Nel precedente post ho scritto: “la coesistenza di mobilità umana e veicolare negli stessi spazi è una forzatura”. Per comprendere appieno le implicazioni di questa affermazione andranno aggiunti ulteriori ragionamenti. Sappiamo che gli esseri umani imparano a muoversi durante l’infanzia. In quella fase impariamo anche a condurre veicoli privi di motore (in genere biciclette), ma è soltanto nell’età adulta (o pre-adulta, con i ciclomotori e le recenti mini-car) che impariamo a condurre veicoli a motore.
La conduzione di veicoli a motore, oltre alle tipicità del veicolo stesso (modalità di guida, ingombri, controllo degli altri veicoli che impegnano la sede stradale…), necessita dell’acquisizione di un complesso insieme di regole relative al traffico urbano definite nel Codice della Strada, relative a segnaletica orizzontale e verticale, limiti di velocità, sensi unici, diritti di precedenza, modalità di comunicazione con i conducenti degli altri veicoli ed altro ancora.
Un insieme di regole artificiali estremamente complesso, in larga parte dissimile rispetto ai movimenti naturali del nostro corpo, che richiede uno studio specifico ed il superamento di un esame di guida. Un insieme di regole che necessita di una notevole concentrazione per essere correttamente applicato, e che forza le nostre innate abitudini al punto da trasformarci, temporaneamente, in creature del tutto diverse. Incapaci, in casi estremi, di riconoscere i propri simili.
Ho spesso citato la frase del filosofo Theodor Adorno: “quale chauffeur non sarebbe indotto, dalla forza stessa del suo motore, a filare a rischio e pericolo delle formiche della strada, passanti, bambini e ciclisti?” (Minima Moralia, 1951). Ora sono in grado di fare un passo avanti rispetto a quell’idea: non è solo la potenza del motore a produrre una forma di distacco dalla realtà, il condizionamento mentale richiesto dalla guida dei veicoli riveste un’importanza probabilmente maggiore.
Il nostro cervello di mammiferi è strutturato in modo da percepire il corpo nella sua integrità, il senso del tatto è esteso all’intera epidermide, ogni singolo pelo è dotato di una terminazione nervosa, siamo in grado di stabilire, anche ad occhi chiusi, la posizione di ogni singolo punto del nostro corpo nello spazio.
Quando entriamo in un’automobile, quando indossiamo un esoscheletro, tutto questo viene improvvisamente a mancare, e dobbiamo sopperirvi in maniere indirette, innaturali ed inevitabilmente faticose. Dobbiamo prestare attenzione agli ingombri del veicolo senza poterne percepire istintivamente le dimensioni, farlo muovere azionando leve, pulsanti, volanti e pedali, in maniere totalmente innaturali, e nel contempo prestare attenzione alle regole del traffico, a quello che succede intorno, a dove stiamo andando (non di rado luoghi non conosciuti).
La conduzione di autoveicoli induce un carico di stress molto superiore a quello di altre modalità di spostamento, come l’andare a piedi o viaggiare grazie al trasporto pubblico. Un carico di stress che genera, come inevitabile corollario, aggressività. Il conducente di autoveicoli è un individuo stressato, deprivato della propria ‘animalità’, che tende a percepire il mondo che lo circonda come ostile.
L’automobilista non tollera che alla propria sofferenza ne venga aggiunta dell’altra. Malsopporta le infrazioni altrui a quel Codice della Strada che si autoimpone di rispettare nonostante lo viva come vessatorio e complicato. Ne pretende pari rispetto da parte degli altri utenti della rete viaria. Fantastica, tra sé (e ciò è ben testimoniato nei prodotti dell’industria dell’intrattenimento), la trasgressione alle regole che lo imbrigliano.
Ciclisti e pedoni, dal canto loro, subiscono doppiamente le vessazioni del Codice della Strada: in primis perché tenuti a rispettarlo,ma soprattutto perché non rappresenta le loro esigenze bensì quelle di un differente gruppo sociale: i conducenti di autoveicoli. In un mondo privo di automobili, popolato solo da pedoni e ciclisti, il Codice della Strada non ha semplicemente necessità di esistere.
Gli stessi ciclisti e pedoni sperimentano da anni, in una progressione drammatica, l’espropriazione di spazi. Spazi destinati al transito prima, ed alla sosta inoperosa poi, di un numero crescente di veicoli a motore. Osservano da decenni le città riempirsi di autovetture stabilmente in sosta, dato il serrato ricambio, su spazi formalmente pubblici di cui non possono più usufruire. Dal mancato riconoscimento di esigenze e diritti nasce l’insofferenza verso regole arbitrariamente imposte.
Le regole disfunzionali inducono necessariamente il conflitto. In questo caso conflitto tra utenze diverse interessate agli stessi spazi pubblici, che si riflette in un tasso di incidentalità stradale tra i più elevati a livello europeo. Per questo sono ormai necessarie la riorganizzazione, ed il conseguente ridisegno, degli spazi pubblici, lavoro che in diverse città è iniziato anni addietro e da allora procede con speditezza.
L’obiettivo è realizzare città funzionali alle esigenze di chi le abita, in cui gli spazi aperti alla circolazione di automezzi dovranno necessariamente essere distinti da quelli destinati alla fruizione pedonale, e questi ultimi non sacrificati al numero ormai insostenibile di autoveicoli privati, ed alle relative necessità di mobilità e di parcheggio.
Dovremo iniziare a progettare spazi non residuali per la mobilità pedonale, luoghi dove poter esercitare le funzioni indispensabili alla vita di relazione: socialità, movimento fisico, incontro, scambio. Dovremo imparare a differenziare l’organizzazione della rete viaria urbana in funzione delle esigenze di gruppi diversi di cittadini, anziché privilegiare unicamente il transito di mezzi a motore, come è stato fin qui.
Un compito arduo che va affrontato partendo dai corretti presupposti. In caso contrario finiremo col produrre spazi urbani mal ragionati, disfunzionali e facile preda di abbandono e degrado. Luoghi ‘sbagliati’ di cui si trova abbondante evidenza nella maggior parte delle periferie romane.
Stante la situazione corrente, il “dovremmo” è fantascienza. Anche e sopratutto perché viviamo in una realtà fondata su menzogne e paradossi.
Dovremo, non dovremmo.
Se poi si farà, non lo so… non sempre da queste parti si fa quel che si deve.
Ma il dovere rimane.
Ma che “dovremo”.
Se io esco di casa osservo il contrario del “dovremo”, osservo l’estendersi e il decadere delle periferie metropolitane concepite come ghetti di catapecchie fatiscenti affacciate su strade perennemente trafficate e parcheggi. Periferie che quando non possono più estendersi in larghezza e in altezza, si scavano sottoterra. Sopra queste catapecchie torreggiano i grattacieli delle “basi spaziali” concepite apposta per marcare la separazione tra i “mutanti” straccioni che stanno fuori e le super-elite che stanno dentro.
Secondo te il “meticciato” che si augura il signor Scalfari, con queste parole:
“… fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato”, popolerà le periferie stile Blade Runner del futuro oppure la tua “utopia” del “dovremo”? Secondo te l’Uomo Unico con la “ricchezza media” andrà in bicicletta o appena potrà si comprerà la “automobilina media” per andare a fare la “spesa media” al “centro commerciale medio” come fanno tutti adesso?
E non venirmi a fare il solito racconto apocalittico “anti-borghese” per cui finirà il petrolio e torneremo al cavallo, finiranno i gamberoni del pacifico e mangeremo legumi coltivati in Piazza Duomo. Sono cavolate che sento raccontare a partire dagli anni Settanta e fanno parte dello stesso “filone” di cavolate che ha generato il signor Scalfari. Paradossi e menzogne.
Credo che andrà molto peggio di così. Finirà il petrolio e con esso l’agricoltura industriale, ma prima di poter “coltivare i legumi in Piazza Duomo” dovremo fronteggiare ondate migratorie ciclopiche, quindi guerre, portate avanti con ogni arma disponibile, dalle testate nucleari alle pietre. Smetteremo di produrre cibo perché il sistematico saccheggio lo renderà antieconomico, quindi ci faremo a pezzi e finiremo col mangiarci l’un l’altro. Anche ridotti ad una frazione del numero iniziale continueremo a saccheggiare l’ecosistema completando l’estinzione di massa delle specie viventi che abbiamo iniziato nel paleolitico, in ciò aiutati dal riscaldamento globale e dall’acidificazione degli oceani. Quindi, ammesso di non estinguerci del tutto, ci ridurremo in pochissimi a vivere di stenti. La cosa positiva è che, in assenza di risorse energetiche fossili, il ciclo industriale non potrà mai più ripetersi.
Siamo partiti dalle biciclette e siamo arrivati all’estinzione di massa. Scusami ma questo è uno dei motivi per cui non si riesce a combinare una fava in concreto.
Invece ti dico io cosa succederà, non solo il petrolio non si esaurirà entro qualche secolo, che è molto più della lunghezza delle nostre vite ma nel frattempo la maggior parte degli utilizzi di petrolio e derivati saranno stati rimpiazzati con altre tecnologie, che faranno girare ancora più vorticosamente la ventola del consumo.
Tutto questo non avrà nessuna conseguenza sugli “spazi abitati” che continueranno con la attuale tendenza verso la completa alienazione. Non solo perché si applica il lavaggio del cervello e la gente ha dei riflessi condizionati come tu mi dimostri con la “estinzione di massa” che ti evita di fare qualsiasi cosa in concreto (vai a dire allo “assessore medio” che deve fare una pista ciclabile altrimenti estinzione di massa) ma perché l’essere umano si adatta benissimo a contesti apparentemente estremi come i ratti. Se si stringe il tubo della fogna il ratto non soffre più di tanto.
Grazie per avere ulteriormente contribuito a confermare che non c’è niente da fare.
Caro Nostradamus, penso che cancellerò del tutto questa inutile conversazione. Grazie comunque per le perle di saggezza. A buon rendere.
Le matte risate. Nostradamus sarei io se ti dico che non cambierà un cavolo e non saresti tu che di fronte alle periferie metropolitane annunci l’inevitabile estinzione di massa stile “profezia maya” o film del genere “catastrofista” (non a caso esiste il genere, cioè la ripetizione di stereotipi).
Cancella, rimuovi.
Ti ho delineato uno scenario plausibile in base a quello che si sa del pianeta, di come si sia formato ed evoluto. Se poi vuoi credere che il petrolio non finirà mai, accomodati. Gli antichi romani pensavano lo stesso degli schiavi e gli abitanti dell’isola di Pasqua delle palme giganti. In realtà il petrolio non “finirà” in senso stretto, finirà la convenienza ad estrarlo perché il conto energetico diventa meno vantaggioso di anno in anno. Un secolo fa bastava fare un buco per terra e calare un secchio, oggi dobbiamo trivellare a chilometri di profondità sui fondali oceanici. E’ un concetto che ho già spiegato più volte (qui nel 2010) e non mi va di tornarci su.
Ragazzi, secondo me non ha senso dibattere sull’esaurimento o meno del petrolio.
Comunque vada, l’essere umano non rinuncerà alle “comodità” attuali tanto facilmente e il petrolio potrà essere sostituito da altre fonti energetiche.
Il vero problema è lo stile di vita ultra consumistico e sprecone degli abitanti più ricchi di questo pianeta. Quelli più poveri prendono noialtri come modello, perciò non saranno di certo loro a salvare la società umana (o il pianeta, se preferite).
Servirebbe un netto cambiamento di mentalità, e tale cambiamento dovrebbe provenire dalle nazioni più ricche. Sostituite pure il petrolio con l’energia elettrica, e le automobili a scoppio con quelle a batteria, ma anche così cambierà poco. Al posto del petrolio serviranno migliaia di tonnellate di litio, cadmio ecc, e si continuerà a devastare il pianeta, inquinandolo in lungo e in largo, per procurarsi le risorse necessarie.
Il problemi sono due:
1) sovrappopolazione,
2) mentalità consumistica.
La verità è che 8 miliardi di persone non possono vivere tutte quante nel benessere materiale concepito all’occidentale. Bisogna rivedere il concetto di benessere, pensare un po’ di più all’umanità nel suo complesso e un po’ meno alla propria ristretta cerchia sociale. Iniziare a domandarsi se vogliamo arrivare a popolare il pianeta finché non avremo più spazio per muoverci, oppure iniziare a far diminuire la popolazione mondiale attraverso un controllo delle nascite e cercare di far stare bene quelli che già esistono anziché pensare a chi verrà dopo.
Io trovo stupido e criminale pensare a chi verrà dopo di noi, mi sembra un modo per de-responsabilizzarci e scaricare sul futuro le colpe del presente.
Noi viviamo qui ed ora, iniziamo subito a vivere in modo più sano e pacifico.