Parole, parole, parole…

Di diversi libri letti nei mesi scorsi non ho ancora scritto, dato che non ho trovato nulla di assolutamente fondamentale e/o imperdibile in essi al di là di una generica “distrazione”. Lo farò sicuramente più in là. Di quello che sto leggendo adesso sento, al contrario, l’esigenza di scrivere subito.

“Romanzi”, di Paul Auster, raccoglie tre lavori dello scrittore statunitense. Il primo, “Trilogia di New York”, è a sua volta composto da tre romanzi brevi, slegati tra loro ma uniti da un filo comune. Il secondo, “Nel paese delle ultime cose”, è invece un romanzo distopico della cui lettura sono a metà. Del terzo, “Moon Palace”, in attesa di leggerlo non so ancora nulla.

In tutti e tre i romanzi brevi della “Trilogia” Auster muove da una situazione di partenza ai confini del romanzo giallo per scivolare inesorabilmente sui temi del doppio, della malattia mentale, della compulsione ossessiva per la scrittura e per le parole, riuscendo ad essere affascinante e disturbante al tempo stesso.

I personaggi di Auster elaborano, nel procedere delle vicende, forme di ossessione per la parola scritta, utilizzata all’inizio per descrivere la realtà per giungere poi, progressivamente, a sostituirla. La parola scritta, quindi, come estremo rifugio dal mondo, baluardo nei confronti di verità spiacevoli come l’accettazione della propria follia.

Nell’immedesimarmi in questi protagonisti ho riletto, specularmente, la mia personale fissazione per le parole, vissuta attraverso l’incessante dialogo quotidiano che la rete consente. Diverso, ma in qualche misura analogo, è il continuo transitare da un forum all’altro, da un blog all’altro, in un flusso di informazione di tale portata da rompere spesso gli argini e lasciarci stremati, con una perenne sensazione di irresolutezza, di incompletezza.

Analogamente alla scrittura compulsiva su taccuini e quaderni dei personaggi che affollano la “Trilogia di New York” c’è la quotidiana scrittura compulsiva in rete di ognuno di noi, il nostro continuo relazionarci a persone in principio reali che, trasfigurate dallo strumento informatico, assumono via via col passare del tempo la consistenza di fantasmi.

La necessità di relazionamento interpersonale è una esigenza umana, ma quella veicolata dalle sole parole scritte non ne è che un pallido simulacro. Come conseguenza non ci nutre emotivamente a sufficienza e siamo obbligati ad assumerne dosi massicce, sfiorando ed a volte superando il confine dell’ossessione.

Così, lentamente, impercettibilmente, come nei romanzi di Auster, si opera lo scivolamento verso la sostituzione della realtà con le parole. Parole che diventano fiumi, che diventano muri, che diventano fortezze sconfinate, in grado di difenderci dal mondo ma dentro le quali perdiamo noi stessi.

Bizzarro trovarmi a fare queste considerazioni per iscritto, usando lo stesso mezzo che stigmatizzo. Questo significa che sono in parte consapevole dei rischi che corro, che forse corriamo un po’ tutti. Magari sto provando anch’io, nel mio piccolo, come Auster, a metterci in guardia, senza riuscire davvero a rinunciare ad uno strumento ormai plurimillenario che ha accompagnato l’uomo fin dall’inizio del suo cammino. La parola, appunto.

3 pensieri su “Parole, parole, parole…

  1. Di Auster ho letto solo “La trilogia”. Ne ho apprezzato la finezza stilistica… e il tema del doppio mi attira sempre… ma devo dire che letto il primo, sebbene non possa dire che non mi siano piaciuti gli altri 2 racconti non li ho trovati poi entusiasmanti…

  2. Il primo racconto mi ha ricordato “Baffi”, di Emmanuel Carrère, ragion per cui non mi ha particolarmente scioccato. Il secondo gli somiglia molto. Il terzo è un po’ diverso ma l’ossessione per la scrittura l’avevo già incontrata in Safran Foer (“Molto forte, incredibilmente vicino”), che pure è successivo.

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