(prosieguo di una riflessione iniziata qui)
Il capitolo precedente si chiudeva evocando la necessità di ridurre la popolazione umana mondiale. Questo è probabilmente il punto più cruciale di tutti, e per certi versi anche il più difficile da applicare. Il motivo, banale, è che un intervento di questo tipo va contro la nostra natura di esseri viventi. O meglio, contro la natura degli esseri viventi nel loro complesso.
Gli esempi di popolazioni umane che abbiano praticato un controllo demografico non mancano, in particolare tra le popolazioni adattate a vivere in piccole isole con risorse limitate. I metodi adottati per tale gestione, tuttavia, rientrano nel novero di quelli che la nostra cultura etichetterebbe come disumani e lesivi delle libertà individuali.
Generalizzando si può affermare che l’unica forzante in grado di condurre a politiche di contenimento e stabilizzazione delle popolazioni sia la limitatezza delle risorse disponibili. Limitatezza che funziona anche in assenza di tali politiche, provvedendo da sé a ridurre la percentuale di popolazione in eccesso attraverso la morte per fame. Le popolazioni delle aree isolate vissute nei secoli scorsi conoscevano bene questo tipo di problema.
Quello che sta accadendo adesso, tuttavia, è qualcosa di mai visto prima nella storia dell’umanità, quantomeno su scala così vasta. La movimentazione globale di merci e derrate alimentari ha raggiunto volumi tali da slegare completamente le popolazioni residenti sui territori dalla necessità di una produzione alimentare di prossimità. Non c’è più correlazione, su scala globale, tra i luoghi dove il cibo viene prodotto e quelli dove viene consumato.
Ciò ha condotto da un lato alla crescita esponenziale delle megalopoli ed all’inurbazione di gran parte della popolazione mondiale, dall’altro all’aggressione sconsiderata agli habitat naturali fin qui preservati. Quest’ultima aiutata dalla distanza, fisica ed emotiva, tra esecutori (i grandi latifondisti agricoli) e mandanti (i consumatori).
Allo stato attuale, i tentativi di preservare gli habitat naturali ancora intatti appaiono inefficaci e fallimentari. Di conseguenza, la ‘forzante’ rappresentata dal limite delle risorse disponibili avrà modo di intervenire solo quando ogni habitat naturale sarà stato spogliato dalla propria biodiversità e convertito alla produzione di cibo. Una prospettiva decisamente raccapricciante.
La produzione di cibo dipende tuttavia da diversi fattori, non unicamente dalla quantità di suolo destinata alle coltivazioni. Per esempio dipende dal ciclo dell’acqua che, come abbiamo visto, smette di funzionare efficacemente in seguito alla deforestazione di vaste aree. Questo fattore, tuttavia, non impedirà la distruzione dei residui habitat intatti, ma produrrà unicamente la progressiva desertificazione di una parte significativa delle attuali aree agricole.
L’efficienza delle coltivazioni agricole, e dei trasporti, dipende inoltre dall’investimento energetico, che di fatto assume varie forme. La più ovvia è quella legata alla movimentazione delle macchine agricole, che operano ancora, in larghissima misura, grazie a carburanti fossili. Quindi vanno considerati i fertilizzanti e la loro produzione (in gran parte ancora risorse fossili, miniere di fosforo in primis).
A seguire i ‘maledetti pesticidi’, che aumentano la resa per ettaro a prezzo della distruzione massiva di insetti e microorganismi del terreno, i quali che richiedono energia sia per la produzione che per l’applicazione alle colture. Poi c’è la componente infrastrutturale, dai sistemi irrigui alle diverse forme di trattamento pre e post produzione. In ultima istanza il trasporto ai consumatori finali.
Per far meglio comprendere quale problema comporti la sovrappopolazione del pianeta mi servirò di un grafico sviluppato nel 2015 da Paul Chefurka sulla base di dati FAO. Il grafico mostra la suddivisione della biomassa complessiva presente sul pianeta tenendo conto di tre fattori: fauna selvatica (wild, in viola), animali d’allevamento (domesticated, in azzurro), ed esseri umani (human, in rosso), prendendo a riferimento tre diverse epoche.
Nella preistoria (colonna a sinistra) esseri umani ed animali d’allevamento occupavano una dimensione molto piccola nel complesso delle forme viventi. Nel 1900 (colonna centrale) eravamo già i quattro quinti del totale, a spese dell’80% della fauna selvatica annientata nel frattempo. La colonna di destra, relativa al 2015, è impressionante perché il totale della biomassa, costante nei millenni precedenti, appare moltiplicato per sei volte. Come può essere successo?
Semplicemente l’effetto dell’impennata esponenziale generata dalla disponibilità e messa a regime di energia fossile derivante dal petrolio. Fino al 1900 (circa) l’umanità aveva avuto a disposizione la sola energia radiante proveniente dal sole, ed aveva dovuto fare i conti con quel limite. Con lo sfruttamento delle risorse petrolifere quel limite è saltato, e si è potuto produrre quantità via via crescenti di cibo per alimentare una popolazione anch’essa in crescita.
Tuttavia sappiamo bene che le risorse di petrolio non sono inesauribili (e nonostante ciò continuiamo a sprecarle per attività sostanzialmente inutili, come lo spostare tonnellate di ferro e gomma, le automobili, solo per muoverci individualmente da un posto all’altro). Cosa accadrà quando questa risorsa comincerà a declinare?
Il grafico ci da una risposta abbastanza tragica circa il livello di sostenibilità che il pianeta è in grado di supportare: anche rinunciando ad un’alimentazione basata sulla carne, e quindi azzerando la componente relativa agli animali d’allevamento, la popolazione attuale eccede largamente le capacità del pianeta.
Certo, abbiamo sviluppato varietà vegetali ad alta resa, ma nel frattempo dovremo fare i conti con suoli danneggiati ed impoveriti da decenni di agricoltura industriale ed inquinamento, a cui si aggiungeranno i problemi generati dal riscaldamento globale. Quale panorama possiamo allora aspettarci in un’epoca di ‘ritorni decrescenti’?
È altamente improbabile che un’economia basata unicamente su fonti rinnovabili possa continuare a garantire l’attuale livello di tecnologia e complessità. Pertanto, nel momento in cui la disponibilità energetica pro-capite comincerà a declinare, come primo effetto vedremo impennarsi i prezzi di ogni cosa, dalle materie prime ai prodotti finiti, cibo compreso.
È indubitabile che a quel punto le esigenze alimentari continueranno ad essere considerate una priorità, mentre molte delle attuali ‘commodities’ finiranno in secondo piano. Azzardare previsioni è sempre molto difficile, ma è verosimile che il meccanismo che ha prodotto l’inurbazione di milioni (se non miliardi) di individui finisca con l’incepparsi, ed il processo cominci ad invertirsi.
Possiamo facilmente immaginare un flusso massiccio di abitanti, che abbandoneranno città divenute invivibili perché inadeguate a funzionare senza una massiccia dissipazione energetica, riversarsi nelle campagne alla ricerca di cibo, o per provare a produrselo da sé. Possiamo anche immaginare l’escalation di conflitti che questo comporterà, nel momento in cui tutti comprenderanno che cibo per tutti non ce n’è.
Un’altra possibilità, già oggetto di studio, in grado di produrre un contenimento e finanche una riduzione della popolazione, è offerta dal calo diffuso della fertilità registrato nei paesi tecnologicamente avanzati. Esso appare determinato in parte dagli stili di vita (l’età a cui si decide di avere un figlio si sposta sempre più avanti), in parte dal vivere in ambienti insalubri ed inquinati, in parte all’assunzione massiccia di cibi chimicamente alterati da aromi artificiali, coloranti e conservanti, sui cui effetti di accumulo nei tessuti organici non esistono studi su larga scala.
Questo calo della fertilità, almeno nell’immediato, non sta interessando i paesi del ‘sud del mondo’, che stanno anzi andando incontro ad un boom demografico senza precedenti, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. Il risultato sono flussi migratori incessanti che, a partire dai paesi poveri, vanno a colmare i ‘vuoti’ prodotti dalla denatalità nelle nazioni più ricche.
Un recente esperimento di controllo demografico su larga scala è rappresentato dalla ‘politica del figlio unico’, in vigore nella Repubblica Popolare Cinese dalla fine degli anni ‘70 ai primi anni 2000, ed attualmente sostituita dalla possibilità di averne due per far fronte all’esponenziale crescita economica del paese.
Se da un lato un simile notevole risultato si è dimostrato possibile, dall’altro non possiamo non rilevare che solo un governo autoritario è stato in grado di imporre un provvedimento tanto impopolare ad una popolazione numerosissima e riluttante. È molto dubbio, tuttavia, che un intervento di tale portata possa essere condotto con successo all’interno di un regime democratico, come quello vigente nel nostro paese (ed in molti altri).
La pressione antropica causata sugli ecosistemi globali dalla sovrappopolazione è un problema ancora più drammatico del surriscaldamento globale, eppure, probabilmente per un tabù culturale, nessuno ne vuole parlare.
Nella prospettiva più ottimistica, finiremo col cancellare dal pianeta la maggior parte delle specie viventi, dando luogo alla famosa sesta estinzione di massa (anche se qualcuno trova inesatto il termine estinzione, e trova più corretto ‘sterminio’). I nostri discendenti finiranno a vivere in un incubo distopico alla Blade Runner, dove il lusso più sfrenato sarà rappresentato da un animale robotico, ché quelli in carne ed ossa non esisteranno più.
Nella prospettiva più pessimista, ci renderemo conto troppo tardi di aver generato un tale squilibrio nella catena alimentare globale da diventare del tutto incapaci di produrre ulteriore cibo (p.e. avendo causato inavvertitamente l’estinzione di massa di specie di insetti, o lombrichi, fondamentali per la sopravvivenza delle piante di cui ci nutriamo), e finiremo con l’estinguerci lasciando il pianeta in eredità a qualche forma di invertebrati, come i ragni, o a microrganismi ancora più piccoli.
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Mi piace quando scrivi “nella prospettiva più ottimistica” 🙂
Il ragionamento di fondo è ineccepibile, comunque non è tanto la popolazione che è aumentata, quanto il fatto che ogni singolo individuo umano di oggi incide in media (se ben ricordo) quanto 40 individui di un secolo fa.
Non siamo passati quindi da un miliardo a otto miliardi, ma da un miliardo a trecentoventi miliardi.
Diciamo non è ‘solo’, la popolazione che aumenta. Certo, il livello dei consumi è cresciuto a dismisura, ma non per tutti. Ci sono ancora popolazioni che vivono come un secolo fa, soprattutto in Africa. Trovo molto significativo questo servizio fotografico del Time su cosa si mangia nel mondo: https://time.com/8515/what-the-world-eats-hungry-planet/
Il confronto drammatico è fra la famiglia del Buthan, che spende l’equivalente di 5$ per far mangiare 13 persone, e quella danese che spende 730$ per nutrirne 5 (per non parlare del CIAD, dove vivono in sei con meno di 1,5$).
Faccio tesoro del tuo appunto, comunque.
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