Si discute parecchio ultimamente, in special modo in internet, del futuro del mondo del lavoro. La cosiddetta “crisi“, relegata dai nostri mass-media fra le notizie di costume, non mostra segni di inversione di tendenza: i consumi rallentano, le aziende licenziano e chiudono, gli scambi internazionali di merci e materie prime sono ai minimi storici, i mercati segnano il passo, il costo dell’energia da combustibili fossili, dopo un anno di calmierazione probabilmente artificiale, ha ripreso a salire.
Cosa sta succedendo? In sostanza siamo prossimi al “fondo del barile“, abbiamo estratto e consumato risorse non rinnovabili ad un ritmo forsennato per decenni ed è giunto il momento, per così dire, di “pagare il conto“. Il petrolio, per fare l’esempio più classico e forse più significativo, ha circa un secolo di vita. Si è iniziato ad estrarlo negli Stati Uniti, dove affiorava praticamente al livello del suolo, si è proseguito forando e trivellando qua e là per il pianeta, scoprendo giacimenti molto consistenti ma anch’essi non illimitati, ed ormai non se ne scopre più di nuovi da un bel po’. Tra gli ultimi importanti vi sono quelli “off shore” scoperti nel Mare del Nord, ormai praticamente esauriti.
E qui entra in gioco il lavoro di Hubbert sulla “teoria del picco” e successivamente quello del “Club di Roma” che nel ’72 pubblicava il “Rapporto sui limiti dello sviluppo“. In sostanza esiste una relazione matematica ben definita che lega il tasso di scoperta di nuovi giacimenti al picco di estrazione di una determinata risorsa. Ogni volta che una risorsa fossile trova un utilizzo acquista valore, e si inizia a cercarne nuove fonti di approvvigionamento. Dopo un po’ le principali vengono individuate, ma nel frattempo i metodi di ricerca migliorano ulteriormente, fino al punto in cui la gran parte dei “giacimenti ricchi” è scoperta, poi si ha il “declino“, nel senso che ne vengono trovati di nuovi ma “minori“, e via via se ne trovano sempre meno.
Questo non significa che nel momento in cui la scoperta di nuovi giacimenti declina si è già in crisi, perché si continua allegramente ad estrarre da quelli in attività, ma Hubbert individuò un nesso di causa-effetto tra il “picco della scoperta” e quello della “produzione“, predicendo che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto il “picco produttivo” per il petrolio a metà degli anni ’70. Questa predizione si è avverata, da allora la produzione USA è in declino, ma nel frattempo erano stati individuati nuovi giacimenti, situati in gran parte nella penisola araba, che hanno spinto la crescita dell’economia occidentale fino ai giorni nostri.
Cosa avviene quando si applica la teoria di Hubbert non già ad un singolo stato ma all’intero pianeta Terra? Le previsioni effettuate negli scorsi decenni datavano il raggiungimento del picco mondiale dell’estrazione di petrolio a cavallo della fine del presente decennio. Di fatto la crisi globale innescata dall’impennata dei prezzi di un anno fa ha prodotto una riduzione dei consumi, che si è riflessa in un calo nell’estrazione di petrolio. È difficile affermare se questa coincida o meno con il picco previsto da Hubbert, ma è molto verosimile che sia così. Allora perché nessuno ne parla?
La risposta a quest’ultima domanda è in realtà ovvia, nessuno ne parla perché sono temi scomodi, perché ci ritroviamo in una società in cui alla deresponsabilizzazione individuale fa da necessario contralto la deresponsabilizzazione collettiva. Dobbiamo constatare come il meccanismo di “delega democratica“, invece di innescare una crescita sociale e culturale, ha prodotto nel nostro paese un crescente allontanamento della popolazione dai processi decisionali, ed una perdita di consapevolezza e responsabilità rispetto alle conseguenze dirette ed indirette delle proprie azioni. In un’epoca di “vacche grasse” hanno avuto migliori opportunità di essere eletti i partiti e quegli esponenti politici che, come imbonitori da fiera, hanno raccontato agli elettori quello che questi ultimi volevano sentirsi raccontare: “va tutto a gonfie vele“, “non ci sono problemi“, “andrà sempre meglio“; pompando nella popolazione quei valori di superficialità e mercificazione funzionali ad un moderno sistema capitalistico.
Forte della sua ricchezza, l’occidente ha nel tempo maturato un’egemonia culturale sul resto del pianeta basata sull’ideologia del “libero mercato” e sul paradigma della “crescita” indefinita, un’idea di continuo cambiamento in meglio in cui tutti si ritrovano sempre più ricchi man mano che il tempo passa. Un’impalcatura ideologica che mostra crepe impressionanti già ad una prima analisi molto rudimentale, ma che essendo fondata sull’egoismo individuale ha trovato quasi sempre una generalizzata, entusiastica ed acritica, adesione.
Ad un primo approccio molto superficiale l’idea di “crescita indefinita” pare soddisfare le umane pulsioni più di qualunque altra filosofia “limitante”, ma basta ragionare appena un po’ più a fondo per evidenziarne il sostanziale inganno. Basta, ad esempio, rendersi conto che il territorio a disposizione è limitato. Consideriamo quanto è successo a livello abitativo dal dopoguerra ad oggi. Nel primo dopoguerra è iniziata la “ricostruzione” del paese, e tutti quelli che lo hanno desiderato e ne hanno avuto la possibilità si sono costruiti, o comprati, la casa. Negli anni successivi si sono costruiti, comprati o ristrutturati la seconda casa. Per raggiungere questa seconda casa si sono comprati tutti un’automobile, il risultato è stato che le città si sono riempite di automobili, diventando ben presto invivibili.
A questo punto si è cominciato ad abbandonare le città, preferendo vivere “fuori“, nei sobborghi, in villini monofamiliari connessi al tessuto urbano con strade e superstrade, di conseguenza il traffico su queste strade di adduzione è lievitato a livelli incompatibili con una decente qualità della vita, e si è finito col pagare il sogno della “casa nel verde” a prezzo di ore ed ore in coda per recarsi al lavoro. Tecnicamente si può affermare che siamo tutti “più ricchi“, dal momento che possediamo più case, più automobili, più strade, quello che non possediamo più è il nostro tempo, disperso tra un ingorgo e l’altro, dissipato lungo la via, dentro scatole a ruote. È evidente come sull’altare del soddisfacimento di miopi egoismi sia stato depauperato un patrimonio inestimabile di “ricchezza non quantificata” in termini di cementificazione delle campagne, perdita di ore di vita personale e relazionale, degrado paesaggistico ed urbano, abbattimento della qualità della vita. Aggiungete a questo una progressiva crescita della popolazione ed otterrete di dipingere un affresco folle in cui, in capo ad un secolo, l’intera penisola sarà ricoperta di abitazioni.
Quindi ci troviamo di fronte ad un modello economico strombazzato e propagandato per decenni che già del suo, se fosse realistico, ci condurrebbe progressivamente a situazioni di assoluta invivibilità, ma la cosa più interessante è proprio il fatto che “realistico” non è, poiché basato sull’idea, impraticabile, di una disponibilità futura di energia e materie prime a basso costo simile a quella che abbiamo vissuto da un secolo a questa parte. Hubbert, e più recentemente i fatti concreti, ci insegnano che le cose non stanno in questi termini.
Ho più volte definito la condizione attuale, quella in cui la maggior parte delle persone oggi viventi ha passato l’intera esistenza, come un’ubriacatura da petrolio: ora il petrolio ha imboccato la china discendente. Questo non significa che finirà domani o dopodomani, ma che se ne estrarrà sempre meno, e costerà sempre di più. Altre fonti energetiche, fossili e rinnovabili, non sembrano in grado ad oggi di prendere il suo posto per il loro basso rendimento effettivo. A parità di energia investita le altre risorse energetiche, fossili e rinnovabili, hanno un rendimento più basso, il che lascia sì un margine utile, ma incompatibile con l’attuale livello di consumi. Ad aggravare il quadro c’è il progressivo esaurimento delle materie prime.
L’analisi di Hubbert si applica a qualunque risorsa “fossile“, dai metalli per l’industria al fosforo per i fertilizzanti agricoli, con in più un fattore economico legato al mercato energetico. Anche a parità di facilità di estrazione e lavorazione produrre una tonnellata di ferro ha un costo energetico in termini di petrolio necessario per azionare i macchinari di estrazione e trattamento del minerale grezzo. Nel prossimo futuro ci troveremo di fronte all’azione combinata di minor ricchezza dei giacimenti e maggiori costi energetici di lavorazione, il che farà salire rapidamente il costo delle materie prime e dei semilavorati. Questa non è una previsione, sta già accadendo. Ad esempio il prezzo del rame, componente essenziale nell’industria elettronica, si è triplicato nel volgere di pochi anni.
Terminata questa necessaria premessa posso procedere a tratteggiare, a tinte purtroppo fosche, il futuro che ci aspetta nella prossima decade. Il primo inevitabile riflesso di questa situazione è che tutto finirà col costare più di prima, dai carburanti per autotrazione, ad ogni tipo di merce e manufatto, ai prodotti alimentari. E’ difficile prevedere che contraccolpi questo avrà sull’ordinamento sociale, ma la percezione dell’uomo della strada sarà di un progressivo impoverimento collettivo, e questo innescherà tensioni sociali a vari livelli.
Molte merci, di conseguenza, non si venderanno più, e cominceranno a riprender piede quelle attività artigianali legate al recupero e alla riparazione di oggetti usati. La corsa all’usa e getta degli ultimi decenni vedrà un’inversione di tendenza. Un altro cambiamento epocale riguarderà i trasporti, col declino da un lato dell’automobile privata, e dall’altro dell’insensato spostamento di merci da un capo all’altro del paese.
Coll’aumentare dei costi del carburante e delle materie prime ridiventerà concorrenziale il trasporto collettivo, su ferro e su gomma, mentre sulle tratte brevi si tornerà ad utilizzare la bicicletta, veicolo giunto ormai a livelli di efficienza ed affidabilità ben lontani da quelli a cui erano abituati i nostri nonni. Per contro l’espansione incontrollata del tessuto urbano subirà un brusco arresto via via che ci si renderà conto dell’impraticabilità di vivere troppo lontani dal proprio posto di lavoro. Un “urban sprawling” reso possibile dalla diffusione di massa del trasporto privato declinerà con esso, e si porrà il problema di recuperare i terreni ex-agricoli scomparsi sotto cemento ed asfalto.
L’aumento del costo dei carburanti per autotrazione si rifletterà direttamente sul costo delle derrate alimentari, prodotte fin qui grazie all’agricoltura meccanizzata. Si renderanno evidenti i nefasti effetti prodotti negli ultimi decenni con l’impoverimento dei suoli agricoli e, se non si arriverà nell’immediato a vere e proprie situazioni di emergenza alimentare, vedremo trasformarsi la nostra alimentazione nei termini di una riduzione del consumo di carni ed un simmetrico aumento del consumo di cereali. In prospettiva si torneranno a sfruttare quelle “terre marginali” che la meccanizzazione del lavoro agricolo ha reso non concorrenziali, innescando un flusso “di ritorno” dalle città alle campagne, ed il recupero di tecniche di coltivazione meno legate ai combustibili fossili.
Ma il passaggio probabilmente più drammatico riguarderà tutte quelle occupazioni figlie dell’attuale “filosofia dello spreco“. Non potendo più far fronte alle esigenze basilari, dal cibo ai vestiti al riscaldamento di casa, interi settori industriali legati al “superfluo” declineranno molto rapidamente, producendo un’ondata di licenziamenti e chiusure di attività. Tutta questa mano d’opera in esubero dovrà essere gestita con adeguate politiche sociali, sussidi di disoccupazione e quant’altro si renderà necessario nel lasso di tempo richiesto dall’assestamento nel nuovo paradigma del “consumo sostenibile“.
Molta di questa manodopera potrà essere riversata nel mercato delle attività artigianali, in lavori di riparazione e manutenzione dell’esistente, ma inevitabilmente si andrà incontro ad un periodo di insoddisfazione diffusa e tumulti sociali. Persone a cui è stato insegnato ad omologarsi ad un modello di vita basato sul possesso e sul consumo faticheranno ad adeguarsi ad un nuovo paradigma basato sul recupero, sul riuso, sulla parsimonia, e questo disagio sociale potrà essere facilmente strumentalizzabile a fini politici.
Perché il vero problema non sarà tanto quello di riabituarsi ad un livello di consumi e qualità della vita comunque superiore a quello vissuto dai nostri avi, quanto il fatto che questo assestamento sarà accompagnato da una percezione di arretramento rispetto alle aspettative maturate. Milioni di persone marceranno al grido di “ridateci quello che ci avevate promesso“, le istituzioni perderanno di credibilità e con molta probabilità si finirà col ricadere, da più parti, in forme di governo ed organizzazione sociale non democratiche, che avranno il loro corollario di guerre pretestuose e tragedie assortite, come purtroppo la storia del ventesimo secolo ci insegna.
Se questa escalation spazzerà via la civiltà come la conosciamo, o se invece si riuscirà a percorrere una transizione graduale verso la sostenibilità, non è dato saperlo, come pure non è dato sapere quando ed a quale livello di civiltà il processo finalmente si assesterà. Prevedere il futuro non è possibile. Anche questa rapida carrellata di eventi non è altro che un’estrapolazione basata su quanto ci è dato di sapere al momento. Esistono altri problemi, enormi, legati all’indebitamento dei paesi ed alla virtualità dei mercati finanziari che possono aggravare sul breve termine, e di parecchio, gli sconquassi poc’anzi previsti. L’alternativa di una crescita continua ed incontrollata è, probabilmente, ancora peggiore, perché non farebbe che posticipare nel tempo e rendere ancor più catastrofici gli eventi sopra descritti. Sarebbe per me paradossale, ma non implausibile, verificare a distanza di anni il sostanziale ottimismo di queste mie previsioni.
Ciao Marco,
molto interessante questa discussione però, sinceramente, non condivido buona parte di questa analisi sia sul presunto “preferire” di abitare fuori delle città per “un sogno della casa nel verde” sia sulle implicazioni indicate soprattutto sulle conseguenze negative del vivere fuori delle grandi cosmopoli.
L’inquinamento giusto per fare un esempio non si misura solo in termini di km percorsi in auto. La distanza poi della propria abitazione dal luogo di lavoro non si può misurare solo in km ma nel tempo necessario a raggiungerlo.
Potrei fare innumerevoli esempi in cui risiedere a pochissimi km dalla metropoli voglia dire inquinare molto molto meno rispetto a chi ha fa scelte diverse.
Una cosa importante è che i grossi centri abitati sono sempre stati solo UNA delle realtà abitative per le popolazioni.
Spesso (forse quasi sempre) le realtà sociali piu produttive e che producono meno inquinamento sono proprio i piccoli centri di poche decine di migliaia di abitanti rispetto alle grandi città che in un qualche modo sono a traino dei centri più piccoli. La storia (medioveo ecc) ci insegna che durante lunghi periodi di crisi le grandi città tendono a svuotarsi.
Spesso la pressione demografica e una nefasta concentrazione di attività lavorative in pochi centri di grandi dimensioni hanno costretto per motivi economici molti a risiedere nelle periferie delle grandi città. Ma questo è stato appunto l’errore.
Non è una scelta quindi, non è “preferire” è invece essere costretti. Ma bisognerebbe ragionare in termini diversi.
La verità è che l’errore è proprio il concentrare le attività in pochi centri che non è vantaggioso dal punto di vista di efficienza produttiva e meno che mai da parte di quello ambientale.
Oggi avremmo le tecnologie per permetterebbero di evitare questo ma non si ha la volontà o la lungimiranza di fare qualcosa di concreto come diffondere la cultura del telelavoro.
I carburanti sono impiegati per “condizionare” la temperatura di ambienti lavorativi e domestici molto oltre un ragionevole vantaggio per la salute soprattutto nei grossi agglomerati urbani.
Se ci fosse modo di utilizzare anche nei grandi centri urbani i mezzi poco inquinanti come la bicicletta come invece avviene nelle periferie e nei piccoli sobborghi ne trarremmo tutti vantaggio. Ma invece mentre dove abito io TUTTI i lavoratori che appartengono a strati sociali meno ambienti usano la bicicletta per recarsi al lavoro o a fare spese non vedo altrettanto accadere nel capoluogo soffocato dalla cultura del mezzo con motore a scoppio e da una mancanza di alternative.
Vedi Piste ciclabili ecc ecc
Francesco
Ciao Francesco
Non era mia intenzione colpevolizzare indiscriminatamente chi sceglie di vivere “fuori città”, men che meno te che, oltretutto, sei relativamente vicino al tuo posto di lavoro. Però potrei farti anch’io numerosi esempi di situazioni in cui “vivere fuori” diventa una scelta obbligata, ma penso che a prevalere siano scelte individuali basate sul paradigma della “crescita” (perché gli affitti sono alti, perché “mi compro casa, faccio un investimento”, perché il giardino, perché il silenzio, ecc, ecc…).
Converrai che lo sviluppo urbanistico di questo paese è avvenuto in maniera totalmente caotica, guidato solo dagli interessi immediatamente contingenti dei palazzinari di turno, ed il risultato è una condizione di perenne congestione delle arterie stradali, inquinamento, incidenti, stress, malattie, distruzione del territorio e della qualità della vita di chi ci abita.
Sarebbero servite politiche diverse di organizzazione del tessuto urbano, di sviluppo del trasporto collettivo su ferro, politiche volte a favorire il contenimento delle spese di affitto, ad esempio tassando gli appartamenti lasciati sfitti, come si fa in Danimarca, dove effettivamente l’esigenza di costruire nuove case e quartieri è molto più bassa.
Il fatto è che abbiamo lasciato che a governarci fosse un paradigma sostanzialmente egoista, abbiamo collettivamente abdicato all’idea che lavorando insieme con intelligenza si sarebbe potuto organizzare un modo di vita migliore per tutti. E questi sono i risultati.
Secondo me già si sta abbastanza male così, pensa cosa accadrà quando e se (ma sul “se” ho pochi dubbi) il modello di mobilità basato sull’automobile dovesse andare in crisi. Quanti si renderebbero conto di vivere troppo lontani dal proprio posto di lavoro. Quanti si renderebbero conto di non avere più un lavoro, perché in assenza di energia a basso costo quello che facevano è diventato superfluo? Quanti si renderanno conto che non ha più senso vivere alla periferia di una metropoli in mancanza di prospettive occupazionali. Sempre ammesso che la crisi alimentare non cominci a “mordere”.
Se giri per le campagne umbre e marchigiane vedrai decine di “case coloniche” abbandonate. In quelle case vivevano i contadini un secolo fa, a distanza di cammino dai campi che lavoravano. Poi sono arrivati i trattori ad arare i campi, e i contadini si sono ritrovati senza lavoro, quindi sono arrivate le automobili per vivere lontano dai campi, e si è avuto l’inurbamento. Io sono convinto che il processo finirà con l’invertirsi (prospettiva non entusiasmante, ma l’alternativa è anche peggiore) e a quel punto di cosa ci accorgeremo?
Ci accorgeremo di aver costruito case nuove e sfarzose in posti dove è diventato inutile possederne, e dovremo rimetter mano alle case in malora e abbandonate. Ci accorgeremo che siamo pieni di strade che non servono più a niente, perché non avremo più le automobili per viaggiarci sopra né le risorse per la manutenzione, mentre “sotto” le strade c’è (c’era) del buon terreno agricolo ormai inaccessibile.
Ci accorgeremo in sostanza di aver sprecato la più colossale ricchezza che l’umanità abbia mai avuto in dono, i combustibili fossili, non già per edificare un mondo migliore, ma per costruire un monumento globale all’imbecillità.
Caro Marco,
l’argomento è tra i più complessi, e nessuno sa dire come andrà realmente a finire.
Secondo me il vero fattore forzante rimarrà la crescita verso il benessere di quella parte dell’umanità che per adesso ne è esclusa.
Ne abbiamo avuto un piccolo esempio l’anno scorso, con il barile a 150 dollari… Poi è arrivata la crisi e il barile è crollato a 34 dollari.
Quello che ci vorrebbe è un periodo di incremento stabile dei prezzi delle matierie prime, in modo da darci iltempo di sostituire le tecnologie attuali. Comunque un primo risultato sarebbe ridurre di tre quarti le potenze impiegate… Quell che faccio con la mia auto da 60 KW, lo potrei fare anche con una da 15, e neanche servirebbe l’auto elettrica.
Per quanto riguarda le seconde case… Quelle a tiro di città sono divenute prime case, le altre rimangono praticamente abbandonate tutto l’anno già adesso! E’ bastato che le donne abbiano inziato a lavorare!
E poi… tutti in bici!
Prima di ridurre i consumi si deve evitare gli sprechi, razionalizzare l’utilizzo e la gestione delle risorse, qualsiasi esse siano.
Che senso ha, se non per puro egoismo, lasciare in standby? Che senso ha il condizionamento? Non credo serva andare avanti nel discorso, Marco ne ha delineato e rimarcato i contorni ma il succo, almeno qui dentro, sono convinto lo si conosca ttti.
M!!!
Ciao Lug
Io sono fermamente convinto che il miglioramento del “benessere” di paesi del terzo mondo comincerà quando noi smetteremo di pensare al nostro, depredandoli.
Sulla “crisi petrolifera” del 2008 le analisi sono diverse e discordanti, io penso che il prezzo sia prima impazzito per meccanismi propri del mercato finanziario, quindi “riportato giù” intenzionalmente per impedire il caos.
L’incremento stabile dei prezzi si sta già verificando, ma come scrivevo qui sopra il fattore determinante è il costo energetico, che non è una costante. Se il prezzo dell’energia sale alle stelle, il prezzo di tutto seguirà immediatamente.
Qui trovi una riflessione su quanto “pesi” il problema energetico sull’organizzazione delle nostre società.
E le case “abbandonate”… aspetta e vedrai. Già negli USA ci sono interi quartieri deserti a causa della fine della “bolla del mattone”, e queste case nuove che nessuno vuole o può comprare stanno già venendo saccheggiate da gente povera che ruba porte, infissi, termosifoni. Non continuo perché so di essere un pessimista, ma se davvero anche qui le cose dovessero cominciare ad andare veramente a rotoli… bisognerà scappare in Africa.
Vedi che feci bene a dirti di non mollare il tuo blog?
La maggior parte dei parlamentari in questo povero Paese non è minimamente in grado di avventurarcisi, in un’analisi del genere. Non importa se non condivido tutto. Il tuo tentativo di immaginare il futuro è davvero notevole (come la qualità della scrittura: chiarissima. Roba very very anglosaxon).
Ormai, quanti sono i politici capaci di immaginare il futuro?
Complimenti davvero,
tic
@ M
Non sei compreso nella precedente risposta perché ci siamo accavallati, hai inserito mentre ancora stavo scrivendo… Cmq. sul “lasciare in standby”, non sempre è così semplice spegnere. Esistono apparecchiature (p.e. il mio router wireless) che non hanno l’interruttore… ogni volta sono costretto a sfilare la spina dalla ciabatta! 😦
@ Tic
Grazie dei complimenti, ma non credo che un post letto forse da qualche decina di persone possa cambiare qualcosa. Sulla nostra classe politica ho poco da aggiungere, se non che in questo momento storico l’avere o non avere una “vision” del futuro è del tutto irrilevante, dato che l’elettorato stesso non ce l’ha. Non è un “parametro” che possa fare la differenza in termini di successo personale o del partito di cui si fa parte.
Semmai, mi azzardo ad affermare, si finisce ad essere bollati di “catastrofismo”.
Marco figurati, non è per la risposta che se ne parla, ti leggo perchè condividendo o meno i tuoi punti di vista, sei comunque spunto di riflessione, di approfondimento e di ragionamento. Il catastrofismo che ti attribuisci lo è solo in parte, a mio parere è molto di più analisi dei fenomeni.
M!!!
Sono rimasto assolutamente impressionato e affascinato da questo tuo post. Sono un socio di ASPO italia, e quanto tu scrivi coincide al 1000% con il pensiero critico di questa associazione, che a questo punto mi chiedo se per caso non ne fai parte anche tu.
Il libro “i limiti dello sviluppo”, uscito da poco in edizione rinnovata 40 anni dopo, è davvero un MUST che chiunque dovrebbe leggere, per iniziare almeno un po a capire come funziona il nostro mondo basato sui consumi forsennati e l’utilizzo cieco e furioso delle risorse non rinnovabili.
Quà il problema non è più essere daccordo oppure no con queste tesi, ma un po come per quanto riguarda il problema del cambiamento climatico globale, occorre farsi una domanda.
“Se questa è una prospettiva plausibile, possiamo permetterci di rischiare e continuare come se nulla fosse, facendo esperimeni sulla nostra pelle e sul futuro dell’intera umanità” ?
Io è da molto che mi sto ponendo questa domanda, e la mia risposta è un secco NO, non possiamo rischiare.
Abbiamo il dovere morale di intervenire, con ogni mezzo, sia operando sul nostro stile di vita, che facendo informazione, sia coinvolgendo attivamente i nostri ottusi amministratori confidando che si arrivi presto ad una “transizione morbida” verso una società improntata sulla sobrietà.
Altrimenti, dovremo comunque arrivarci by the hard way.
Paolo Marani
MIZ Cesena
Molto interessante la tua analisi. L’unica cosa che mi rende perplesso e che queste cose le avevo già lette nella mia antologia di prima media nel lontano 1972. Negli anni ’70 sembrava che le risorse e il benessere stessero già per finire. Si prevedeva che il petrolio sarebbe finito a metà degli anni ’80. Si parlava già della necessità di rieducare le masse a passare dai consumi individualistici ai consumi collettivi, di passare dalla macchine agli autobus, ecc. Invece poi c’è stato lo sviluppo consumistico degli anni ’80 che ha portato ad un benessere di gran lunga superiore a quello del boom degli anni ’60. Per farla breve, è stato tutto rimandato di 30 anni fino ai giorni nostri. Forse ciò ha solo rimandato il problema peggiorando la situazione. Chissà se questa è la volta buona e che non ci siano ancora altri rinvii.
Anonimo, chi ne parlava negli anni ’70 lo faceva già con una certa dose di ottimismo (o pessimismo). Già allora le previsioni del “Rapporto sui limiti dello sviluppo” datavano il picco a cavallo del cambio di millennio. L’idea era quella di cominciare a risparmiare… poi sono venuti i “meravigliosi anni ’80” ed il mondo si è abbandonato all’edonismo reaganiano. Ancora oggi non è certo a che punto di esaurimento siano le risorse fossili, e qualche nuovo pozzo potrebbe saltar fuori dai ghiacci polari che si stanno sciogliendo, ma non è ugualmente un’eventualità “positiva”. La forbice resta tra esaurimento delle risorse e fame globale, oppure economia “petrolifera” e dissesto ambientale. Scegli tu quale catastrofe preferisci.
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