La mobilità umana

Quando, due anni fa, il collettivo #salvaiciclisti-roma decise di diventare associazione, sentii la necessità di far accompagnare tale nascita dalla stesura di un manifesto. Potrà sembrare una pratica ottocentesca, ma nella mia testa doveva esistere, necessariamente, un patto fondativo, una proposta d’intenti che rappresentasse, in maniera indiscutibile, quello che la nascente associazione si votava a realizzare, impegnando al tempo stesso i propri iscritti. Dopo lunghe riflessioni, discussioni, scambi di idee e contributi nacque il Manifesto per una Mobilità Umana.

Perché “umana” e non ciclabile? (o leggera, o sostenibile) …si chiesero in molti. All’epoca non lo avevo ancora ben chiaro nemmeno io. Mi piaceva l’idea di distinguere le forme di mobilità organiche da quelle meccanizzate. Una suggestione, più che un’analisi razionale. Oggi quell’idea ha assunto una forma definita.

Mi trovavo, stamattina, all’ennesimo convegno sulla mobilità ciclabile, stavolta organizzato dall’AIIT, l’associazione italiana degli ingegneri dl traffico. Un convegno, va detto, dove ho cominciato a percepire quanto le idee portate avanti per anni stiano finalmente facendo breccia negli apparati tecnocratici fin qui riluttanti a qualunque cambiamento. Nella relazione introduttiva il rappresentante degli ‘ingegneri’ ha manifestato una sua perplessità relativa ai comportamenti dei ciclisti.

In sostanza lamentava, discorso non nuovo, il mancato rispetto delle regole del Codice della Strada: l’uso dei marciapiedi, la percorrenza contromano di alcune vie, l’attraversamento col rosso ed altro ancora. Comportamenti ‘anarchici’ analoghi a quelli rinfacciati ai pedoni. Ho preso un appunto e pazientemente atteso, per l’intera durata dei lavori, che qualcuno chiarisse la questione. Inutilmente. Nel mentre mi preparavo ad intervenire, elaboravo le mie idee in un discorso che comprendesse la visione del mio interlocutore.

Di norma questo è l’approccio che ho con chi non condivide le mie posizioni: vado a ritroso fino al punto in cui le due visioni divergono, e cerco di comprendere esattamente quale sia tale punto. In questo caso non sono dovuto andare troppo lontano: i comportamenti definiti strani sono per me perfettamente normali, quindi la cosa realmente ‘strana’ è che a qualcuno possano non apparire tali. Dal che ho provato ad entrare nella sua logica, per trovare dove e come quei comportamenti fossero, nel corso dell’evoluzione del pensiero umano, divenuti strani.

La logica, evidentemente, è quella dettata dal Codice della Strada, corpus normativo del quale ho imparato a diffidare in tempi ormai lontani. Per il Codice della Strada le biciclette sono veicoli ‘come gli altri’: una forma di miopia istituzionale che contraddice in primo luogo il buonsenso. Il ciclista non è ‘un veicolo come gli altri’ semplicemente perché può fare cose che agli altri veicoli non sono consentite. Questo un ciclista lo sa perfettamente, mentre il Codice della Strada ottusamente lo ignora.

Un ciclista può fermarsi, scendere dalla bici e trasformarsi in pedone con bici a mano, in qualunque momento, laddove il conducente di un veicolo a motore ha necessità quantomeno di uno spazio di sosta. In qualità di ‘pedone con bici a mano’ può fare cose che agli altri veicoli sono impossibili: camminare sui marciapiedi, salire sui mezzi pubblici, entrare in giardini ed aree pedonalizzate, uscirne fuori e ridiventare ‘veicolo’.

In buona sostanza, ad eccezione del raggiungimento di velocità elevate, della corazzatura rispetto agli urti e dell’impermeabilizzazione agli agenti atmosferici, il ciclista ha potenzialità molto maggiori di un automobilista. Potenzialità che il Codice della Strada semplicemente non considera.

Di fatto i conducenti di autoveicoli soffrono di limitazioni che il Codice della Strada trasferisce acriticamente anche a soggetti, pedoni e ciclisti, che di tali limitazioni non partecipano, creando artificiosamente situazioni del tutto ingiustificabili. Il Codice della Strada impone a ciclisti e pedoni di conformarsi ai limiti propri degli automobilisti, limiti che discendono dalla forma dell’oggetto automobile e da null’altro.Ed è qui che torna in ballo l’idea di ‘mobilità umana’. Come si muovono gli umani? Semplice: basta guardare i bambini. I bambini sono esseri umani non strutturati, e fanno quello che faremmo noi se non ci avessero ficcato in testa norme e regole dettate unicamente dalle esigenze di far muovere dentro le città enormi scatoloni a ruote. I bambini corrono e saltano, giocano e ballano, non si preoccupano di guardare se sta arrivando un veicolo, camminano a zig-zag, ci ripensano e tornano indietro. I ciclisti vivono ancora, in parte, l’estrema libertà dei pedoni, perché possono ridiventare pedoni in pochi istanti, semplicemente scendendo dalla bici.

Quelli che non possono ridiventare facilmente pedoni sono gli auto-inscatolati, obbligati a percorsi definiti dalle carreggiate, intruppati in code determinate dalla dimensione stessa dei veicoli e dal loro numero, in perenne competizione per spazi di sosta ormai saturi, frustrati dal non poter esprimere potenza e velocità dei veicoli che hanno acquistato con tanto sacrificio, se non per poche decine di metri tra un semaforo e l’altro.

Mentre esponevo questi concetti li illustravo coi miei movimenti. “Vedete, posso girare su me stesso e tornare indietro nella stessa direzione.. l’automobilista non può, ha bisogno di un’inversione di marcia. Posso fermarmi al semaforo, scendere ed attraversare sulle strisce pedonali… l’automobilista non può. La coesistenza di mobilità umana e veicolare negli stessi spazi è una forzatura.”

Il mio muovermi, come pedone e come ciclista, è un movimento umano, non consentito ai conducenti di veicoli. Questo ingenera, nell’automobilista, una frustrazione non elaborata: la consapevolezza inconscia di essere prigioniero del proprio involucro di lamiera e plastica, limitato anziché ‘potenziato’. Una discrasia esasperata dalla comunicazione pubblicitaria, che fa di tutto per raccontare il contrario, affermando molto spesso il falso.

In prospettiva, è stata la mia conclusione, l’aumento del numero di ciclisti sulle strade finirà con una richiesta di spazi compatibili con una mobilità umana, e con l’esasperare l’ostilità progressivamente montante negli automobilisti. Una situazione che dovrà essere necessariamente gestita, proprio a causa della pericolosità intrinseca dei veicoli a motore… e dell’inaffidabilità delle reazioni umane.

8 pensieri su “La mobilità umana

  1. Inutile cercare una logica dove logica non c’è.
    Il mondo, inteso come lo spazio abitato dalle persone, non è concepito per il benessere di chi lo vive e la ragione fondamentale è che la gente è troppo condizionata per rendersi conto di quanto le cose siano sbagliate. Incidentalmente poco tempo fa ho partecipato alla presentazione di un progetto di “riqualificazione” del quartiere dove vivo. Ebbene, nessuno dei presenti capiva quali sono le “variabili” da considerare e perché. La maggior parte sono anziani che non escono di casa se non per salire in macchina per andare a fare le commissioni necessarie. Quindi gli interessa solo come circolano le macchine attorno casa e dove parcheggiare l’auto, stante il fatto che le case vecchie non hanno box. Quelli che non sono anziani escono la mattina con la macchina e tornano la sera, che sia giorno lavorativo o festivo. Questi vanno a piedi o in bicicletta solo sotto forma di “running” o di “mountain bike” nel parco, di certo non concepiscono l’idea di recarsi nel comune limitrofo a piedi o in bicicletta anche perché fisicamente è quasi impossibile, le aree intercomunali sono terra di nessuno di fabbriche e capannoni metà abbandonati e stradoni senza marciapiedi dove le auto vanno come in autostrada. Infine, la struttura dell’abitato sta eliminando tutti i luoghi dove ci si deve recare per una ragione qualsiasi per posizionarli proprio nella terra di nessuno tra i comuni, lungo i viali. Siano questi centri commerciali, uffici pubblici, ospedali o luoghi di lavoro. Il trasporto pubblico fallisce proprio perché andare in centro è inutile, si deve andare in periferia dove però le cose sono disseminate e rendono estremamente dispendioso spostarsi da un luogo all’altro, quindi automobile.

    • Il fenomeno che descrivi ha un nome: urban sprawl, ed almeno due ‘motori’. Il primo motore è economico (anche se sarebbe più corretto dire diseconomico): l’urgenza del sistema consumistico di farci bruciare più energia possibile il più in fretta possibile, per poter lucrare sugli avanzi. Dato che viviamo da decenni in questa bolla di ricchezza prodotta dai combustibili fossili, l’assurdità di ciò non ci è più percepibile. Il secondo motore è ormai sociale: l’automobile privata ha deformato lo spazio pubblico e le sue funzioni a propria immagine e somiglianza: più si va avanti, più l’uso ingestito di auto private crea domanda di mobilità per auto private. Più ci disabituiamo ad usare il trasporto pubblico, più questo declina in favore dell’automobile. Più usiamo l’automobile, più commercio e servizi si spostano in spazi a misura di automobile che finiscono con l’essere irraggiungibili con altri mezzi. A questo si aggiunge l’invecchiamento della popolazione, che rende ormai l’auto privata, per molti, l’unico possibile strumento di mobilità.
      La questione più tragica di tutte, a suo modo, è che questa situazione non è destinata a durare. I combustibili fossili si stanno esaurendo mentre la domanda dei paesi emergenti è in crescita. Questo comporterà, sul breve e medio periodo, un nuovo aumento dei prezzi dell’energia che comporterà una contrazione della ricchezza complessiva. A quel punto dovremo fare i conti con la nostra attuale miopia, e provare a riorganizzare un tessuto urbano e produttivo divenuto ingestibile.

      • La storia dei combustibili “fossili” me la raccontano da quando fui bambino.

  2. Pingback: Mobilità umana vs. mobilità meccanica | Mammifero Bipede

  3. Il problema della mobilità, che non esistono alternative valide all’auto, il trasporto pubblico urbano parlo di bus e metro ha fallito, tu giustamente rivendichi l’uso della bicicletta, ma purtroppo ci sono delle strade e parlo della capitale che non consentono il transito delle bici stesse e cè da dire che il percorso lavoro casa sono di gran lunga superiori ai 10/15 Km.
    Io personalmente non vedo soluzione.

    • C’è un problema che non vogliamo vedere: viviamo in un mondo finito. In un mondo finito l’energia fossile non è inesauribile, così pure le materie prime. Il livello di ricchezza pro-capite che ha prodotto la diffusione dell’automobile privata non è compatibile con l’aumento di popolazione e la prevedibile riduzione di ricchezza individuale determinata dal declino delle risorse fossili. Quando ciò avverrà diventerà chiaro quanto siano profondamente sbagliate le città che abbiamo edificato negli ultimi sessant’anni. Le distanze casa-lavoro sono l’effetto della motorizzazione di massa, non la causa.

  4. Io personalmente di Km in bicicletta ne farei anche cinquanta, però certo, se le strade fossero accessibil e sicura sarebbe melto meglio, purtroppo per andare in ufficio devo per forza prendere la tangenziale (olimpica), con la bici diventa alquanto complicato, per non parlare delle strade alternative ( lungotevere acqua acetosa, corso Francia e tor di quinto) e sopratutto la difficoltà per raggiungere la ciclabile di castel Giubileo io abito vicino a Porte di Roma.

  5. Pingback: cinque anni, siamo ancora qui | piombino in bici

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