Qualche settimana fa mi sono trovato a sostenere una discussione sulla contrapposizione tra fede e scienza: io ateo, il mio interlocutore cattolico. Stavo per l’appunto descrivendo il mio favore per la maggior affidabilità e rigorosità del pensiero scientifico-razionale, quando mi è stata posta una domanda interessante. “Se il pensiero scientifico-razionale è tanto più valido della fede, perché non la pensiamo tutti come te?”, ovvero: perché la maggior parte delle persone crede in un Dio?
“Probabilmente”, è stata la mia risposta, “perché ai fini evolutivi e della sopravvivenza degli individui, logica e razionalità non rappresentano necessariamente un vantaggio”. Risposta spiazzante, forse più per me che per lui.
Ritenere la razionalità “più esatta” ed al tempo stesso “meno vantaggiosa” della fede può a prima vista apparire paradossale. Non lo è se si considera il conforto che la fede è in grado di offrire in situazioni di sofferenza. Laddove il freddo razionalista cede alla disperazione e accetta la morte, il credente trova invece la forza di andare avanti e sopravvivere. Senza considerare quanto i gesti altruistici, vantaggiosi per il gruppo, ricevano impulso dalla promessa di una ricompensa nell’aldilà.
A breve distanza da questa intuizione arriva la segnalazione di un lungo ed interessante articolo sulla questione: “Darwin’s God”, pubblicato dal supplemento settimanale del New York Times, che fa il punto sull’acceso dibattito in corso tra gli antropologi. L’articolo merita sicuramente un’attenta lettura, forse addirittura più d’una. Per chi non avesse sufficiente confidenza con la lingua inglese mi limiterò a citarne le conclusioni.
Allo stato attuale il dibattito è ancora aperto sulla reale origine del nostro credere nel soprannaturale, c’è chi lo considera un sottoprodotto di altri adattamenti all’ambiente, c’è chi lo interpreta come un tratto evolutivo a sé stante, quello che appare evidente è la sua funzionalità in termini di sopravvivenza dell’individuo e, forse ancora di più, dei gruppi. Gruppi umani legati da un comune credo risultano infatti più coesi ed efficienti rispetto ad altri nei quali l’assenza di una fede comune produce spinte individualiste, che sulla distanza portano più facilmente a crisi, fratture e disgregazione e ad incidere negativamente sul successo evolutivo dei singoli.
In ultima analisi, conclude l’articolo, mentre tramonta la convinzione illuminista che il progresso scientifico porterà come naturale conseguenza il declino delle religioni, appare sempre più evidente che, indipendentemente da quante cose la scienza potrà spiegare, la fede continuerà a colmare quella lacuna strutturale nell’architettura mentale del cervello umano che corrisponde ad un “bisogno di sovrannaturale”.
Con buona pace degli atei razionalisti.
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