(prosieguo di una riflessione iniziata qui)
Prima di approfondire le questioni relative alla Rivoluzione Industriale dobbiamo però aver chiaro perché il successo senza precedenti della nostra specie rappresenti un problema. Di fatto abbiamo ottenuto quanto desideravamo: cibo a sazietà, agi e comodità, la sconfitta di numerose malattie che affliggevano la nostra specie dalla notte dei tempi, oltre a conquiste strabilianti dal punto di vista tecnologico… cosa c’è di male in tutto questo? Per comprenderlo dovremo fare un passo indietro, comprendere come funziona la biosfera ed il suo principale motore: la catena alimentare.
La catena alimentare non è altro che il meccanismo in grado di riciclare la materia organica. La Vita si nutre di sé stessa, ed ogni individuo che nasce e cresce finisce prima o poi per diventare il nutrimento di qualche altra creatura. I vegetali vengono mangiati dagli erbivori, che a loro volta sono predati dai carnivori, che finiscono vittime di altri carnivori o muoiono finendo decomposti dai vermi, in un processo che mira al riutilizzo di tutta la materia organica disponibile, ed all’occupazione di ogni possibile ‘nicchia ecologica’.
Gli organismi autotrofi (le piante) sono anche in grado di costruire materia organica a partire dal carbonio presente nell’aria (sotto forma di CO2) e di materia inorganica, avendo a disposizione la giusta quantità di acqua e di luce solare. Dove è in grado di svilupparsi vegetazione non tardano a comparire erbivori e carnivori.
Perché il processo funzioni è però necessario instaurare un equilibrio, affinché la predazione non sia eccessiva e non conduca all’estinzione la specie predata. In genere questo equilibrio si trova da sé: ad un aumento della popolazione nella specie predata (per esempio a causa di una trasformazione climatica favorevole) corrisponde un aumento dei predatori, il cui numero cresce finché la popolazione predata non si riduce al di sotto della soglia di sostentamento dei predatori.
Cosa accade quando questo equilibrio non riesce ad instaurarsi ce lo racconta la vicenda di un branco di bovini abbandonati su un’isola disabitata del Pacifico all’epoca dei grandi viaggi di esplorazione oceanica. Pochi capi di mucche e vitelli vennero abbandonati su un’isola ricca di erba. Al successivo passaggio della nave, diversi anni dopo, in assenza di predatori e con abbondante cibo a disposizione i bovini si erano moltiplicati, ed assommavano ad alcune decine.
Al terzo passaggio, trascorsi altri anni, i bovini erano ormai oltre un centinaio ed avevano colonizzato ogni angolo dell’isola. Al quarto passaggio, tuttavia, i marinai non trovarono traccia di bovini vivi: l’isola era coperta di ossa e non si vedeva più nemmeno un filo d’erba. La proliferazione di un predatore ‘alieno’ troppo massiccio ed efficiente per il microscopico habitat insulare aveva condotto all’esaurimento delle risorse ed, in ultima istanza, all’estinzione del predatore stesso.
Purtroppo non sono riuscito a rintracciare la fonte di questo racconto, ma ho trovato un articolo in rete che racconta dell’abitudine settecentesca di lasciare capre sulle isole oceaniche per fornire cibo ad eventuali naufraghi. L’articolo racconta anche i danni ambientali prodotti dalle capre, e di come si siano dovuti investire fondi ingenti per eradicarle nuovamente in modo da preservare i delicati equilibri ecologici di habitat unici.
Il punto è che, come spiega bene Charles Darwin, l’evoluzione viaggia a velocità diverse e su scale diverse nelle masse continentali rispetto alle piccole isole. Un grande continente ha spazi e risorse molto maggiori, tali da consentire il processo di ‘gigantismo’ che ha dato vita ai dinosauri prima, ed all’attuale macrofauna mammifera poi: gli erbivori crescono di dimensioni come difesa rispetto ai carnivori, che a loro volta devono seguire un percorso analogo per risultare predatori efficaci.
Tutto questo è in relazione alle risorse disponibili ed agli spazi. I casi di gigantismo nelle piccole isole sono relativamente rari: le tartarughe giganti delle isole Galapagos, i Draghi di Komodo e le palme giganti, ora estinte, dell’isola di Pasqua, per quello che riesco a rammentare su due piedi.
Nelle isole avviene anzi un processo inverso, in cui animali originariamente di grandi dimensioni rimpiccioliscono per adattarsi ad habitat meno ricchi di quelli dove si erano precedentemente sviluppati. È il caso degli elefanti nani del Mediterraneo, ridotti, dalla necessità di adattarsi ad ecosistemi meno ricchi rispetto a quelli originari, ad un’altezza di poco superiore al metro.
L’atipicità della nostra specie consiste nell’aver ideato strumenti che ci hanno consentito da un lato di raggiungere l’apice della catena alimentare, dall’altro di diversificare il nutrimento aggredendo più nicchie ecologiche simultaneamente. Mentre ogni specie animale ha un ventaglio di risorse alimentari limitato alle specie di cui si nutre, la nostra ha fatto in modo di metabolizzare non solo più varietà (siamo onnivori, possiamo nutrirci di carne, vegetali, frutta) ma, attraverso il fuoco, l’allevamento e l’agricoltura, di convertire in forme alimentari anche ciò che originariamente non era per noi commestibile.
Quindi, fin dall’antichità, siamo una specie inconsapevolmente votata all’obiettivo di divorare l’intero pianeta, eliminando selettivamente le forme di vita non commestibili per lasciare spazio solo a quelle edibili. Tornando alla chiusura del precedente post: cosa poteva andare peggio? Semplicemente che trovassimo il modo di trasformare in nutrimento anche la materia inerte. Cosa avvenuta, su larga scala, con la Rivoluzione Industriale.
Pingback: La questione ambientale – prima parte | Mammifero Bipede
Pingback: Culture, evoluzione e catastrofi | Mammifero Bipede