale, sia le caratteristiche fisiche che i saperi necessari a sopravvivere in assenza di un contesto civilizzato.

Detto in altri termini, l’esplosione di ‘diversità’ che emerge come conseguenza della sovrappopolazione, della produzione industriale di alimenti e della capacità di curare un ampio ventaglio di malattie e problemi fisici, se giova momentaneamente sia ai singoli che all’efficienza della collettività nel suo complesso, sul lungo termine finisce col danneggiare gli individui che, generazione dopo generazione, sperimentano una sempre più marcata inadeguatezza fisica ed alienazione dalla realtà che ne ha primariamente modellato l’anatomia e le reazioni psicologiche. È questo il rovescio della medaglia del ‘Paese dei Balocchi’ che l’ideologia dei consumi ci ha costruito intorno.

Riassumendo:

  • l’efficacia dell’azione di gruppo genera una dispersione delle caratteristiche individuali
  • la dispersione delle caratteristiche procede di pari passo con l’organizzazione interna e la strutturazione del gruppo sociale
  • l’auto-domesticazione è un processo che emerge spontaneamente dalle dinamiche evolutive dei gruppi
  • i gruppi umani (tribù, città, stati, nazioni) in competizione con altri gruppi umani tendono a massimizzare dimensioni e sfruttamento delle risorse disponibili
  • l’intelligenza è una delle tante caratteristiche che, all’interno di un gruppo esteso, raggiunge picchi di eccellenza, ma risulta necessariamente distribuita in maniera disuniforme

P.s.: alla luce di tutto ciò, gli ideali di uguaglianza promossi dai partiti di sinistra appaiono alla stregua di Bias Culturali: invenzioni rassicuranti e consolanti che però non tengono conto della realtà fattuale (e questa conclusione, devo dire, non mi piace… ma la realtà non è obbligata a piacerci)


[1] Evoluzione del cervello umano

[2] Charles Darwin

[3] Darwin, Goleman e l’intelligenza diffusa

[4] Domesticazione Umana

8 – Esaurimento delle risorse

(si conclude la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

I Processi di Inganno e le Ideologie prendono il controllo della Società spingendo alla massimizzazione della produzione di Ricchezza attraverso l’accelerazione del saccheggio ecosistemico
Essendo i Processi Ideologici fondamentalmente irrazionali, non sono in grado di tener conto della Realtà Fattuale, producendo l’esaurimento delle risorse disponibili nel più breve tempo possibile

In quest’ultima parte proverò a dedurre le estreme conseguenze dei meccanismi sistemici fin qui descritti. Abbiamo già visto come gli esseri umani siano spinti ad agire da ciò che percepiscono in termini di ‘bisogni’ [1], come questi bisogni si prestino ad essere manipolati da gruppi organizzati [2], e come la nostra umana propensione all’auto-inganno consenta a queste forme di manipolazione di agire efficacemente nell’orientare le nostre azioni [3].

Abbiamo anche visto come i Processi di Inganno più ‘efficaci’ tendano spontaneamente ad autoreplicarsi, reinvestendo una parte del benessere generato in forme di comunicazione di massa finalizzate ad alimentare le convinzioni collettive (Bias culturali) per essi vantaggiose [4]. Questo meccanismo genera una riluttanza dei processi sociali che tende a fissare le traiettorie delle civiltà, ostacolando prese di coscienza collettive e cambiamenti di rotta.

Questo significa, in termini spiccioli, che un incremento della disponibilità di risorse, indotto da nuove modalità di sfruttamento, finirà inevitabilmente a produrre una cultura socialmente condivisa votata all’aumento dei consumi (come è l’attuale) e che la collettività tenuta unita da questa convinzione alimenterà tale processo fino all’esaurimento delle risorse disponibili.

Ciò è determinato dal fatto che i soggetti responsabili dell’incremento dei consumi ricavano da questo processo il potere economico necessario ad alimentare narrazioni collettive favorevoli al processo stesso. Il progressivo esaurimento comprenderà anche le risorse potenzialmente rinnovabili, come quelle derivanti dai processi biologici, che in seguito all’aumento della popolazione verranno sottoposte ad uno stress eccessivo, finendo col perdere la capacità di auto-rigenerarsi.

Un esempio su tutti è quanto avvenuto con la colonizzazione delle zone temperate da parte dei nostri antenati, originariamente evolutisi nelle zone tropicali. Condizione necessaria perché Homo Sapiens migrasse dall’Africa a colonizzare l’Eurasia, peraltro in coincidenza di una serie di ere glaciali, è stata la padronanza del fuoco, generato dalla combustione della legna.

La specie umana è avanzata a colonizzare le zone climaticamente ostili scaldandosi grazie all’energia contenuta nel legno degli alberi. Col passare del tempo, la popolazione umana è progressivamente aumentata, e con essa il consumo di legname. Le pratiche agricole hanno quindi portato alla scomparsa delle foreste nelle pianure, e l’evoluzione tecnologica ha generato utensili sempre più efficaci nell’abbattimento di alberi e foreste, che al momento sopravvivono, solo in aree impervie e scarsamente interessanti ai fini produttivi.

Restando all’Italia, già in epoca romano-imperiale la pratica diffusa dei bagni termali aveva portato ad una depauperazione grave delle foreste appenniniche, che solo il crollo della popolazione (e del ‘benessere’), avvenuto nel corso del Medioevo, ha consentito una ripresa della vegetazione. La ripresa della crescita della popolazione, conseguente al Rinascimento e proseguita nelle epoche successive, ha poi nuovamente fatto tabula rasa di gran parte della vegetazione ricresciuta. Solo la recente transizione a risorse energetiche fossili (quindi non rinnovabili) ha consentito nell’ultimo secolo di ridurre l’abbattimento di alberi e dare di nuovo respiro ai boschi appenninici.

Processi analoghi di esaurimento delle risorse si sono osservati in numerose civiltà, preistoriche e recenti. Dalla già citata Isola di Pasqua alle popolazioni sudamericane responsabili dei disegni della Piana di Cuzco. Più recentemente l’uso dell’olio di balena, impiegato come fonte di illuminazione notturna, ha portato sulla soglia dell’estinzione numerose specie di cetacei. L’agricoltura meccanizzata, sospinta da una crescita della popolazione mondiale e da una cultura globale votata all’aumento dei consumi e dello spreco, ha causato la distruzione di pezzi importanti dell’ecosistema globale, dalle foreste primarie dell’Indonesia (Borneo) e dell’Amazzonia alle numerose varietà di macrofauna che da tali habitat dipendono. Un patrimonio di biodiversità che, una volta scomparso, non avrà modo di rigenerarsi su una scala temporale compatibile con l’esistenza umana.

Jared Diamond, nel saggio “Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere” [5], si domandava: “cosa avrà pensato l’uomo che ha tagliato l’ultima palma sull’isola di Pasqua? Si rendeva conto che quello era l’ultimo esemplare e che, una volta abbattuto, di palme sull’isola non ne sarebbero mai più esistite?”.

Di fatto, l’analisi condotta fin qui tenderebbe a dimostrare che l’opinione del singolo abbattitore fosse irrilevante, perché quello che ha causato la distruzione delle palme giganti non è stata la volontà di un singolo, bensì la convinzione collettiva che fosse giusto abbatterle.

Poteva andare diversamente? Forse, ma non certo appellandosi alla ragionevolezza, dal momento che, come spiegato in partenza, le Culture Motivazionali, le Ideologie, possono essere unicamente irrazionali. Una cultura irrazionale di indirizzo opposto è sicuramente emersa, e sarebbe stata in grado di fermare l’abbattimento delle foreste, se la cultura consumatrice non fosse stata già sufficientemente forte, capillare e pervasiva.

Possiamo vedere in opera dinamiche analoghe all’interno del processo di colonizzazione umana del continente americano, avvenuta circa 20.000 anni fa. All’epoca una conseguenza della glaciazione in corso fu l’abbassamento del livello del mare, che creò un corridoio tra l’Eurasia e il Nordamerica. I primi colonizzatori incontrarono una enorme abbondanza di forme animali (macrofauna) che potevano cacciare con facilità.

Questa abbondanza condusse ad un incremento della popolazione umana, con richieste di maggiori quantità di cibo che condussero, in ultima istanza, all’estinzione di numerose specie. Come riportato da Wikipedia [6]

Al termine del Pleistocene. … (circa 12.700 anni fa), 90 generi di mammiferi nordamericani di taglia superiore ai 44 kg scomparvero…

Venendo a tempi più recenti, a fermare l’estinzione antropica delle balene non è stata la consapevolezza collettiva del pericolo che ciò accadesse, bensì l’ascesa di un diverso prodotto in grado di sostituire l’olio di balena per l’illuminazione notturna, il cherosene [7]. Le balene si sono salvate solo perché estinguerle non è più apparso economicamente redditizio.

In conclusione, i Processi di Inganno:

  • emergono spontaneamente in seno alle società umane
  • muovono da assunti irrazionali
  • alimentano una soddisfazione momentanea di bisogni collettivi, reali ed immaginari
  • attingono a quanto disponibile nell’ambiente circostante
  • si concludono in seguito all’esaurimento di tali disponibilità.

Qualunque appello alla razionalità collettiva, qualunque speranza di ravvedimento, non possono che cadere nel vuoto. Le dinamiche relazionali umane danno luogo a processi marcatamente irrazionali, capaci di metabolizzare e sfruttare le funzioni cognitive superiori, ovvero la capacità di analisi logica e razionale, alterando e distorcendo la percezione collettiva delle conseguenze ultime dei processi in atto in modo da eliminare ogni possibile freno inibitorio.

(Continua)


[1] Razionalità vs Volontà

[2] Ideologie e Bisogni

[3] Evoluzione dei Processi di Inganno

[4] Comunicazione e Controllo Sociale

[5] Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere”

[6] Megafauna del Pleistocene

[7] La caccia alle balene

7 – Comunicazione e controllo sociale

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

Le classi sociali responsabili della gestione dei Sistemi Ideologici drenano la maggior quantità possibile di Ricchezza collettiva a proprio vantaggio, utilizzando i Processi di Inganno a fini di Controllo Sociale

Processi di Inganno [1] funzionali, una volta avviatisi, iniziano a restituire l’auspicato ‘benessere’ agli individui coinvolti. Se esistono margini perché il processo possa essere esteso ad una collettività più ampia, senza cioè che l’originario gruppo coinvolto abbia a rimetterci, la ricchezza acquisita viene esibita pubblicamente, gratificando i nuovi ricchi ed ottenendo di innescare un processo di emulazione.

L’esibizione di ricchezza diviene pertanto la prima forma di comunicazione sociale, intesa ad attestare l’efficienza del Processo di Inganno ed a gratificare i pionieri di tale processo, consentendo loro un’ascesa sociale.

Immaginiamo, a titolo di esempio, una tribù dove si sviluppi, magari per sentito dire, l’idea di coltivare una varietà alimentare. L’individuo, o gli individui coinvolti in questa nuova attività dovranno sacrificare il proprio tempo e le proprie energie per tutta una serie di lavori non immediatamente remunerativi. Mentre gli altri membri della tribù spenderanno il proprio tempo libero in attività ricreative, i novelli agricoltori dovranno innanzitutto rinunciare a parte del proprio cibo (poniamo cereali) per la semina, poi dovranno lavorare ad eliminare le erbacce, provvedere all’innaffiamento se il terreno si secca troppo, contrastare insetti ed animali vari che possano attentare alla salute della coltivazione e, solo dopo diversi mesi di questa attività, ottenere il meritato raccolto ed esibire agli altri membri il risultato di tanto impegno.

A quel punto, stante la disponibilità di terreni, anche il resto della tribù potrà decidere di avviare pratiche agricole. L’esito finale sarà un incremento del ‘benessere’ collettivo ed, in ultima istanza, la crescita della popolazione, dal momento che l’aumento della produzione alimentare consentirà di sfamare un maggior numero di individui. Questo darà vita, nel tempo, ad una Ideologia dell’Agricoltura basata sull’aspettativa che l’aumento della produzione agricola generi benessere. La componente irrazionale di questa ideologia sta nel non percepire l’esistenza di limiti alla possibilità di applicare questo principio, in sé veritiero. Limiti che possono discendere dalla dimensione della vallata, dalla disponibilità di acqua e dall’efficienza delle tecniche agricole. Limiti il cui portato, sul lunghissimo termine, consisterà nell’esaurimento della fertilità dei terreni.

Il punto che mi interessa approfondire riguarda le modalità per mezzo delle quali le Ideologie arrivano a permeare il tessuto culturale di una collettività. La prima forma di Comunicazione Sociale è proprio l’ostentazione di potere e ricchezza. Questo genera un processo di emulazione: i depositari del ‘sapere’ lo diffondono presso gli altri membri della comunità, che grazie a quel ‘sapere’ acquisisce benessere e comincia a crescere numericamente.

Ben presto le abilità dei diversi membri si differenziano: i più intelligenti e capaci di maneggiare il ‘sapere’ vengono incaricati della sua conservazione, mentre gli altri accettano di seguire le indicazioni, nella convinzione che gli convenga approfittare delle capacità intellettuali altrui, di cui sono carenti, in cambio del lavoro manuale. Possiamo individuare in questo semplice meccanismo l’inizio del processo di auto-domesticazione umana [2].

È interessante notare (questione cui riserverò un approfondimento) come proprio la ricchezza ed il benessere di una collettività consentano ai membri attivi di riservare parte del surplus alla cura degli individui ‘meno performanti’, fisicamente ed intellettualmente. Questo porta una collettività di successo a poter disperdere le abilità dei propri membri su uno spettro di diversità maggiore, potendo supportare abilità ‘estreme’ i cui inevitabili portati negativi non passerebbero il vaglio della selezione naturale. Sappiamo, dalle neuroscienze, che espressioni di intelligenza estrema in ambiti specifici (p.e. la matematica) sono spesso correlate a disfunzioni in altre funzioni cerebrali (p.e. disturbi dello spettro autistico). Queste forme di intelligenza estrema risultano penalizzate nel manifestarsi in ambienti ristretti, causando gravi difficoltà agli individui portatori dello specifico carattere, mentre in contesti sociali allargati la collettività può decidere di tollerare il ‘diverso’ e sopperire alle sue inadeguatezze, impedendo alla specifica caratteristica di venir rimossa dal genoma collettivo a causa dei processi di selezione naturale.

Nel momento in cui il ‘sapere’ diviene fonte di ricchezza e benessere, i detentori tenderanno a non condividerlo più spontaneamente, preferendo tenerlo sotto controllo, e con esso controllare la maggior frazione possibile della ricchezza generata. Tuttavia è necessario che la convinzione diffusa dell’efficacia del ‘sapere’ non venga persa. Per questo si attivano forme di Comunicazione Sociale tese a propagandare gli effetti benefici del ‘sapere’ (pur se elitario), e narrazioni sulla sua capacità di generare ricchezza e benessere per tutti (anche se non ugualmente distribuite).

I tenutari del ‘sapere’ preferiranno investire in questo tipo di comunicazione sociale, anziché nella diffusione generalizzata del sapere stesso, onde preservare una posizione elitaria all’interno dell’organizzazione sociale che si va strutturando. I detentori del ‘sapere ideologico’ assumono pertanto la connotazione di ‘casta sacerdotale’, tendendo a circoscrivere l’ambito di diffusione dello specifico sapere a cerchie ristrette.

Qui l’esempio più evidente è proprio quello delle istituzioni religiose. Confidare in entità ultraterrene offre il vantaggio di un grande sollievo psichico, ma poggia su basi teoriche indimostrabili. Per questo le collettività si affidano ad individui particolarmente abili nel convincere sé stessi e gli altri della fondatezza di tali convinzioni, decidendo di compensarli per l’operato fornito. Ben presto il dialogo con l’ultraterreno diviene una vera e propria professione, tale da richiedere una specifica organizzazione e formazione degli addetti anche solo per impedire che costrutti indimostrabili analoghi possano alterare l’equilibrio sociale faticosamente costruito.

Immaginiamo una piccola collettività isolata, come può esserlo un villaggio di allevatori/agricoltori del neolitico. La comunità ha le sue convinzioni, le sue divinità e le sue modalità di organizzazione dello sforzo comune. Immaginiamo arrivare da fuori un pellegrino, portatore di una diversa visione del sovrannaturale, che inizia la propria opera di proselitismo diffondendo idee alternative sull’aldilà e sui comportamenti da mantenere in vita per avere accesso al benessere dopo la morte. Chiaramente questo comportamento entra in conflitto non solo con le credenze esistenti, ma con la stessa ‘casta sacerdotale’ in essere, facilmente composta da un singolo individuo. Questa fragilità rende evidente la necessità di avere convinzioni irrazionali condivise su una dimensione più ampia di quella rappresentata da una singola comunità.

Per stabilizzare la posizione di vantaggio dei detentori di sapere irrazionale è necessario che il sapere stesso sia sufficientemente vasto ed articolato da non poter essere acquisito in tempi brevi e con un minimo sforzo. Non è sufficiente, per dire, che la collettività creda ad una divinità cui ci si possa rivolgere direttamente ed in termini semplici e diretti. È necessario invece che i riti siano complessi, che la volontà della divinità sia volubile e difficilmente interpretabile, che siano richiesti sacrifici personali per guadagnarne la benevolenza, che tutto sia, in ultima istanza, complicato ed arbitrario.

Come già detto, ogni sapere razionale ha necessità di una motivazione irrazionale per poter essere applicato, la motivazione irrazionale sarà gestita da una o più persone portatrici del sapere irrazionale che opereranno attivamente per fare in modo che la collettività non perda tale convinzione.

Per tornare all’esempio iniziale, l’agricoltura per prima necessita di un supporto irrazionale: la convinzione che quanto ha funzionato in passato funzionerà anche in un futuro al momento inconoscibile. Da questo discendono i riti pagani legati alla fertilità dei campi, le convinzioni sull’influsso delle fasi lunari, le pratiche legate al potere magico di specifiche parti di animali (le corna, per dire) o di particolari ore del giorno e della notte. Gli individui detentori di questi saperi, se abili nel convincere gli altri della loro validità, ne ottengono in cambio, quando non una retribuzione, quantomeno uno status sociale collettivamente riconosciuto, dal quale ricavare vantaggi di varia natura.

Nel passaggio dalla dimensione del villaggio a quella delle città, dei regni e degli imperi, la strutturazione delle culture irrazionali si sviluppa di conseguenza, mentre parallelamente si articolano le relative modalità comunicative. Come i singoli individui comunicano esibendo la ricchezza conseguita grazie alle proprie convinzioni, parimenti agiscono le culture.

Le culture religiose innalzano templi e vestono i propri sacerdoti di tessuti preziosi, le culture militari innalzano edifici, colonne ed archi di trionfo per mostrare la propria potenza, le culture mercantili erigono mercati coperti e centri commerciali, con la doppia funzione di attirare gli acquirenti e mostrare la propria opulenza. Ogni esibizione pubblica (mostre, saloni, raduni, sfilate) ha la specifica funzione di convincere la parte di popolazione più suggestionabile dei vantaggi generati da una specifica cultura motivazionale.

Necessariamente la comunicazione sociale risulta pervasa da contenuti irrazionali, dal momento che sono gli unici impossibili da validare o confutare, e quindi perennemente oggetto di discussione. Gli animatori di Processi di Inganno e Ideologie sono perciò obbligati a ribadire con continuità i contenuti irrazionali da essi veicolati, investendo energie e risorse economiche in forme di Comunicazione finalizzate al convincimento collettivo.

Per meglio comprendere questo passaggio possiamo osservare la transizione che interessa l’Europa nel passaggio dall’Impero Romano all’epoca medioevale. Al suo apice, tra il primo e il secondo secolo, l’Impero Romano disponeva di grandi ricchezze derivanti dalle continue guerre di espansione, col relativo saccheggio di popoli e civiltà. Nei secoli successivi il meccanismo di arricchimento mediante predazione va in crisi: l’impero è ormai vasto e fittamente popolato da cittadini romani che non possono più essere ridotti in schiavitù, le conquiste militari sono sempre più lontane e sempre meno redditizie, di conseguenza le risorse per alimentare la Cultura Militare imperiale si riducono, gli investimenti in infrastrutture declinano, e le popolazioni perdono fiducia nella capacità dell’organizzazione imperiale di rispondere alle proprie necessità.

In questo contesto di scarsità, a soppiantare la cultura Militare in declino è una Cultura Religiosa, il Cristianesimo, meglio attrezzata a gestire contesti sociali di piccole dimensioni e poveri di risorse. Laddove l’Impero veicolava, con grande fasto e dispendio di risorse, ideali di competizione ed arricchimento, il Cristianesimo predicava la solidarietà fra gli individui ed un premio nell’aldilà. In termini di Comunicazione la pesante e dispendiosa macchina imperiale viene sostituita da una schiera di frati e sacerdoti che diventano parte integrante delle comunità, vi partecipano attivamente, vengono da esse sostentati e periodicamente (ogni domenica, con la Messa) ribadiscono e rinforzano il messaggio ideologico. La Chiesa ottiene in questo modo un’egemonia culturale sull’intero continente che durerà quasi un intero millennio. Analogo e speculare processo avviene con l’avvento dell’Islam nel mondo arabo.

Il controllo della comunicazione sociale alimenta un processo di identificazione collettiva nell’Ideologia dominante, ottiene di consolidarla ed assicura il perdurare delle posizioni di rendita, circoscrivendo il controllo decisionale ad una cerchia relativamente ristretta di individui (la cui estensione e potere dipendono dalla diffusione della Ideologia stessa e dall’eterogeneità delle popolazioni che ad essa fanno riferimento).

Il controllo della comunicazione avviene per mezzo di due modalità, una attiva ed una passiva: da un lato veicolando, con tutti i canali disponibili, informazioni e contenuti funzionali al consolidamento ed allo sviluppo dell’Ideologia dominante, dall’altro impedendo ad Ideologie concorrenti, o a voci critiche in seno al consesso sociale, di diffondersi e minare la stabilità raggiunta.

I meccanismi per impedire alle idee concorrenti di scardinare le convinzioni diffuse sono di diversa natura. Una di queste sono le distrazioni e l’intrattenimento. Degli antichi romani è noto il motto “panem et circenses” proprio a significare che quando il popolo è sazio e distratto non c’è da preoccuparsi che si ribelli. “Circenses” sta per circo, che per i romani indicava gli spettacoli di combattimenti tra gladiatori, ma in seguito fu esteso a spettacoli di giocolieria ed alle rappresentazioni teatrali in generale.

Nel Medioevo la Chiesa attuò un controllo stringente sulla cultura, che si tradusse in analfabetismo diffuso tra le popolazioni. Questa transizione è marcata dal passaggio ad un diverso supporto per i testi scritti, la pergamena. Mentre i latini usavano il papiro, un supporto delicato ma economico, che consentiva una alfabetizzazione di massa, la pergamena, un supporto più duraturo ma estremamente costoso, determinò l’impossibilità economica per la gran parte delle popolazioni ad accedere a testi scritti, che diventarono estremamente rari. La conseguenza di ciò fu un analfabetismo diffuso.

Questo passaggio segnò un drammatico declino culturale degli stati europei, che non ebbe un analogo contraltare nel mondo islamico, in cui scienza e cultura fiorirono grazie ai commerci con la Cina, dove era stata inventata la carta, un supporto robusto ed economico che apparve in Europa solo molto più tardi. Fu grazie alla carta, ed all’invenzione della stampa, che il continente europeo tornò ad avere un’alfabetizzazione diffusa, che in poco tempo produsse prima la rivoluzione scientifica, quindi quella industriale, avviando il declino dell’Ideologia religiosa.

Una ulteriore modalità di controllo culturale (e, di conseguenza, controllo sociale) è la generazione di un ‘rumore di fondo’ informativo che, al pari dell’intrattenimento, tenga occupata e distratta l’attenzione pubblica. L’informazione ‘mainstream’, veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, televisione e giornali, arriva diffusamente e capillarmente alla gran parte della popolazione, mentre quella ‘alternativa’ viene sommersa dal rumore di fondo e resa inefficace.

Con la rivoluzione scientifica, ed il conseguente progresso tecnologico, è apparsa evidente l’importanza di avere popolazioni alfabetizzate ed acculturate, libere di organizzarsi ed esprimersi. Ciò non poteva mancare di avere ricadute drammatiche sull’organizzazione sociale e sulle strutture di comando. La rivoluzione industriale vede l’ascesa di una nuova classe sociale, la borghesia, che diventa il primo produttore di ricchezza, grazie al commercio ed ai processi industriali. La disponibilità di ricchezza consente (e richiede) ai nuovi potentati economici di prendere in mano la gestione degli indirizzi collettivi.

Questo comporta la necessità di scalzare le preesistenti organizzazioni di controllo sociale: stati nazionali ed organizzazioni religiose. Gli stati nazionali vengono progressivamente demoliti dalle rivoluzioni borghesi (francese ed americana) e dalla transizione a forme di governo democratiche, meglio controllabili da parte del mondo economico, mentre a minare il potere religioso è la progressiva laicizzazione della società, velocizzata ed acutizzata dalla diffusione del razionalismo e del pensiero scientifico.

Il quadro attuale vede il trionfo di un’Ideologia produttivo/mercantile, che proietta il proprio potere nel controllo dei mezzi di comunicazione di massa, giornali e televisione, e contemporaneamente genera un abbondante rumore di fondo attraverso l’intrattenimento e i social networks, riuscendo oltretutto ad arricchirsi dalla fruizione di tutte queste modalità informative.

Il controllo sociale si avvale di un ulteriore Processo di Inganno, che prende il nome di Politica. Mentre il popolo viene governato dagli apparati burocratici e ministeriali, economicamente e culturalmente controllati dal mondo produttivo, la classe politica inscena un teatro ideologico permanente, deviando l’attenzione della popolazione su questioni volutamente ambigue come i ‘diritti civili’, la ‘sovranità’ o le ‘identità nazionali’.

Le testate giornalistiche destinano gran parte del proprio spazio alle evoluzioni della scena politica, poi si occupano di informare su nuovi prodotti e tecnologie (pubblicità occulta), sullo sport (che non di rado è semplicemente veicolo pubblicitario per comparti produttivi, come nel caso dell’automobilismo), e sull’intrattenimento (rumore di fondo), restringendo il cerchio della comunicazione di massa a tematiche strettamente utilitaristiche per l’Ideologia dominante. Solo una minuscola frazione dell’informazione è riservata alle questioni sociali ed ambientali, ed in genere si tratta di notizie imprecise e superficiali, quando non puro e semplice ‘greenwashing’.

Per ogni Cultura Irrazionale, militare, religiosa, produttiva o commerciale che sia, la priorità consiste nell’accreditarsi come unica ragionevole e plausibile visione del mondo, lavorando ad occultare le incongruenze di fondo. In linea di massima è relativamente semplice individuare le forzature ideologiche nella comunicazione di massa, ma altrettanto palesemente non vi è traccia della consapevolezza di esse nella cultura collettiva.

L’Ideologia produttivo/mercantile, nel suo generare (nell’immediato) benessere diffuso ed abbondante, si lascia alle spalle rifiuti e distruzione, problemi sanitari, perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli, esaurimento di riserve energetiche fossili e delle materie prime, antropizzazione galoppante, disparità sociali, povertà ed annientamento di equilibri biosistemici millenari. Tutto questi problemi, è evidente, ricadranno come un macigno sulle generazioni a venire, ma al fine di preservare i vantaggi immediati è conveniente che la collettività continui ad ignorali.

Per contro, i sacerdoti dell’Ideologia proclamano una fede cieca in costrutti culturali palesemente e dimostrabilmente falsi, come l’idea di una ‘crescita illimitata’ dell’economia, o l’esistenza di una ‘mano invisibile del mercato’, che ad un esame razionale appaiono concettualmente non dissimili dalle divinità idolatrate dai popoli preistorici.

Il consolidamento di ogni Ideologia ha la funzione di stabilizzare l’Ordine Sociale, evitando derive che potrebbero ridurre, o eliminare, il controllo esercitato da parte delle Caste Sacerdotali dominanti. Tale consolidamento dà luogo ad una riluttanza sistemica, che ostacola ogni possibile cambiamento frenando l’evoluzione collettiva e, non di rado, conducendo al collasso catastrofico dell’organizzazione sociale stessa.

(Continua)


[1] Processi di Inganno

[2] Domesticazione Umana

6 – Evoluzione dei Processi di Inganno

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

L’incremento del benessere alimenta l’emergere di nuove classi sociali specificamente occupate ad inculcare le ideologie e coltivare i Processi di Inganno collettivi

Negli approfondimenti precedenti abbiamo visto come i Processi di Inganno emergono dall’organizzazione delle società umane e come finiscano con lo strutturarsi in Ideologie. Ora cercherò di dar conto degli stessi eventi in chiave dinamica, ovvero come Processi di Inganno ed Ideologie evolvano dalla reciproca interazione, modificandosi a vicenda nel corso del tempo.

Il successo delle singole Ideologie dipende principalmente dal grado di benessere che ognuna di esse è in grado di restituire alla collettività che la adotti per un arco di tempo sufficientemente prolungato. L’eventuale successo di una ideologia porta all’emergere di una ‘casta sacerdotale’, un gruppo organizzato di persone che massimizza l’efficacia dei processi di inganno, percepiti come vantaggiosi dalla popolazione, e ne innesca di propri, tipicamente di natura parassitaria.

La ‘casta sacerdotale’ trae alimento dal surplus di ricchezza prodotta dall’operato delle popolazioni che si identificano nell’Ideologia collettivamente condivisa, ed ottiene benefici diretti, via via crescenti, dalla dipendenza che si sviluppa nella popolazione, il cui ‘benessere’ discende dai costrutti irrazionali di cui la casta sacerdotale stessa è veicolo.

Esempio pratico (civiltà antica): una tribù stabilisce che credere in una divinità è preferibile all’affrontare la paura della morte. I sacerdoti della divinità iniziano ad interpretarne le volontà, formalizzando una serie di regole, anche pratiche, che i fedeli sono tenuti a seguire. Le regole sono efficaci ed ottengono di migliorare la qualità della vita della collettività. La collettività riconosce ai sacerdoti il merito di tale miglioramento. Parte del surplus prodotto viene investito nell’alimentare il processo generatore di ‘benessere’. I sacerdoti riutilizzano quanto donato sia per le proprie necessità che per far crescere la ‘fede’, realizzando opere di ringraziamento alla divinità, luoghi di culto ricchi ed appariscenti e tutto il relativo corollario (di fatto l’adorazione della divinità appare indistinguibile dall’adorazione per il ‘benessere’ di cui la divinità è ritenuta dispensatrice… ciò vale sia per le divinità ultraterrene, sia per i costrutti culturali elaborati in tempi recenti: la supremazia militare, i mercati, la tecnologia, ecc…)

Nel caso in cui il surplus di ricchezza prodotto sia abbondante, gli individui animatori dell’Ideologia spingeranno il resto della popolazione a farne dono. Il possesso e la gestione di tale ricchezza viene quindi incorporato all’interno dell’Ideologia stessa, e descritto come necessario al rafforzamento dei processi responsabili del benessere collettivo.

I membri delle società umane tendono ad accettare l’idea che un ‘mediatore’ (la divinità, o il costrutto culturale, e di conseguenza i ‘sacerdoti’ che ne interpretino la volontà) debba ricevere una parte dei beni che l’Ideologia ha contribuito a generare. Il fatto che i ‘tributi’ vengano quindi specificamente incorporati nell’Ideologia condivisa favorisce questo processo di accettazione.

  • Nel caso di una cultura animata dalla religiosità, ad esempio una civiltà agricola primitiva, i sacerdoti operano a convincere la collettività della necessità di riti propiziatori, sacrifici animali, olocausti. Con l’accrescersi del surplus di risorse generato dalle pratiche agricole possono essere retribuiti operai per fabbricare manufatti dedicati al culto: vengono costruiti altari, prodotta oggettistica devozionale ed innalzati templi. Sul lungo termine avviene una strutturazione gerarchica nella stessa casta sacerdotale, i rituali diventano più complessi, vengono redatti testi sacri, si definiscono norme di abbigliamento e vengono stabilite ed imposte delle scadenze temporali arbitrarie per l’effettuazione di specifici rituali.
  • Nel caso di una cultura militare, la cui ricchezza derivi dal saccheggio di territori e culture limitrofe, assistiamo a processi analoghi, col ruolo sacerdotale incarnato nelle gerarchie militari. Anche in questo caso avremo le benedizioni rituali e i sacrifici alle divinità della guerra, avremo un vestiario specifico per l’esibizione di ruoli e gerarchie (le alte uniformi), avremo i manuali di tattica e strategia a formalizzare l’Ideologia e tramandarla, avremo opere monumentali (p.e. statue di re, generali ed archi di trionfo) a testimoniare e consolidare la memoria dei successi riportati.
  • Nel caso di una cultura produttivo/mercantile, a dominare sarà l’ostentazione della ricchezza ottenuta, sotto forma di oro, gioielli, tessuti pregiati e pietre preziose (in tempi più recenti oggetti tecnologici costosi, barche, orologi e automobili di lusso). I sacerdoti di una tale cultura si riuniranno in spazi ‘esclusivi’, per rimarcare il proprio status e la loro distanza dal ‘popolino’, erigeranno monumenti all’operosità sotto forma di grandi edifici di uffici e centri commerciali visibili a chilometri di distanza, che torreggeranno sulle città sottostanti per esibire il potere dell’Ideologia che li ha eretti.

Ho scelto di accomunare questi tre esempi nella definizione di Processi di Inganno (oltre a diversi altri, che vedremo in seguito) perché, come già spiegato, la componente motivazionale è obbligata a basarsi su assunti indimostrabili ed irrazionali.

  • Nel caso della religione è indimostrabile l’esistenza della divinità
    (n.b.: ed è altrettanto indimostrabile la sua inesistenza… questa analisi non ha l’obiettivo di analizzare la falsità o meno delle credenze religiose, bensì quello di indagare la natura umana e descrivere parallelismi tra aspetti dei rapporti sociali che a prima vista possono apparire molto diversi tra loro)
  • Nel caso delle culture militari è indimostrabile il diritto di un singolo o un intero popolo ad approfittare delle ricchezze altrui, o di aggredire ed asservire altre popolazioni
    (per questo si sono, nei secoli, costruite intere mitologie sui discendenze divine, popoli eletti, culture superiori o più evolute, fino ad arrivare alle moderne ideologie razziste).
  • Nel caso delle culture produttive/mercantili è indimostrabile che il benessere, individuale e collettivo, dipenda in misura diretta dalla quantità di beni di cui ognuno/a dispone
    (qualunque studente in psicologia può facilmente smontare questa tesi, che tuttavia ha profonde radici, frequentemente di natura culturale, ovvero indotte).

In sintesi, all’origine di tutto c’è la nascita di un’idea di ‘benessere’ ottenibile, e della maniera per ottenerlo. Questo innesca un Processo di Inganno, la cui funzione è di realizzare quel ‘benessere’. Se il ‘benessere’ è realizzato, il processo si autoreplica crescendo di scala ad ogni passaggio: maggior benessere prodotto, maggior popolazione coinvolta, maggiori evidenze di benessere esibite pubblicamente, progressivi aggiustamenti all’ideologia responsabile del ‘benessere’, aumento della ricchezza e dell’importanza sociale della casta sacerdotale responsabile dell’Ideologia.

Questo crescendo inarrestabile finisce, presto o tardi, con lo scontrarsi coi limiti ecosistemici dell’ambiente dal quale il ‘benessere’ viene ricavato. Vivendo in un ‘mondo finito’, è evidente che l’accaparramento di risorse da parte di un’unica specie non può che comportare una riduzione delle risorse disponibili per tutte le altre.

La nostra specie ricava ‘benessere’ dal danneggiare le altre: uccidendo animali per nutrirci, bruciando legna per scaldarci, deforestando per far spazio alle colture, cementificando per ricavarne abitazioni, rilasciando agenti inquinanti ed alterando la composizione chimica dell’atmosfera. Tali processi non hanno effetti significativi per popolazioni numericamente ridotte, ma portati alla scala attuale sono più che in grado di turbare l’equilibrio complessivo dell’ecosistema, potenzialmente in maniera irreversibile.

Questo è un tema che svilupperò meglio nell’ultima parte, ma qui serve a chiarire meglio la definizione di ‘Processi di Inganno’: è vero che i processi di inganno generano ‘benessere’, e in questo non c’è inganno, tuttavia il ‘benessere’ generato è sempre provvisorio, ed ottenuto a spese di quegli stessi equilibri naturali che hanno favorito la comparsa della nostra specie.

La natura stessa di questo ‘benessere’ è perciò estemporanea, anche se trattiamo di archi temporali dell’ordine dei secoli, quindi non facilmente né pienamente contestualizzabili dai singoli individui. L’idea che il ‘benessere’ ottenuto nell’immediato sia realizzato a spese delle generazioni future è solitamente ignorata delle narrazioni ideologiche, e questo rafforza l’Inganno insito nel processo stesso.

Il risultato è che i Processi di Inganno si sviluppano, modificando progressivamente le Ideologie che ne discendono, in modo da massimizzare la propria efficacia e rendere inevitabile l’esaurimento delle risorse da cui dipende il ‘benessere’ promesso, dal momento che l’esistenza stessa di un ‘benessere’ induce la crescita della popolazione, che comporta l’aumento dello sfruttamento e, a lungo andare, l’esaurimento di ciò che pure era, originariamente, ‘rinnovabile’.

Nel prossimo post analizzerò il legame tra Processi di Inganno, Ideologie e Comunicazione, per illustrare le modalità attraverso le quali le Ideologie vengono veicolate al grande pubblico, informando e modellando la percezione collettiva della realtà e garantendo forme di controllo sociale atte a prevenire scostamenti dall’ortodossia ideologica.

(Continua)

5 – Ideologie e Bisogni

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

I Processi di Inganno si formalizzano in Ideologie finalizzate a massimizzare il saccheggio delle risorse ecosistemiche a vantaggio delle collettività che vi si identifichino

L’esistenza dei Processi di Inganno [1] all’interno delle collettività umane porta necessariamente alla loro formalizzazione in termini di Ideologie [2]. Un’ideologia è, sostanzialmente, un sistema di idee fra loro coerenti in grado di 1) strutturare una visione del mondo e della realtà e 2) fornire indicazioni sulle pratiche da porre in essere per massimizzare sia il benessere individuale che quello della collettività che in tale ideologia si riconosce.

Il primo punto è sufficientemente chiaro e disambiguo: un’ideologia deve contenere elementi conoscitivi e verificabili, perché su questi elementi si fonda la sua credibilità. Il secondo punto introduce il concetto di ‘benessere’, che merita un approfondimento.

Nel regno animale il ‘benessere’ coincide con la realizzazione di tre condizioni: un adeguato accesso al cibo, uno stato di buona salute fisica e la soddisfazione degli impulsi riproduttivi. Gli animali non hanno bisogno di altro, e normalmente non necessitano di altro. Gli istinti migratori, presenti in moltissime specie, possono essere fatti rientrare nel primo o nel terzo punto, essendo pulsioni che si sono modellate nei millenni per massimizzare la sopravvivenza e la riproduzione.

Lo sviluppo del cervello umano ha però introdotto, in questo meccanismo di soddisfazione relativamente semplice, ulteriori gradi di articolazione e complessità, che le dinamiche sociali hanno finito con l’espandere ulteriormente. Il primo ambito da indagare riguarda le patologie psichiche.

Essendo il cervello umano un organo estremamente complesso, squilibri di natura elettrochimica, o dovuti ad uno sviluppo irregolare delle singole aree, o delle relazioni tra esse, sono sufficienti a produrre l’emergere di personalità dall’equilibrio precario, se non del tutto assente. La dimensione sociale e solidale protegge gli individui portatori di queste peculiarità dalle conseguenze dei normali processi di selezione naturale, finendo col farle divenire endemiche.

Per inciso, lo stesso sviluppo della dimensione sociale discende dallo stabilizzarsi di qualcosa di molto simile ad una patologia psichica: la sofferenza che si produce nello star lontani dai nostri simili [3]. Questa caratteristica, tuttavia, ha finito col produrre entità collettive (gruppi, branchi, tribù) caratterizzate da un’efficienza, in termini di sopravvivenza e riproduzione, superiore a quella dei singoli individui isolati.

Le diverse forme di squilibrio psichico generano un ventaglio di ‘bisogni’ molto ampio, che possono, nei casi più gravi, essere percepiti come prioritari rispetto alle esigenze naturali di sopravvivenza e riproduzione.

Senza scendere troppo nei dettagli, un caso su tutti è quello dell’anoressia, condizione psichica caratterizzata dall’incapacità, da parte del cervello, di riconoscere correttamente uno stato di benessere fisiologico e dalla conseguente ricerca di una condizione fisica patologica, che nei casi più gravi può condurre alla morte.

Altra caratteristica dei cervelli umani (ma non solo) è l’insorgere di dipendenze. L’organismo dipendente sviluppa un bisogno patologico nei confronti di determinate sostanze, o di determinate abitudini, che finisce col diventare prioritario rispetto alla salute ed al benessere individuale.

Sempre a titolo di esempio, sostanze stordenti come l’alcol e la maggior parte delle droghe psicotrope ottengono di generare un sollievo psichico quando l’individuo si trova in condizioni di stress. Questo non rappresenta un portato negativo immediato ma, se le condizioni di stress non vengono rimosse e l’assunzione di sostanze viene ripetuta con regolarità, l’organismo sviluppa una dipendenza di natura metabolica, rendendone difficile l’eradicazione.

In ragione di ciò, la definizione delle Ideologie come ‘sistemi di idee funzionali alla massimizzazione del benessere’, per quanto calzante, è resa indefinita proprio dall’intrinseca indeterminazione del concetto di ‘benessere’, che ogni individuo declina in modi e forme differenti e può variare nelle diverse fasi della vita o in risposta a condizioni esterne, come la disponibilità di cibo e risorse.

Per capirci, una persona abituata a disporre di nutrimento scarso e scadente proverà una sensazione di benessere, di fronte ad un buon pasto, molto superiore a quella provata da chi quello stesso ‘buon pasto’ lo consuma abitualmente. Questo introduce un ulteriore elemento, quello dell’assuefazione: un ‘bisogno’ è tale finché non viene soddisfatto, ma la regolare soddisfazione dei bisogni non implica necessariamente uno stato di benessere, perché il cervello tende ad abituarsi e sviluppare ulteriori bisogni di grado più elevato.

Possiamo osservare questo processo, a livello di singoli e civiltà, fin dalle epoche più remote. I nostri antenati condividevano gli stessi bisogni e necessità del resto del regno animale, ma ad ogni singolo avanzamento tecnologico, una volta soddisfatti i bisogni primari, abbiamo finito con l’elaborarne di nuovi e più energivori.

L’invenzione dell’agricoltura, nell’antico Egitto, ha generato un benessere che si è tradotto in aumento della popolazione, che a sua volta ha finito col produrre la colonizzazione di nuove aree del bacino del Nilo. La popolazione, abbondante e ben nutrita, ha quindi potuto spendere le proprie energie nella fabbricazione di manufatti di complessità crescente, dando vita ad una delle più antiche civiltà, elevando templi, città, monumenti e manufatti che appaiono sorprendenti ancora oggi. Osservando il processo nella chiave di lettura delle ideologie, possiamo dire che lo sviluppo di un’ideologia religiosa ha dapprima soddisfatto il bisogno di rassicurazione rispetto alla morte ed alla vita nell’aldilà ma, una volta ottenuto questo risultato, l’abbondanza di ricchezza prodotta ha alimentato ulteriori e nuovi Processi di Inganno (in modalità che vedremo meglio in seguito) portando all’emergere di nuovi bisogni: di rappresentazione, di affermazione, di esibizione di ricchezza. Bisogni che l’ideologia stessa si è adattata a soddisfare, finché non è entrata in conflitto con la più aggressiva ideologia militare dell’Impero Romano.

L’indeterminazione in cosa sia ‘bisogno’, e in che modo esso debba essere soddisfatto, dà conto del sorprendente ventaglio di ideologie, piccole e grandi, diffuse e di nicchia, che l’umanità, nella sua storia millenaria, ha finito con lo sviluppare. Ogni ideologia contiene in sé sia elementi conoscitivi, necessari alla comprensione di quanto esistente, sia elementi irrazionali, necessari a definire quali azioni mettere in atto.

  • Un’ideologia carente sul piano degli elementi conoscitivi risulterà fallimentare nella gestione della realtà contingente
  • Un’ideologia carente, o eccedente, sul piano degli elementi irrazionali (e motivazionali) risulterà parimenti inadeguata a garantire il benessere collettivo nel lungo termine.
  • Una cultura aggressiva nei confronti del proprio habitat ed animata da un’ideologia carente di elementi conoscitivi sfrutterà le risorse disponibili oltre la loro capacità di rigenerazione, portando l’ecosistema all’esaurimento ed al collasso.
  • Una cultura animata da un’ideologia carente di elementi motivazionali risulterà stabile ed equilibrata nel suo rapporto con l’ambiente circostante ma ‘stagnante’, continuando a riprodurre, immutati nel tempo, i medesimi comportamenti. Ciò appare vantaggioso, ma solo finché la cultura ‘stabile’ non finisce a confliggere con una più aggressiva [4].

Le situazioni descritte hanno avuto modo di verificarsi in diversi luoghi ed epoche nella storia umana. Come esempio (fra tanti) di una cultura ‘aggressiva’ mi viene in mente Rapa-Nui, l’Isola di Pasqua, dove la popolazione umana che per prima vi pose piede intorno all’anno mille dell’era cristiana ha, nell’arco di pochi secoli, irresponsabilmente portato all’estinzione una varietà di palme giganti, endemica dell’ambiente insulare e parte integrante della funzionalità di tale ecosistema, finendo col distruggere l’habitat da cui l’intera popolazione traeva sostentamento [5]. Come modello di una cultura del secondo tipo mi vengono in mente le popolazioni di cacciatori/raccoglitori, un tempo diffuse in tutto il pianeta ed ora largamente minoritarie ed in via di scomparsa, predate e sterminate a causa dall’invadenza di popolazioni animate da ideologie più aggressive e tecnologie più avanzate. Quest’ultimo tipo di conflitto è attualmente osservabile nella foresta amazzonica.

L’umanità ha avuto modo di mettere in pratica, nel corso della sua lunga storia sul pianeta, numerose e diverse ideologie, che hanno prodotto una varietà di forme di relazionamento con gli habitat naturali, con diversi gradi di successo. Quello che si osserva è che ogni civiltà, dato un sufficiente surplus di risorse, tende ad espandersi territorialmente. Tale espansione cessa, e a volte si inverte, quando la civiltà stessa si trova a corto di risorse.

I confini di una civiltà definiscono un ‘sistema chiuso’, all’interno del quale la civiltà stessa è forzata a cercare un equilibrio. Può essere un’isola, una penisola, una valle, un subcontinente, in casi eccezionali un intero continente. La cultura tecnologica attuale è arrivata ai limiti estremi, arrivando ad espandersi sull’intero pianeta, pur se frammentata in un ventaglio di varietà ideologiche, prevalentemente rispetto alla forma di governo, poco dissimili l’una dall’altra.

Tuttavia questa cultura è ben lontana dall’aver stabilito un equilibrio, perché l’espansione che ha interessato la popolazione umana negli ultimi tre secoli non si è basata sull’impiego dei flussi energetici correntemente disponibili (radiazione solare, in prevalenza), ma ha attinto a sacche di accumuli energetici prodottisi nell’arco di milioni di anni (carbone, petrolio, gas metano), rese disponibili dall’estrazione e raffinazione delle diverse vene minerali e metallifere più facilmente accessibili.

In questo momento storico le Culture Razionali, animate dal Pensiero Scientifico, stanno accumulando evidenze allarmanti sulla probabile evoluzione futura di queste modalità di consumo scriteriato, mentre le Culture Irrazionali, correntemente identificate col termine di ‘Mercati’, non sono interessate a nulla che non rientri in un’orizzonte immediato, ed operano in direzione di un’ulteriore accelerazione dei consumi.

Tuttavia, come già spiegato, le Culture Razionali, all’interno di una società umana, rivestono una funzione puramente accessoria, mentre sono le Culture Irrazionali, stante la loro funzione specificamente motivazionale, a gestire la sfera organizzativa di gruppi e collettività. Sono le Culture Irrazionali, attraverso i loro esponenti, a modellare le ideologie per meglio rispondere ai propri ‘bisogni’, e a decidere se far uso o meno delle competenze acquisite dalle Culture Razionali.

Nell’economia dei processi evolutivi non conta tanto la giustezza dell’agire, quanto l’esito finale. Credere in qualcosa che ci aiuta a sopravvivere ed affermarci si dimostra utile, indipendentemente dal reale fondamento, o meno, di ciò in cui crediamo. Sopravvivere grazie a motivazioni illusorie è preferibile al morire agendo sulla base di evidenze inconfutabili. Questo è un portato evolutivo: quando tutto appare perduto, una fede irrazionale può spingerci a non desistere dal tentativo di sopravvivere. O, detto in altri termini: “a provare si rischia di perdere, ma chi non prova ha già perso in partenza”.

Di conseguenza, ad affermarsi non sono le credenze, convinzioni e ideologie più calzanti e verosimili, ma quelle capaci di generare i maggiori vantaggi nel breve e medio termine. Qualora le condizioni di contorno abbiano a cambiare, se le credenze, convinzioni e ideologie adottate in precedenza si rivelano inefficaci nel gestire il benessere della collettività, possono essere abbandonate e soppiantate da altre.

La preistoria e la storia dell’umanità sono ricche di esempi di civiltà che hanno prosperato individuando e sfruttando le risorse naturali. Con le pietre abbiamo costruito utensili per cacciare, costruire rifugi e trasformare la realtà naturale. Con l’agricoltura abbiamo sottratto le terre fertili alle varietà vegetali non nutrienti per riservarle a quelle edibili.

Nel far questo abbiamo spesso ottenuto di esaurire la fertilità dei terreni e le risorse da cui dipendevamo, o di stravolgere equilibri ambientali delicati. Le civiltà che non sono riuscite a trovare un equilibrio col proprio contesto, dopo periodi di prosperità e di produzione di manufatti imponenti, sono finite col declinare e scomparire. Le stesse Culture Irrazionali e Ideologie alla base del successo di quelle civiltà, per aver alimentato uno sfruttamento eccessivo delle risorse ecosistemiche, ne sono state la causa prima della scomparsa.

La civiltà di cui facciamo parte sta percorrendo la stessa parabola di altre che, in epoche passate, sono andate incontro al collasso sistemico. Credo che questa evidenza dovrebbe interessarci e spingerci a cercare un rimedio alle dinamiche scarsamente lungimiranti che vengono generate dal contesto sociale.

Nel prossimo approfondimento esamineremo il ruolo dei Processi di Inganno nella modellazione di Ideologie irrazionali ed opportuniste, ovvero strettamente focalizzate sui ritorni a brevissimo termine e relativamente cieche rispetto alle conseguenze sul lungo periodo.

(Continua)


[1] – I Processi di Inganno

[2] – Ideologie

[3] – L’origine della socialità

[4] – Il Paradosso Maori

[5] – Storia dell’Isola di Pasqua

4 – I Processi di Inganno

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

Singoli meccanismi di auto-inganno si integrano per dar vita a ‘Processi di Inganno’ capaci di amplificare le Volontà individuali e collettive

Abbiamo visto, nei precedenti approfondimenti, come i meccanismi di auto-inganno (Bias Cognitivi) si strutturino in forme sociali (Bias Culturali). Al crescere di dimensione dei gruppi umani, nel passaggio dalle piccola comunità (tribù e villaggi) alle città, e su su fino a stati ed imperi, le modalità di auto-inganno funzionali al benessere ed alla sopravvivenza si articolano ulteriormente, rafforzandosi e sviluppando proprie forme organizzative.

Abbiamo anche visto come un eccesso di consapevolezza possa indurre alla disperazione, e come la possibilità di compensare questa disperazione per mezzo di convinzioni irrazionali migliori la capacità umana di far fronte alle avversità. Ora si tratta di proiettare questo scenario su una dimensione sociale.

Posto che la convinzione dell’utilità di determinate pratiche irrazionali risulta vantaggiosa per l’individuo, lo stesso avviene a livello di gruppi. Con una differenza fondamentale: il gruppo agisce come un singolo organismo, le cui funzioni si articolano nei singoli individui. All’interno di un gruppo gli appartenenti si differenziano in base alle proprie inclinazioni ed attitudini, capacità ed abilità. Se un individuo è più bravo a cacciare, farà di preferenza il cacciatore, se è bravo a fabbricare utensili, farà l’artigiano.

In un simile contesto emergeranno necessariamente individui più capaci di altri nelle modalità di auto-inganno, ed è a questi individui che il gruppo assegnerà la funzione di rafforzare le convinzioni irrazionali collettive, fabbricare argomentazioni teoriche e praticare i riti propiziatori. Gli individui più portati a maneggiare le modalità di auto-inganno saranno chiamati dalla collettività a praticare le stesse modalità di inganno sugli altri membri del gruppo.

Quello che avviene quando una convinzione irrazionale viene condivisa è tipicamente l’emergere di un ‘leader carismatico’ che se ne fa portabandiera. Trattandosi di un processo irrazionale, risulta arduo sia convalidarlo che confutarlo. Se sono convinto che i miei insuccessi dipendano da una causa immateriale, non è possibile né accertare né contestare questa affermazione. Ma se ho realmente necessità di crederlo, sarò disposto a ricompensare, con beni o con il credito di autorità, chiunque mi supporti in tale convinzione.

La forma più semplice di questa attività la possiamo osservare nelle società umane organizzate per piccoli gruppi e tribù. In queste collettività, di norma, a curare le attività legate alla sfera dell’irrazionale, la cosiddetta ‘spiritualità’, è una figura sciamanica. Lo sciamano è ritenuto dalla tribù un individuo meno legato degli altri alla realtà fisica, capace quindi di dialogare con un mondo immateriale dal quale trarre indicazioni sulla condotta da tenere e sulle scelte da operare collettivamente.

All’interno di un processo di inganno vengono formulate e formalizzate descrizioni (razionalizzazioni) di processi di causa/effetto implicanti enti immaginari, che pertanto prendono la forma di ‘verità di fede’, dal momento che non è possibile produrre una dimostrazione della loro effettiva sussistenza. Tali razionalizzazioni svolgono funzioni motivazionali, e possono essere sfruttate per modificare e manipolare i comportamenti di gruppi e collettività.

I ‘saperi’ acquisiti vengono tramandati, di generazione in generazione, solitamente in forma orale, da uno sciamano al suo discepolo, che ne prenderà il posto come guida spirituale della comunità. Questo è, nella sua forma prototipale, ciò che ho definito come ‘Processo di Inganno’. Va fatto notare come il termine ‘inganno’ non sottintenda una volontà di approfittare degli altri membri della comunità, perché finalizzato al benessere della collettività stessa. Il processo, tuttavia, presta il fianco a possibili abusi.

Col crescere delle dimensioni della collettività le cose si fanno più complicate, perché i gruppi sociali si moltiplicano e diversificano, pur continuando a coesistere, aggregandosi per affinità. Ogni attività pratica evolve dal singolo individuo in un gruppo di esperti, portatori di competenze condivise e specifiche. In una collettività estesa tendono a svilupparsi gilde e corporazioni, gli artigiani da una parte, i guerrieri da un’altra, gli allevatori da un’altra ancora.

Necessariamente le attività legate ai ‘Processi di Inganno’ evolvono di conseguenza, dando vita a vere e proprie caste sacerdotali, cui è delegato lo svolgimento dei rituali, l’approfondimento e la continuazione del culto (n.b.: l’utilizzo del termine ‘caste sacerdotali’ potrebbe essere interpretato da un punto di vista strettamente religioso, mentre va inteso nel senso più ampio di organizzazioni di individui con competenze specializzate in ambiti irrazionali).

Lo sviluppo culturale di individui e collettività procede infatti su due binari paralleli. Da un lato attraverso lo sviluppo di competenze legate alla conoscenza del mondo reale ed alla sua manipolazione, quelle che potremmo definire ‘Culture della sfera Razionale’. Dall’altro mediante l’elaborazione dei sistemi di idee necessari a gestire gli aspetti emozionali, ivi inclusi i processi motivazionali, che potremmo etichettare ‘Culture della sfera Irrazionale’.

L’esigenza di questo doppio binario appare evidente se si osservano le azioni di singoli e collettività. Le competenze pratiche possono guidare la realizzazione di un qualsiasi lavoro manuale, ma la decisione se effettuare o meno tale lavoro, o quando iniziare, non sempre si può desumere da un’analisi razionale (a monte di tutto, la necessità stessa del nostro esistere non può essere fatta discendere da un’analisi razionale, ma unicamente da una Volontà egoistica).

Se la Realtà non ha alcuna necessità di noi, l’unico possibile motore delle nostre scelte è la decisione individuale di esistere, la già menzionata Volontà, motore irrazionale che apre ad un ventaglio di opzioni tra le quali selezionare la modalità di esistenza più congrua con la nostra sfera emotiva, i nostri saperi e le nostre capacità.

È da questo ventaglio di possibilità che emergono le ‘Culture Motivazionali’, ovvero i sistemi di idee in grado di aiutarci a selezionare e scegliere le modalità più adatte per svolgere le azioni quotidiane ed organizzare la nostra sfera sociale. Le stesse Culture Motivazionali che, sulla scala dei gruppi sociali, finiscono col definire l’identità, l’indole, le scelte e l’agire di interi popoli.

Un sistema di idee è necessario per stabilire se si debba o meno abbattere un albero, o costruire una casa, se lavorare o riposarsi, se operare di concerto con altri o, al contrario, ostacolare le intenzioni altrui. Un sistema di idee risulta indispensabile a gestire gli aspetti motivazionali dell’esistenza, per se stessi irrazionali e non derivabili dall’osservazione della realtà. Il termine che definisce un tale sistema di idee è Ideologia.

A puro titolo di esempio, il giorno di riposo settimanale non discende da nessuna legge naturale, ma è il portato dello sviluppo di agricoltura ed allevamento, che hanno prodotto una sufficiente abbondanza di cibo e sicurezza da consentirci di disporre, periodicamente, di una giornata non lavorativa. E si è convenuto un giorno ogni sette perché sette giorni sono, con buona approssimazione, un quarto dell’orbita lunare, ovvero uno dei principali ‘orologi’ dell’antichità. Questa prassi è stata quindi formalizzata, presso popoli diversi ed in modalità diverse, all’interno di un ‘pacchetto di credenze’, che ne ha resa permanente l’adozione. E il giorno di riposo dal lavoro viene in genere dedicato ad attività legate alla sfera dell’irrazionale, religiose e/o ricreative, ottenendo di rafforzare convinzioni e motivazioni.

L’inserimento di intermediari all’interno delle dinamiche individuali e sociali introduce un termine di ulteriore arbitrio, e consente all’intermediario di ottenere forme di ricompensa. A titolo di esempio: se i membri di una tribù sono convinti che l’arrivo della pioggia discenda dalla volontà di un non meglio definito ‘Grande Spirito’, l’intermediazione di uno sciamano viene considerata risolutiva nel momento in cui la pioggia si verifica. Il conforto psichico offerto da tale convinzione consiste nell’eliminare la preoccupazione che la pioggia possa non venire mai più.

Il ruolo di sciamano si carica dell’importanza conferita alla risoluzione del problema, e l’intera tribù si offre di provvedere alle necessità dell’individuo che ricopre tale incarico. Il meccanismo di auto-inganno individuale (credere nella pioggia mandata dal Grande Spirito) trova un rinforzo nella figura dello sciamano, innescando un Processo di Inganno all’interno del quale il vantaggio ottenuto dal ‘mediatore’ è tale da alimentare l’inganno indipendentemente dalla convinzione del mediatore stesso.

Il rischio di una tale deriva etica appare intrinseco al processo stesso: le pulsioni irrazionali alimentano la produzione di ricchezza e benessere oltre le immediate necessità; gli individui più inclini alle modalità di inganno hanno facilità ad inserirsi all’interno di questa dinamica e le capacità manipolatorie consentono loro di assurgere a posizioni chiave, finendo col trovare vantaggio ad alimentare il processo stesso indipendentemente dalle proprie stesse convinzioni (che pure possono evolvere nel tempo).

Con la definizione di Processo di Inganno si intende perciò un sistema stabile di inganno socialmente formalizzato, all’interno del quale un singolo o un gruppo di individui operano ad alimentare convinzioni infondate ed a fornire spinte motivazionali in cambio di un ritorno economico, ottenendo di contribuire al benessere diffuso e finendo con l’assurgere a posizioni di vertice nell’organizzazione sociale.

Per eccellere nella gestione dei Processi di Inganno è necessario un approccio quantomeno elastico a ciò che potremmo definire come Realtà Fattuale, in altri termini disporre della capacità di auto-ingannarsi con facilità. Questa capacità di auto-inganno può svilupparsi al punto da far perdere del tutto il contatto con la realtà, fino a sostituire ad essa le proprie fantasie e ad interpretare ciò che accade in forme totalmente distorte.

Ciò può condurre ad azioni orribili basate non necessariamente sulla crudeltà, bensì sul convincimento della loro necessità ai fini di un ‘Bene Superiore’, una dinamica psichica ben nota e documentata. Il punto interessante è proprio relativo all’emergere di queste personalità devianti ed al loro assurgere a posizioni di leadership, in larga parte determinato dal successo e dall’efficacia dei ‘Processi di Inganno’ al cui interno si trovano ad agire.

Un esempio su tutti è l’ascesa del Nazismo in Germania. Gli ideologi nazisti furono in grado di generare una bolla di irrazionalità collettiva di proporzioni inusitate, all’interno della quale azioni assolutamente riprovevoli trovavano giustificazione. Parallelamente la compartimentazione della società fece si che larga parte della popolazione venisse tenuta all’oscuro dei fatti reali (per il suo bene, ovviamente…) col risultato di trascinare la Germania in un processo di pulizia etnica insensato e l’intera Europa in una guerra fratricida e devastante.

In estrema sintesi, gli esseri umani hanno la possibilità di determinare le proprie azioni, ma per farlo necessitano di un sistema di idee. Una possibile opzione è rappresentata dal fare il minimo necessario e vivere alla giornata. Questa scelta determina una ridotta disponibilità di surplus di risorse da investire per mettere in moto altri processi.

In alternativa, se un mediatore ti convince a lavorare di più, con argomentazioni necessariamente irrazionali, il surplus di ricchezza prodotto potrà essere investito per alimentare il Processo di Inganno, che potrà così protrarsi nel tempo e coinvolgere altri soggetti.

Col crescere della popolazione coinvolta e l’aumento della complessità delle società umane osserviamo l’ascesa dei Processi di Inganno ed il loro strutturarsi in ‘Ideologie’, una dinamica che approfondiremo nei prossimi post.

(Continua)

3 – Dai Bias cognitivi ai Bias Culturali

(prosegue la serie di approfondimenti dei punti sinteticamente elencati nel post intitolato: “Sui processi di Inganno”)

La socializzazione dei meccanismi di inganno amplifica la Volontà individuale e la traduce in Volontà collettiva
Una Volontà socialmente amplificata è in grado di generare (estrarre) Ricchezza per gli esseri umani a spese della biosfera

Estendendo alla sfera sociale le considerazioni fin qui sviluppate, osserviamo come i Bias Cognitivi individuali trovino un rinforzo se condivisi con altri membri del proprio gruppo. Una convinzione irrazionale, se collettivamente condivisa, risulta consolidata nella sua funzione di sostituirsi ad una realtà oggettiva.

Dalla condivisione dei Bias Cognitivi e dalla loro elaborazione collettiva si sviluppano narrazioni utili a cementare le relazioni sociali, costrutti culturali che tendono a propagarsi alle generazioni successive. Nella loro forma più semplice si tratta di gesti apotropaici, o propiziatori, di convinzioni condivise da piccoli gruppi sul momento migliore per effettuare specifiche operazioni, come la semina.

Col tempo queste convinzioni si consolidano dando luogo a quelli che ho definito, in mancanza di termini preesistenti, Bias Culturali. I Bias culturali si propagano attraverso ‘meme’ e forme proverbiali, e lentamente si accumulano nella cultura condivisa, in genere rafforzandosi a vicenda sulla base delle rispettive affinità.

A titolo di esempio, un Bias Cognitivo classico riguarda la convinzione che la ‘fortuna’, ovvero l’esito positivo desiderato di un determinato processo, possa essere influenzata da gesti propiziatori. La forma che assumono questi gesti propiziatori varia da cultura a cultura, ed è il prototipo dell’idea di Bias Culturale.

In alcune culture si tratta di indossare (o evitare di indossare) determinati indumenti o colori, effettuare gesti rituali (dal minimalista gettare il sale dietro la schiena, su su fino ai sacrifici di animali, o esseri umani), o recitare formule scaramantiche, più o meno accompagnate da gesti specifici.

Esempi di Bias Culturali appaiono in ogni cultura umana conosciuta. Si va dall’ossessione dei popoli preistorici per la fertilità e la morte, culminati nella cultura dell’antico Egitto, con tutto il suo corollario di riti propiziatori, tecniche di imbalsamazione e monumenti funebri, ai sacrifici umani nelle civiltà mesoamericane, alla celebrazione megalitica degli antenati sul più remoto ed isolato fazzoletto di terra del pianeta, l’isola di Pasqua.

Nessuna di queste convinzioni può essere giudicata, a posteriori, utile o efficace rispetto alle esigenze pratiche: benessere, sopravvivenza e riproduzione, ma tutte hanno in comune una funzione di collante sociale, incarnando i desideri e le aspettative dei diversi popoli e fornendo loro una spinta propulsiva, in mancanza della quale si registra una stagnazione sociale.

Il principio che se ne può dedurre è che, laddove ci si trovi di fronte all’assenza di evidenze fattuali, o all’impossibilità di applicare un ‘principio di causa-effetto’, si apre lo spazio per l’emergere di tesi e supposizioni infondate.

In assenza di una specifica metodologia di validazione oggettiva della realtà, il cosiddetto ‘Metodo Scientifico’ (peraltro sviluppatosi ed affermatosi solo in epoche relativamente recenti), tendiamo ad integrare la porzione di realtà mancante con una narrazione di fantasia, che viene quindi socialmente condivisa.

Un costrutto culturale irrazionale come quelli fin qui descritti svolge sia una funzione tranquillizzante (dalla consapevolezza del valore del sapere discende la paura di non sapere abbastanza) che una spinta motivazionale, derivante dal rimuovere i freni inibitori innescati dalla consapevolezza delle conseguenze di quanto si intende fare.

Il vantaggio di ciò, in termini sociali, è evidente: i tempi decisionali vengono abbreviati, si fa quello che si è deciso di fare senza troppe analisi e discussioni. Questo sistema presta il fianco a decisioni arbitrarie, non di rado errate. Ma a giudicare l’efficacia del processo sono i risultati finali, non le ipotesi di partenza, ed il giudizio può variare a seconda del momento storico in cui viene emesso.

Possiamo pensare che una società analitica e riflessiva sia migliore di una frenetica ed impulsiva, perché in grado di attingere alle risorse ambientali in maniera più graduale, consentendo alle specie predate il tempo di ristabilire l’equilibrio. Tuttavia, in Natura, in presenza di abbondanti risorse, è in genere la specie più energivora ad avere il sopravvento perché, saccheggiando con maggiore efficacia, priva le altre di quanto necessario al sostentamento.

Anche in termini di Civiltà, quelle con un approccio più aggressivo riescono in genere a sottomettere e cancellare le civiltà più fragili, indipendentemente dal fatto che questo ottenga solo di posticipare un collasso inevitabile. Quando una cultura pacifica e rispettosa del proprio ecosistema ne incontra una predatrice, è solo l’esito finale a sancire la validità dell’approccio scelto.

L’esempio più evidente è probabilmente quello dell’invasione del Nord America da parte dei popoli del ‘Vecchio Mondo’. Da un lato troviamo culture sostanzialmente stabili ed in equilibrio con le risorse disponibili (per una civiltà dell’età della pietra), dall’altro popoli con alle spalle secoli di aggressività e conflitti, che hanno spinto uno sviluppo tecnologico accelerato, generando al contempo sovrappopolazione ed esaurimento delle risorse.

Potremmo apprezzare le civiltà del Nord America per il raggiungimento (faticoso) di un equilibrio stabile con l’ambiente naturale, se non fosse che il ristagno culturale e scientifico ha finito col rendere quelle culture inermi di fronte all’aggressione di popolazioni più conflittuali, arroganti, aggressive e tecnologicamente evolute, decretandone la quasi scomparsa.

Come già detto, i processi biologici, ivi inclusa l’ascesa di specie invasive come quella di cui facciamo parte, non rispondono ad esigenze etiche e/o morali: si sviluppano e basta. Quello che è premiante nel breve termine può risultare letale su una dimensione temporale più estesa, ma il saperlo o meno difficilmente riesce ad influenzare processi che si sviluppano in tempi più lunghi dell’arco vitale dei singoli individui.

Convinzioni irrazionali portano a condotte irrazionali, che tuttavia sono spesso premianti sul medio termine… il che, ragionando di civiltà, può ben coprire un arco temporale di secoli. La storia umana è costellata di esempi di civiltà che hanno sviluppato un approccio tecnologicamente aggressivo, hanno dato vita ad imperi e sono quindi scomparse con l’esaurirsi anzitempo delle risorse predate (un portato dello sfruttamento eccessivo consentito dai processi tecnologici innovativi).

Nel successivo approfondimento vedremo come i Bias Culturali finiscono col generare ‘Processi di Inganno’ che, in ultima analisi, trovano formalizzazione nei costrutti culturali che definiamo col termine ‘Ideologie’.

(Continua)

1 – Razionalità vs Volontà

(comincia la serie di approfondimenti dei punti elencati sinteticamente nel post precedente, intitolato ‘Sui processi di Inganno’)

Le azioni umane sono il prodotto di una Volontà
La Volontà è, per forza di cose, irrazionale
La Razionalità è uno strumento cognitivo al servizio della Volontà

Per far luce su questi due punti occorre risalire alle origini dei processi vitali, intesi come sviluppo di forme biochimiche complesse in grado di autoreplicarsi..

I processi vitali non emergono da una ‘necessità’, si sviluppano unicamente a partire da potenzialità. Date le necessarie condizioni di contorno, implicanti la possibilità di alimentare a tempo indeterminato una chimica organica complessa, è sufficiente la comparsa di molecole auto-replicanti a dare l’avvio ai processi evolutivi.

Da quel punto in poi i comportamenti utili alla sopravvivenza ed alla riproduzione diventano oggetto di auto-selezione: chi ne dispone si riproduce, chi ne è privo, o carente, si estingue, senza alcuna necessità di operare decisioni razionali.

Col passare del tempo i processi vitali tendono spontaneamente ad un aumento della complessità che coinvolge sia le dinamiche di cooperazione che quelle di competizione. In quest’ottica forme di vita più semplici entrano in sinergia per dar vita ad esseri più articolati, come gli organismi unicellulari, i quali, a loro volta, evolvono in organismi multicellulari.

Nella competizione che si sviluppa spontaneamente per la sopravvivenza, la possibilità di esercitare scelte può rappresentare un vantaggio. Per questo motivo osserviamo che gli esseri più complessi sviluppano organi di senso ed una rete di cellule nervose che fa capo ad un cervello, la cui funzione è decidere quali comportamenti mettere in atto.

Cervelli molto semplici, come quelli degli insetti, possiedono solo un ventaglio ristretto di opzioni geneticamente programmate. Cervelli più complessi, come quelli di mammiferi ed uccelli, possiedono una plasticità che li rende in grado di imparare dall’esperienza e dalla trasmissione di informazioni, modellando comportamenti molto più complessi ed efficaci.

La sfera cognitiva, tuttavia, si sviluppa all’esterno delle aree del cervello, più antiche, che coinvolgono le funzioni emotive. Il motivo di ciò è evidente: la razionalità può tornare utile a dirimere situazioni complesse, ma sono le nostre emozioni, la sfera irrazionale, a farci desiderare di sopravvivere e riprodurci.

Senza il desiderio di vivere non c’è sopravvivenza, senza il desiderio sessuale non c’è riproduzione della specie. La razionalità, di fronte a questi ‘imperativi biologici’, è ricondotta alla sua funzione di strumento: utile alla sopravvivenza, ma sottomessa ad altre priorità, necessariamente irrazionali.

L’irrazionalità della Volontà appare evidente dall’egoismo di fondo che regola i processi biologici: si uccide per vivere, si tolgono spazi e risorse ad altri esseri per riservarne di più a se stessi. Questo avviene a monte di tutto, prima dell’evoluzione di organismi complessi, prima dell’emergere degli esseri unicellulari: la molecola organica in grado di cannibalizzare un’altra molecola organica e fare una copia di se stessa già attua, inconsapevolmente, questa modalità relazionale.

Ho usato il termine egoismo, ma è un uso improprio. Solo esseri evoluti, capaci di operare scelte consapevoli, possono descrivere i propri comportamenti in termini di ‘egoismo’. Per organismi più semplici è solo l’unica maniera di continuare ad esistere e non estinguersi. Approfittare delle opportunità è una sorta di ‘dettato universale dei processi biologici’.

In questo scenario, in tempi recenti, appare la Razionalità, che potremmo descrivere come ‘la capacità di prevedere l’esito di diverse azioni potenziali’. I processi razionali consistono nel ricondurre quanto sperimentabile attraverso i sensi ad una concatenazione di fenomeni di causa-effetto, generando un’architettura logica in grado di rendere anticipabili le conseguenze di determinate azioni e situazioni.

La Razionalità è ciò che ha consentito lo sviluppo scientifico ed il raggiungimento di un livello di ‘benessere’ impensabile per le generazioni precedenti, finendo con l’assurgere a specificità unica e peculiare dell’essere umano e a dar vita a nuove mitologie ed ideologie.

Di fatto, però, l’esistenza di un singolo individuo, o di una specie, o dell’intero ambito dei processi viventi non può essere ricondotto ad alcunché di razionale. Ogni tentativo di far ciò è un esercizio puramente ideologico. La vita emerge, dove può, da una potenzialità, non da una necessità e men che meno da una scelta, perlomeno stando a quello che possiamo verificare e validare coi nostri strumenti e coi nostri sensi per mezzo del processo denominato ‘metodo scientifico’ (per quanto anch’esso una ideologia).

Stando a ciò, la decisione se vivere o morire, o quella se riprodursi o meno, o quella di attuare un qualsiasi comportamento o nessuno, non può essere desunta da analisi razionali. A muoverci, a spingerci a vivere, è unicamente l’ambito emozionale: un nucleo di pulsioni ereditate geneticamente che domina l’ambito decisionale e tutte le nostre scelte.

Una volta deciso che vogliamo vivere, la razionalità può aiutarci a scegliere come vivere. La razionalità funge pertanto da strumento per la volontà, consentendo di perseguire i risultati desiderati. Ma la volontà è una pulsione irrazionale, votata alla sopravvivenza ed ai comportamenti connessi. Una pulsione che trae origine e legittimazione dal suo stesso esistere.

(continua)

Sui Processi di Inganno

Qualche tempo fa ho realizzato che la specie umana sta, sostanzialmente, saccheggiando il pianeta per appagare i propri appetiti più disparati, lasciando dietro di sé solo distruzione e perdita di biodiversità. Questo atteggiamento totalmente irrazionale sta mettendo in crisi le nostre prospettive di sopravvivenza sul lungo termine. Da persona tendenzialmente razionale ho provato a ragionare sui meccanismi alla base di questo comportamento, per comprendere da quali cause discenda.

Quello che ho trovato ha messo in discussione molto di ciò che mi è stato insegnato ed inculcato. Questa analisi rappresenta una estrema sintesi delle conclusioni cui sono giunto. Il presente post può essere considerato alla stregua di un indice degli argomenti, che mi riservo di sviluppare nei post successivi. (edit: il lavoro è stato completato)

  • Le azioni umane sono il prodotto di una Volontà
  • La Volontà è, per forza di cose, irrazionale
  • La Razionalità è uno strumento cognitivo al servizio della Volontà [1]
  • La Volontà può scegliere di applicare la Razionalità, oppure di ingannarsi
  • La Volontà inganna se stessa producendo razionalizzazioni e finendo col crederci
  • L’esercizio di Volontà è inscindibile da meccanismi di auto-inganno [2]
  • La socializzazione dei meccanismi di inganno amplifica la Volontà individuale e la traduce in Volontà collettiva
  • Una Volontà socialmente amplificata è in grado di generare (estrarre) Ricchezza per gli esseri umani a spese della biosfera [3]
  • Singoli meccanismi di auto-inganno si integrano per dar vita a Processi di Inganno capaci di amplificare le Volontà individuali e collettive [4]
  • I Processi di Inganno si formalizzano in Ideologie finalizzate a massimizzare il saccheggio delle risorse ecosistemiche a vantaggio delle collettività che vi si identifichino [5]
  • L’incremento del Benessere alimenta l’emergere di nuove classi sociali specificamente occupate ad inculcare le ideologie e coltivare i Processi di Inganno collettivi [6]
  • Le classi sociali responsabili della gestione dei Sistemi Ideologici drenano la maggior quantità possibile di Ricchezza collettiva a proprio vantaggio, utilizzando i Processi di Inganno a fini di Controllo Sociale [7]
  • I Processi di Inganno e le Ideologie prendono il controllo della Società spingendo alla massimizzazione della produzione di Ricchezza attraverso l’accelerazione del saccheggio ecosistemico
  • Essendo i Processi Ideologici fondamentalmente irrazionali, non sono in grado di tener conto della Realtà Fattuale, producendo l’esaurimento delle risorse disponibili nel più breve tempo possibile [8]

Quanto sopra può ritenersi valido per la maggior parte delle civiltà umane del passato, al netto di innovazioni nella produzione di Ricchezza che hanno consentito, dal momento della loro comparsa, di estendere la durata delle civiltà più recenti.

(di seguito trovate elencati i post successivi, dove il ragionamento viene pienamente sviluppato)


[1] Razionalità vs Volontà

[2] Evoluzione dei Bias cognitivi

[3] Dai Bias cognitivi ai Bias Culturali

[4] I Processi di Inganno

[5] Ideologie e Bisogni

[6] Evoluzione dei Processi di Inganno

[7] Comunicazione e Controllo Sociale

[8] Esaurimento delle risorse