“E poi, ogni tanto, la vita ti ricorda che la felicità ha un prezzo. La bellezza ha un prezzo. La libertà ha un prezzo. E quel prezzo, non di rado, sono in pochi a pagarlo, per tutti.”
Ieri sera ci siamo recati a collocare l’ennesima bici bianca (o “ghost bike”, come le chiamano oltreoceano), nel luogo dove un autobus ha preso la vita di Gianfilippo Milani, ciclista, classe 1962. Per me, un coetaneo che non ho mai conosciuto.
È stato in qualche modo straniante vedere Piazza del Popolo riempita da centinaia di persone in bici, vive, colorate, leggere, a loro modo festanti in quella maniera insopprimibile che ti dà il fare qualcosa che ti piace davvero, come lo spostarsi in bicicletta.
Ci siamo quindi mossi, discretamente, in direzione del luogo della tragedia, mentre una quantità di pensieri e di idee mi si rimescolavano in testa mentre mi guardavo intorno nel tentativo di comprendere realmente cosa fosse successo nel corso degli anni.
Mi sono domandato come avrebbe reagito un me stesso poco più che ventenne nel vedere il fiume di biciclette spostarsi con sicurezza attraverso le strade di Roma, arginando il traffico veicolare, riprendendosi gli spazi quotidianamente negati.
Se ripenso a quegli anni, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, rivedo una città dove le biciclette sono completamente assenti, e solo pochi ciclisti sportivi, o giovani entusiasti, o matti, trovano la forza e l’incoscienza di pedalare sulle strade. Una città che ha rimosso integralmente dall’inconscio collettivo l’idea che la bicicletta sia, semplicemente, un mezzo di trasporto. E di libertà.
Ci vorrà più di un decennio, ancora, prima che una manciata di ragazzi autodefinitisi “critical mass” provi a ribaltare questa percezione distorta, riappropriandosi di saperi dimenticati, e combattendo quotidianamente per salvare i propri sogni dal delirio asfissiante di lamiere in cui si erano, nel frattempo, lentamente tramutate le strade.
Ce ne vorranno venti e più perché la nascita di #Salvaiciclisti arrivi a segnare un passaggio fondamentale nella coscienza collettiva, facendo si che le migliaia di ciclisti dispersi riconoscano se stessi come un’entità dotata di diritti e capacità di rivendicarli. Una minoranza forte ed agguerrita, ma pur sempre minoranza.
Persone che oppongono la propria leggerezza e fragilità ai carapaci metallici in cui aggressività e frustrazione richiudono i nostri simili.
Persone che oppongono riflessione e lentezza alla velocità forsennata ed inutile dei mezzi a motore, proiezioni essi stessi, spesso, di un ego debole ed autodistruttivo.
Persone che cercano vie diverse alla devastazione narcisistica e consumista del mondo, che la società attuale ci propone come unico possibile paradigma.
Queste persone sono a rischio. Sanno di esserlo. Ed affrontano questo rischio quotidianamente con un coraggio ed una determinazione che lascia increduli. Il cambiamento del mondo passa per il sacrificio di sé, anche se questo può significare tutto o nulla, in un tessuto urbano trasformato in roulette russa.
Eppure sembrano non esserci alternative, a fronte dell’indifferenza ed inettitudine delle istituzioni, dell’ottusità e grettezza dell’uomo della strada, di un’organizzazione sociale strutturata per sfruttare e masticare i deboli a tutto vantaggio di pochi predatori apicali. Nessuna alternativa se non vivere, esistere, testimoniare.
Anni fa partecipai ad un incontro istituzionale sulla sicurezza stradale, nel corso del quale fu formulata una frase: “noi tutti siamo qui per ridurre il numero di incidenti, siamo d’accordo?” Mi resi conto quasi con stupore che non ero d’accordo. Io ero lì per cambiare quel modello di mobilità dalle fondamenta, non per fornirgli quei piccoli aggiustamenti che lo preservassero all’infinito.
La cosa più semplice per ridurre gli incidenti ai ciclisti sarebbe stata dir loro di smettere di andare in bici, sulle strade, in mezzo alle auto. Ma che vite sarebbero state poi? Uccelli dalle ali tarpate, privati dei sogni e della vitalità, inscatolati come tutti gli altri solo per diventare tristi e depressi.
I ciclisti e le cicliste che ho conosciuto in questo quarto di secolo, a decine, sono la parte migliore della società: persone libere, brillanti, entusiaste, con rarissime eccezioni. Sopravvissuti negli anni in un ambiente ostile si sono adattati, si sono moltiplicati. Da un punto di vista evoluzionistico rappresentano il salto di qualità del nostro aggregato sociale. Ma non siamo ancora abbastanza, anche se prima o poi lo saremo.
Riguardandomi indietro, fino all’inizio di questo fiume di anni lentamente percorso, vedo che il mondo è cambiato. Quel me stesso di un quarto di secolo fa sarebbe certamente d’accordo. Cambiato, sì, ma non abbastanza, e nel farlo ha impiegato un tempo troppo lungo. Vite intere sono trascorse nel frattempo. E il traguardo sembra ancora lontano.
condivido, solo segnalo che fra gli anni sessanta e novanta non ero né ciclista sportivo, né giovane entusiasta, né matto. Solo giovane normale, e usavo la bici tutti i giorni, a Roma come altrove. Negli ottanta avevo una bici così scassata che per almeno dieci anni l’ho parcheggiata ovunque senza catene e non me l’hanno mai rubata :). Ultimamente me ne hanno rubate cinque, legate. Buon segno, vuol dire che la domanda cresce.
Ragazzi!!!!! Roma non è per bici, lasciate che i romani affoghino nella stupidità, no cambieranno mai.
Caro Marco! Una bella frase finale, che lascia pensare a Brecht: “Le forze erano poche. Il traguardo / era molto lontano. / Era chiaramente visibile, benché per me / difficilissimo da raggiungere. / Cosí passava il tempo / che mi fu dato sulla terra.” (“An die Nachgeborenen” – Aglii discendenti) Sono sempre e soltanto i piccoli passi, cui effetti non si vede subito, che cambiano il mondo, e chi sa, nella notra prossima incarnazione … ciao saluti Manfred.
Stai alimentando la mia “Sindrome di Mosé” (guidare il popolo per quarant’anni fino alla Terra Santa per poi non entrarci…)
Per molti prima che una libertà è una necessità. O meglio la libertà -più o meno- di non dedicare metà del proprio magro stipendio ad un mezzo a motore comprato per andare al lavoro per comprarlo e mantenerlo.