La deriva etica delle società contemporanee

Eremo

Le peregrinazioni estive mi hanno portato, quest’estate, agli eremi della Majella e di conseguenza sulle orme di Pietro da Morrone, meglio noto come Celestino V, spesso collegato al verso dantesco: “…colui / che fece per viltade il gran rifiuto”.

Queste visite hanno quindi avviato una riflessione sull’importanza degli ordini monastici nell’Europa medioevale, sul senso delle religioni e delle fedi e sulla crisi di queste ultime nell’era moderna, col relativo corollario della perdita del senso etico nelle società attuali. È un ragionamento lungo che mi obbligherà inevitabilmente a tutta una serie di semplificazioni e generalizzazioni, ma credo valga la pena proporlo.

Per comprendere questo passaggio occorre fare un passo indietro, ovvero tornare ai “secoli bui” che seguirono il disfacimento dell’organizzazione imperiale romana dell’Europa e la sua trasformazione in un mondo feudale. Il mondo nuovo che emerge dal medioevo vede un continente politicamente diviso, ma culturalmente legato dalla comune fede cristiana.

Il motivo di ciò risiede nella necessità, ai fini religiosi, di conservare l’esattezza della parola divina, esigenza inestricabilmente legata alla scrittura ed alla capacità di comprenderla ed interpretarla. Non è un caso, quindi, se i principali centri culturali del primo medioevo furono le grandi abbazie, dove la padronanza della lingua scritta venne conservata e sacralizzata, e gli antichi testi scritti pazientemente copiati a mano.

Non è altresì un caso se parliamo di “ordini” religiosi, e di “regole” monastiche. In un mondo precipitato nel caos e nell’arbitrio una delle funzioni principali della fede consisté nel riportare ordine, ristabilendo delle regole. Funzione questa svolta, fin dall’antichità, proprio delle diverse religioni.

Da un punto di vista laico la funzione sociale delle fedi religiose è da sempre duplice: da un lato fornire una chiave interpretativa dell’Universo e degli eventi naturali, dall’altro provvedere una struttura di regole comportamentali tali da guidare gli appartenenti alla comunità a porre in atto forme di comportamento utili al benessere ed alla crescita della comunità stessa.

Per millenni il benessere o meno delle popolazioni si è retto su questi due pilastri: l’interpretazione degli eventi come espressione della volontà divina ed una serie di “comandamenti” per uniformarsi a tale volontà.

(letta in questa chiave non mi è difficile definirmi un “cristiano ateo”, dal momento che l’impianto etico del cristianesimo risulta perfettamente autocoerente, e sostanzialmente valido, anche in assenza della controparte teologica… che risultava tuttavia essenziale, come elemento motivazionale, per i popoli antichi)

Nelle epoche successive alla caduta dell’impero romano (che aveva provveduto sì un ordine e delle regole, ma a posteriori evidenteente inadeguate ed inefficaci a fronte del disastro che ne era seguito), la semplice necessità di conservare la “Parola” in forma scritta segnò l’avvento di una nuova élite intellettuale formata da sacerdoti, che più in là si tradusse in “ordini” e comunità monastiche, le quali svolsero la funzione di istruire e riorganizzare le popolazioni.

La distinzione tra uomini di chiesa e uomini di stato era, all’epoca, non così netta come nei secoli successivi. L’emergere di deviazioni rispetto al culto formalizzato (poi denominate eresie), condusse progressivamente la chiesa ad un processo di centralizzazione, col relativo inevitabile seguito caratterizzato da commistione col potere temporale, derive etiche e corruzione.

È in questo momento di transizione che si sviluppa la vicenda di Pietro da Morrone, monaco eremita in odore di santità, eletto papa imprevedibilmente in tarda età (per giochi di potere interni alla curia romana) col nome di Celestino V e “dimissionario” dopo pochi mesi di pontificato.

Pietro da Morrone giunse al soglio pontificio dopo una vita fortemente segnata dall’impronta monastica, anche per questo la sua formazione finì a tal punto col collidere con gli intrighi di potere del papato dell’epoca da indurlo ad abbandonare il pontificato ritirandosi nuovamente ad una vita di eremitaggio sulle montagne abruzzesi, per poi morire in prigionia ad opera del suo successore Bonifacio VIII.

Come per la vicenda di Francesco d’Assisi (che a suo modo vide contrapposte le istanze pauperistiche dei monaci rispetto all’opulenza ed al potere della corte papale) avviene qui un momento chiave nel passaggio di consegne tra le comunità monastiche, decentrate ed in larga misura autonome, ed il potere centralizzato del papato.

Quello che mi interessa sottolineare è che il dettato cristiano originario nasce per regolare singoli e piccole comunità, ma mal si applica alla dimensione degli stati nazionali. Pur basandosi sugli stessi testi e dettati, il passaggio che portò alla nascita del potere papale e della curia romana andava in direzione opposta alla via percorsa dagli ordini monastici, abituati ad una vita di ascetismo, frugalità e contatto diretto con le popolazioni.

Contraddizioni che condurranno allo scisma dei protestanti tedeschi, ed a seguire quello (dalle motivazioni più politiche) della chiesa anglicana, e che finirono con l’accumularsi in un processo di progressiva trasformazione della fede religiosa da ausilio all’organizzazione delle comunità a strumento di controllo politico delle popolazioni.

Il passaggio finale è probabilmente quello prodotto dalla nascita del pensiero scientifico e dai suoi successivi sviluppi. Delle due “gambe” su cui poggiava l’autorevolezza della religione cristiana, interpretazione del mondo e dettato etico, la scienza demolì la prima, descrivendo un Universo privo della necessità di interventi “divini”, senza tuttavia curarsi di fornire un adeguato supporto alla seconda. Il risultato fu che in assenza di un obbligo “divino” qualsiasi precedente elaborazione di natura etico-morale si ritrovò priva di fondamento.

Né, d’altro canto, l’elaborazione di un’etica universale può essere definita tra i compiti della scienza, il cui unico scopo è indagare con obiettività l’esistente. È questa una crisi di fondo da cui, a distanza di secoli, la nostra cultura non si è ancora ripresa: l’assenza di un chiaro ed inequivocabile dettato etico-morale, condiviso, cui tutti possano accedere ed aderire.

Il risultato è un “relativismo” etico del tutto analogo a quello religioso stigmatizzato da Joseph Ratzinger all’inizio del suo pontificato. Come laici, da un lato non si può che riconoscere l’arbitrarietà della scala dei valori prodotta dalla Chiesa nel corso dei secoli, a partire dal dettato “crescete e moltiplicatevi” ormai privo di senso in un mondo sovrappopolato, dall’altro, tuttavia, il pensiero scientifico non ha provveduto a produrne una versione aggiornata ai tempi moderni, e probabilmente non dispone degli strumenti né della motivazione a farlo.

Questo lascia noi contemporanei in una sorta di “vuoto etico”, un’assenza di indirizzi precisi e di chiarezza, che lascia ampio margine all’egoismo, alla nascita di filosofie e dottrine (politiche ed economiche) del tutto arbitrarie, ed alla crescita globale di disuguaglianze e conflittualità.

Un pensiero su “La deriva etica delle società contemporanee

  1. Caro Marco! Mi ricordo, anche Gregorovius, scienzato tedesco, aveva raccontato quest’episodio. Qualche volta mi sento come questo papa, uno straniero nel mondo, e questo sentimento è importante nel mio secondo romanzo uscito adesso in Germania. Tu sai che Gianni e Romano e te (ed altri) sono in questo libro, naturalmente sotto altri nomi, ma dobbiamo aspettare una traduzione. Il titolo è “Tod am Tiber” (morte al Tevere), ma non è un vero giallo, è una storia pazzesca, triste e anche religiosa … Tanti saluti Manfred.

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