Due tra i libri che mi hanno accompagnato nei mesi scorsi parlano, in un modo o nell’altro, delle recenti campagne militari per “l’esportazione della civiltà”. Il primo, in maniera più indiretta, è Jonathan Franzen, nel romanzo “Libertà”.
Franzen è attualmente uno fra i maggiori scrittori anglofoni, e il suo lavoro meriterebbe una trattazione esaustiva (che non ho tuttavia né il tempo né la voglia di fare: leggete i suoi libri… tanto sentirli raccontare da un blogger non gli aggiungerà nulla).
Coincidenza ha voluto che una delle sotto-trame della vicenda narrata implicasse il coinvolgimento nella pretesa “ricostruzione dell’Iraq”, operazione nella quale uno dei personaggi ritratti viene coinvolto da un faccendiere senza scrupoli ancor prima dell’inizio dell’invasione da parte delle forze USA.
La vicenda riecheggia, nello svolgersi, l’eco delle risate registrate in una famosissima intercettazione telefonica avvenuta la notte del terremoto de L’Aquila, quando imprenditori e faccendieri italiani brindarono alle prospettive di arricchimento che gli si stavano schiudendo davanti mentre gli aquilani morivano sotto le macerie, o vedevano le loro vite distrutte.
La questione morale, che pure Franzen solleva, rimane tuttavia, nello sviluppo della vicenda, relativamente marginale, come d’altro canto lo fu per l’intero popolo americano. E’ invece una delle colonne portanti della narrazione di Valerio Pellizzari, che nel saggio “In battaglia quando l’uva è matura” racconta i suoi quarant’anni di Afghanistan da reporter, con un occhio lucido, disincantato ed equidistante.
Allineando uno in fila all’altro una serie di episodi, vicende, storie personali, emerge un quadro agghiacciante di cosa rappresentino realmente le guerre moderne: un’occasione di business sfrenato e fuori controllo operato sulla pelle delle popolazioni dei teatri di guerra.
“Non aspettatevi di andar lì per vincere”, spiega un generale francese ai suoi soldati all’inizio della campagna militare, “le guerre moderne non hanno vincitori”. Servono, spiega Pellizzari, a far marciare l’industria bellica, a distruggere armi vecchie per fabbricarne di nuove, a testare nuovi sistemi d’arma e di controllo del territorio, a distribuire indietro denaro ai finanziatori dei politici che le promuovono.
Una enorme macchina economica in grado di macinare quantità enormi di dollari senza produrre nulla di utile o di fruibile, e di cui una cospicua parte va a sparire nelle tasche degli amici degli amici. Dall’altra parte, sangue, morti, terrore e devastazione per le popolazioni civili, su un arco temporale di anni.
Questo è quanto accaduto in Afghanistan e in Iraq. Ora i venti di guerra soffiano verso la Siria, e sappiamo già quale osceno teatrino di sangue, anche lì, andrà in scena…
Già! Nulla di nuovo in realtà. Anche in passato dietro le guerre c’era quasi sempre un interesse economico e quando c’era crisi, una soluzione era (ed è) la guerra, che riattiva e smuove il denaro, provocando distruzione e consentendo ricostruzione.