(prosieguo di una riflessione iniziata qui)
Fin qui abbiamo usato il termine ‘sostenibilità’ senza scendere nel dettaglio, ora sarà il caso di farlo. ‘Sostenibilità’ deriva da ‘sostenere’, come, ad esempio, nell’idea di ‘sostenere un oggetto’. L’esempio ci rimanda ad un lavoro fatto per contrastare una naturale tendenza, ovvero quella dell’oggetto attratto verso il suolo dalla forza di gravità: maggiore il peso, più breve il periodo di sostenibilità.
Per le civiltà valgono considerazioni analoghe: maggiore è la pressione sull’ecosistema, più breve sarà l’arco temporale in cui la civiltà in oggetto potrà essere ‘sostenuta’ dai processi biologici naturali. La storia dell’umanità abbonda di esempi di civiltà insediatesi in habitat troppo esigui per alimentare il livello di consumi da esse imposto all’ecosistema. Il risultato è in genere consistito nel collasso o nella totale estinzione.
Un esempio, già trattato in passato, è quello delle colonie vichinghe in Groenlandia. Il tentativo di riprodurre, in terre più povere di risorse, uno stile di vita sperimentato come funzionale nel Nord Europa ha condotto alla scomparsa delle popolazioni ivi insediatesi. Un altro esempio è quello dell’Isola di Pasqua, dove una migrazione da parte dei polinesiani intorno all’anno mille produsse un’aggressione massiccia alla fauna ed alla flora indigene, portando il delicato ecosistema ad un depauperamento irreversibile nel volgere di pochi secoli.
Oggi sappiamo che la colpa del collasso di Rapa Nui non fu interamente delle popolazioni polinesiane, che avevano finito col trovare un delicato equilibrio con le risorse dell’isola. Il ‘colpo di grazia’ definitivo fu dato dalla scoperta dell’isola da parte degli occidentali, che vi portarono, involontariamente, malattie e specie alloctone (roditori). Tuttavia la presenza dei roditori non avrebbe potuto portare, da sola, al collasso di un habitat in buona salute. La responsabilità dei polinesiani rimane nell’aver causato, mediante l’abbattimento sistematico delle palme giganti di cui l’isola era ricca, una estrema fragilità dell’ecosistema insulare.
Quindi, al di là delle buone intenzioni espresse nel precedente capitolo, relative ad una riduzione volontaria degli esasperati consumi attuali, ciò che realmente determina il carattere di sostenibilità di una civiltà è, in ultima istanza, la capacità dell’ecosistema di alimentare il livello di consumi desiderato a tempo indefinito, ed a quale prezzo ciò può essere ottenuto.
Al di là del consumo di suolo e dell’inquinamento, problemi gravi ma evidenti e percepibili, quello che ai più sfugge è il drammatico crollo della biodiversità prodotto dall’azione umana negli ultimi millenni. Per biodiversità si intende da un lato la varietà di specie viventi che insistono in un territorio, dall’altro la numerosità delle specie stesse in termini di individui.
La salute di un ecosistema dipende dall’equilibrio tra esigenze diverse: la coesistenza di specie diverse di piante, di erbivori, di frugivori, di insetti, di batteri nel suolo, la competizione tra prede e predatori, e dai movimenti, transumanze e migrazioni delle specie che popolano un territorio. All’interno di questa ricchezza si producono le risorse per far fronte alle trasformazioni ambientali, dai periodi più caldi alle ere glaciali, attraverso una varietà genetica che accelera i percorsi evolutivi di adattamento.
In questo processo l’opera dell’uomo è devastante. Foreste ricche di biodiversità vengono abbattute per far spazio a monocolture ad alta ‘produttività’. Specie selvatiche vengono con indifferenza portate all’estinzione mentre si preservano solo una manciata delle varietà ritenute adatte all’allevamento ed al consumo umano, animali trasformati in modo da soddisfare le esigenze produttive e consumistiche, non più in grado di sopravvivere allo stato selvatico. La pesca ‘industriale’ trasformata in un sistematico saccheggio e depauperamento della fauna ittica globale.
Il fattore drammatico, ancora non metabolizzato dall’opinione pubblica, è che una specie non si estingue quando muore l’ultimo esemplare: se la popolazione si riduce al di sotto della soglia in grado di garantire una sufficiente diversità genetica, la specie è già condannata. Recentemente i koala sono stati dichiarati specie ‘funzionalmente estinta’, a fronte di una popolazione residua di 80.000 unità.
Un discorso analogo vale per gli habitat sui quali le specie insistono. Le riserve che vengono approntate per preservare la biodiversità dalla distruzione totale hanno spesso dimensioni insufficienti a garantire l’effettiva sopravvivenza delle specie che vivono al loro interno, essendo in grado unicamente di prorogare, per un breve arco temporale, la sopravvivenza di una manciata di individui.
A questo proposito occorre citare un esempio che a mio parere chiarisce bene la natura del problema. Anni fa un team di entomologi stava studiando un particolare moscerino della foresta amazzonica, un insetto microscopico del peso di pochi milligrammi. Lo studio analizzava la capacità dell’insetto di sopravvivere alla deforestazione, ovvero la sua adattabilità a porzioni ridotte di foresta. Quello che si evidenziò fu la totale scomparsa della specie da porzioni di foresta di dimensioni inferiori ad un chilometro quadrato.
Ora, se la capacità di riprodursi di un insetto dipende dalla disponibilità di un chilometro quadrato di foresta vergine, di quanto spazio hanno bisogno specie più grandi? Ne stiamo lasciando abbastanza? La risposta è no. Gli habitat naturali si stanno riducendo a velocità crescenti per lasciare spazio a pascoli per il bestiame e coltivazioni di palma da olio. La previsione è che, in assenza di interventi drastici, gli habitat intatti saranno totalmente scomparsi nell’arco di pochi decenni, assieme alla gran parte della biodiversità globale.
Quindi la sola riduzione dei consumi individuali, già teorizzata nel precedente post, non è strategia sufficiente a garantire la salute degli ecosistemi terrestri. Al pari degli sfortunati abitanti dell’Isola di Pasqua stiamo alacremente distruggendo i meccanismi biologici fondamentali che garantiscono la salute del pianeta, creando quelle stesse condizioni di fragilità che causeranno un prevedibile futuro collasso. Stavolta non al livello di una singola isola, bensì globale. Sarà necessario incidere molto più a fondo per realizzare la riduzione della pressione antropica sugli ecosistemi, in ultima istanza individuando la maniera di ridurre la popolazione umana mondiale.
D’altro canto la lungimiranza non è mai stata la caratteristica principale della nostra specie, così come non lo è per qualunque specie vivente. La natura premia, nell’immediato, l’individuo, la popolazione e la specie in grado di razziare la maggior quantità di risorse, riservando al lungo periodo l’opera di ristabilire un equilibrio. Che può anche comprendere la totale scomparsa della specie ‘eccessivamente aggressiva’, non solo un suo ridimensionamento.
Venendo al nostro caso, siamo i predatori più efficaci del pianeta, surclassando di diversi ordini di grandezza qualsiasi altro predatore apicale. Il nostro successo riproduttivo, relativo agli ultimi millenni, non ha eguali nella storia del pianeta. Prevedibilmente, la nostra caduta sarà altrettanto repentina.

(elaborazione dell’autore, a partire da un originale trovato qui)
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Ho letto tutti 6 i post che compongono il megapost. Complimenti. Post bellissimo.
Gianni Tiziano
Ho ancora altro da aggiungere, ma ultimamente non trovo il tempo.
Peccato, perché un’idea su cosa potremmo fare seriamente ce l’ho, e a quanto ne so non è ancora venuta a nessuno…
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